Se ripenso alla mia vita in prospettiva e su un tema così delicato come la sicurezza sul lavoro, la vedo costellata di morti. Bambino, poi adolescente, poi giovane uomo, ho vissuto quella parte della mia vita a Massa, sotto quelle montagne, le Apuane, da cui da sempre si cava il marmo. In tutti quegli anni è stato uno stillicidio continuo sui “bollettini”, quei cavalletti che le edicole-chiosco mettono fuori con i titoli dei giornali locali. Continuo e per questo non ha mai fatto davvero notizia perché la notizia – e l’attenzione mediatica che ne segue e l’indignazione che nelle persone dovrebbe seguirne, spesso senza costrutto ulteriore – è la grande tragedia, è il Vajont, dove in un colpo solo muoiono 1917 persone. Sulle cave di marmo ne sono morti sicuramente di più e soprattutto sono morti sul lavoro, ma per arrivare a 2000 morti magari ci vogliono 4 anni (la media la deduco da questo articolo che offre delle cifre per gli anni 2015 e 2016).
Poi è successo che da giovane uomo vinsi un concorso nelle ferrovie dello stato e per 10 anni feci il macchinista. Anche lì non è che non si morisse. Magari meno, ma qualcuno ogni tanto ci lasciava la pelle: giovani manovratori che sottovalutavano il rischio – o sopravvalutavano la propria prontezza di riflessi – e rimanevano schiacciati tra due respingenti e anche per i macchinisti non è che andasse meglio. Quando ero in servizio, nel 2000, morirono 6 colleghi in uno scontro frontale tra due treni merci, a Solignano (PR): con uno di questi, Piero Ripamonti, avevamo fatto un turno insieme due giorni prima (Repubblica, nel suo archivio, riporta ancora la notizia qui), ma anche gli altri li conoscevo tutti, perché all’epoca non ero in servizio fisso con qualcuno ma cambiavo collega di volta in volta.
Poi ho smesso di fare quel lavoro che è diventato via via sempre più pericoloso e le morti sul lavoro, meno vicine, sono rimaste dolorosamente cronache di giornale, fino ad arrivare all’attenzione mediatica di questi giorni, sulla morte della giovane donna e madre, Luana D’Orazio, operaia “inghiottita” dall’orditoio al quale avevano asportato dei dispositivi di sicurezza per aumentarne la produttività. Già questa cosa, l’aumento della produttività in “catena di montaggio” – anche se quella non era una catena di montaggio – sa tanto di sistema fordista, di “tempi e metodi”. Una roba inizio ‘900 insomma, ma rimasta nella testa del “padrone” per un profitto da conseguire a tutti i costi. Ma adesso arriva la seconda follia, perché l’aumento della produttività della macchina “senza freni” d sicurezza è stata stimata dalla Procura che ha svolto le indagini, in un miserrimo 8%. Premesso che non conosco il volume di affari di una impresa di questo genere, che però non sembra(va) – dalle immagini televisive – essere la megaindustria ma un capannone in una remota zona industriale di un remoto luogo della Toscana, a Montemurlo, in provincia di Pistoia. Allora di quali soldi stiamo parlando? Perché per mettere a rischio la vita di una persona bisognerebbe, nella follia di questa idea di profitto, che i soldi che ne se hanno in cambio siano molti di più di quel che corrisponde a un aumento di produttività di una sola macchina dell’8%, o no? Ma davvero questo vale la vita delle persone?
Maurizio Landini, segretario generale della CGIL, è stato ospita a TG Post la sera del 7 ottobre. Tra gli ospiti collegati, gli operai di due aziende in attivo e che, prima della chiusura, hanno continuato a produrre fino al giorno prima di essere chiuse (altra follia tutta italiana). Landini si barcamena con i “faremo”, “diremo”, “agiremo” e poi parla della formazione sulla sicurezza, pressoché assente sui luoghi di lavoro. Se penso alla mie esperienze di corsi sulla sicurezza mi sovviene il ricordo di cose barocche e pallosissime, al limite dell’edonismo di chi quei corsi li teneva. Se penso alle recenti esperienze di mia moglie, da poco a tempo indeterminato nella scuola con tutti gli onori e gli oneri che ne conseguono, vedo le ore obbligatorie di corso fatte, per esempio, ieri sera, venerdì, alla fine della settimana con un sabato mattina lavorativo, dalle 17,30 alle 19,30, con un powerpoint letto pedissequamente e in tono monocorde dall’ingegnere preposta a, con un quiz da fare a fine lezione. Questione coercitiva e disperante, la sicurezza del lavoro, viene da dire, se questa è la sua espressione. Ah dimenticavo: siccome le ore obbligatorie da fare sono 10 e pare non ci sia altro orario (e soprattutto altro giorno) possibile, ma alcuni, a fine lezione, hanno sollevato obiezioni, il corso è stato spostato di mezz’ora in avanti: così dalle 18 alle 20 uno è di sicuro più attento a quel che “l’ingegnere preposto a” avrà da leggere sul suo powerpoint…