Ieri sera sono andato al cinema a vedere Captain Fantastic, un film interessante che ripropone un tema antico almeno quanto l’Uomo: quello del pendolo tra “Natura” e “Cultura” lungo cui oscilla la nostra specie, la cui eco maggiore ci arriva, in tempi moderni, con il mito del buon selvaggio di Rousseau. Il film in realtà è più complesso di così, ma avrò occasione di ritornare sulla questione.
Un altro film, ormai di qualche anno fa, che mi impressionò abbastanza – anche perché tratto da una storia realmente accaduta – fu Into the Wild, che per certi aspetti, arriva da una situazione diametralmente opposta. In quest’ultimo film il protagonista, un giovane, decide di abbandonare la civiltà e provare “a cavarsela” da solo, per altro in regioni remote e fredde, ai confini con l’Alaska. Morirà di inedia e di malattia, incapace di cacciare e – quand’anche ha successo – incapace di trattare (macellare, conservare) la carne dell’animale che ha ucciso.
In Captain Fantastic la scena con cui la pellicola si apre è invece proprio questa: non solo il successo nella caccia che vede riproporsi la consacrazione rituale del passaggio da giovane del clan/piccola tribù (in realtà: popoloso nucleo familiare) a uomo, ma un sistema ben congeniato dal capo clan – il padre – che vede tutti gli elementi della famiglia coinvolti in un certo numero di attività giornaliere che vanno dal continuo allenamento nel “cavarsela” appunto (in quella sconfinata palestra che è la Natura intorno a loro) al farsi una cultura, rigorosamente da autodidatta. E questo è invece il secondo – e forse alla fine più importante – punto critico del film: alla base della fuga qui c’è il rifiuto della società occidentale (americana) e delle sue regole così per com’è strutturata (consumista), compresi gli aspetti culturali: il giovane che nella scena iniziale diventa uomo uccidendo l’animale è lo stesso giovane che, tentate le prove di accesso alle migliori università statunitensi, le passa in diverse di queste e non avrebbe che l’imbarazzo della scelta (e, in un sistema come quello statunitense, il quasi garantito accesso all’establishment che governa il paese) ma rinuncerà a tutto questo, in favore della libertà. Pensieri che, almeno personalmente, non mi sono estranei, avendo avuto almeno un professore alle scuole superiori che aveva un suo personale concetto del superuomo a cui l’allenamento (e l’isolamento) di questa famiglia nel film sembra tendere.
Tornando alla linea generale del film, la dinamica è dunque in realtà opposta: non la fuga dalla civiltà, ma un forzato ritorno ad essa a causa di un lutto: la morte della madre, suicida forse per l’eccesso che questa vita “senza compromessi” richiedeva. Il nodo non viene mai sciolto nel film: il padre/capo clan viene ovviamente accusato di essere l’artefice della morte della donna, da lui trascinata in questa “vita da buon selvaggio”; questi si difende dicendo che l’ha fatto in buona fede, sperando e pensando che questo “ritorno alla natura” giovasse in realtà alla sua fragile psiche. Sono quindi costretti a tornare dai parenti e il nodo focale del film è centrato su questo “scontro di civiltà”: i ragazzi sono di fatto dei disadattati se visti con gli occhi della società con cui entrano in contatto; sono invece dei piccoli übermenschen se visti con gli occhi dello spettatore: capaci di cavarsela “senza società” (quindi senza supermercati) e con una cultura di gran lunga superiore ai loro coetanei.
Dopo il trauma la via sarà “nel mezzo”. Il film si chiude con la soluzione di compromesso: l’abbandono della foresta per tornare a una vita rurale, ma integrata in un consesso civile, magari al margine, ma come passaggio obbligato a evitare le recriminazioni tipiche degli adolescenti che non vogliono essere dei disadattati ma, ambiscono a essere “come gli altri” e solo quando forse sarà tardi si accorgeranno che sarebbe stato meglio essere diversi dagli altri.
Insomma: film che tocca i temi propri – mi permetto un siparietto pubblicitario – della collana editoriale che stiamo inaugurando: Apocalottimismo.