Avevo riflettuto diversi anni fa sulla contrapposizione tra “nodo” e “chiodo” durante un viaggio in Mongolia (qualche stralcio del mio “diario di viaggio”, con mia sorpresa, si trova ancora qui): il primo, il nodo, è segno di un nomadismo, di un fermarsi il tempo necessario. Il nodo poi si scioglie senza lasciare tracce. Il chiodo invece è la sedentarietà, la permanenza in un luogo, il costruire casa, il lasciare un segno (sull’ambiente) il più delle volte indelebile. I mongoli sono (stati) per lo più nomadi, e anche in tempi recenti, nonostante alcune oggettive difficoltà (come quella, per esempio, di offrire una istruzione continua ai propri figli), sui due milioni e mezzo di persone presenti (gli abitanti complessivi di una metropoli italiana) su un territorio che per estensione è 5 volte il nostro Paese, solo 6-700mila potevano definirsi “residenti” nella capitale (salvo cambiare idea e ricominciare a viaggiare con le proprie yurte…).
Tutto questo per dire che sono arrivato a festeggiare ieri sera il 1° maggio guardando il pluripremiato Nomadland che unisce il tema di un inedito nomadismo in salsa USA al tema – non marginale – del lavoro. Inutile raccontare la trama, visibile ovunque sul web, esile traccia per raccontare questa storia interpretata dalla sempre notevolissima Frances McDormand (che ricordavo benissimo in un’altra splendida interpretazione: Tre manifesti a Ebbing, Missouri) che troviamo sul punto di andarsene con un furgone, portando con sé poche cose accuratamente scelte – ah il nomadismo, che bell’esercizio! – da un posto, come ce ne sono tanti nel mondo, che normalmente viene definito “in mezzo al nulla” (in the middle of nowhere, le dice proprio la sorella a un certo punto), in Nevada.
La trama, come nella migliore tradizione cinematografica, viene svelata in media res e quindi scopriamo che Fern, la protagonista, ha abbandonato questo avamposto di frontiera (il paesino si chiama Empire – nome decisamente altisonante! – a cui, dopo la chiusura della locale miniera nella quale il marito lavorava, hanno addirittura tolto il codice di avviamento postale…) perché la crisi ha colpito duro e di lavoro non ce n’è. Il marito nel frattempo è morto di tumore ed è il suo unico legame con quel posto nel quale tenta di resistere per un po’ adattandosi, ultracinquantenne, a quei lavori che rientrano appieno nella gig economy (la vediamo all’interno di un hub Amazon in un paio di occasioni… a proposito di diritti dei lavoratori).
Resiste perché lì il marito era ben voluto, aveva trovato una sua dimensione e, non avendo parenti, era solo al mondo. Se è vero – come forse è vero – che viviamo oltre la nostra vita solo grazie al ricordo che qualcuno conserva di noi dopo che siamo passati a miglior vita, Fern a un certo punto confessa di essere rimasta lì, di aver tentato di resistere proprio perché, se se ne fosse andata, è come se il marito non fosse mai esistito.
Non c’è bisogno di dirlo: parliamo di un mondo di cui quasi mai ci arriva notizia, e sono questi Stati Uniti “interni”, marginali, rarefatti – di persone, di parole (l’ambientazione per certi versi mi ha ricordato Nebraska) e di cose che accadono. Un mondo in cui il meccanismo impietoso del capitalismo e del denaro, per cui l’unica misura del tuo benessere complessivo è proporzionale a quanto possiedi, trita tutto e tutti, lasciando ai margini persone ormai avanti con gli anni, che magari hanno lavorato una vita, ma che non sono riuscite a mettere da parte abbastanza per garantirsi un fine vita dignitoso e decidono quindi questa strada alternativa, che fuor di metafora, è la strada vera e propria, quella del nomadismo stagionale: si va dove c’è bisogno di lavoro, magari anche per paghe minime.
Così Fern inizia questa vita e scopre di non essere sola in questi “transiti” e in questo subisce una specie di trasformazione: già – come le dice la sorella – era una persona eccentrica in gioventù, ma adesso questa specie di nomadismo le entra nel sangue e, anche quando avrebbe l’occasione per fermarsi, non ci riesce più. Il film si chiude così, “leggero” ma “pesante” (questa la bravura della regista…), con Fern alla guida del suo furgone, riadattato a vera e propria casa, su una strada deserta degli States perché il motto è See you down the street, in nome di una vita sicuramente con meno agi, ma di ritrovata libertà e solidarietà.
Bello. Brave – perché il film è tutto al femminile e prende spunto da un libro-inchiesta che è stato pubblicato lo scorso anno anche in italiano (questo qui).
Infine c’è la bellezza di questi luoghi naturali che gli States offrono, ancora così apparentemente incontaminati: un ritorno alla Natura che è sempre sinonimo di libertà.