Conobbi Marco Paolini alla Centrale Montemartini di Roma, una vecchia centrale elettrica dismessa, ora funzionante come museo e spazio espositivo – ottima riqualificazione di quella che va sotto il cappello di “archeologia industriale”. Era non so più se il 1995 o 96 ed ero lì con la mia fidanzata dell’epoca per seguire i lavori di un convegno di Legambiente. La sera stavamo uscendo e vedemmo su una lavagna, scritto un po’ di fretta, “stasera ore 21,30 “Il racconto del Vajont” di Marco Paolini”. Decidemmo di cambiare i nostri piani e, anziché goderci la capitale, finimmo per assistere a questo racconto di cui nulla sapevamo, che si svolgeva in uno spazio neppure troppo grande e con neppure troppe sedie. Infatti non eravamo moltissimi, ma fummo tutti rapiti e rimanemmo a bocca aperta. Quella narrazione – che in qualche modo inaugurava un nuovo prolifico ciclo di quelle che vennero poco dopo battezzate “orazioni civili” – avveniva già “alla lavagna”, utile vademecum per orientare e dipanare i fili di una storia lunga e complessa. Tutto passò in un batter di ciglia e, complice il fatto di essere pochi e in un contesto alla fine poco formale (non un teatro), approcciai Paolini alla fine, per fargli i miei complimenti e per buttare lì la domanda: “ma… questa storia dei treni… come fai a sapere queste cose?”; risposta: “mio padre era macchinista”; e io: “anch’io lo sono”. E da lì in poi la discussione prese tutta un’altra piega: si parlò di locomotive, di potenze, di carrozze, di treni insomma.
Ci scrivemmo, anche. Non mail, che ancora avevano da venire, ma vere e proprie lettere. Uno scambio breve e molto dilatato nel tempo: erano quelli i tempi del decollo in cui lui cominciava a diventare (meritatamente) famoso, grazie a questa storia del Vajont. Ognuno tornò alle proprie cose e io, da sempre sensibile alla “questione apuana” – le mie montagne, quelle da cui arrivo e che all’epoca ancora frequentavo assiduamente – avevo in mente una narrazione simile a quella del Vajont, legata all’epopea ma anche alla tragedia del marmo. Epopea e tragedia che non riassumo qui, altrimenti un post, per quanto lungo non basta, ma un’epopea perché riguarda generazioni di persone che, anche solo meno di un secolo fa, attaccavano la montagna quasi a mani nude per cavarne quel marmo prezioso – perché il marmo è un materiale prezioso e quello di Massa e Carrara lo è più di tutti – destinato a ornare chiese e palazzi, e moschee e sedi prestigiose di istituzioni in tutto il mondo, a forgiare statue viste da tutto il mondo. Epopea accompagnata dalla tragedia delle troppe morti sul lavoro ed epopea che la tecnologia ha banalizzato, trasformando la tragedia degli uomini in quella della montagna: adesso si va su con il fuoristrada, i quasi diecimila cavatori di inizio ‘900 si sono ridotti a meno di 1000 “addetti cava”, sostanzialmente operai specializzati, che in un turno di lavoro affettano blocchi di marmo di tonnellate, già delle esatte dimensioni, destinati a far piastrelle e pavimenti e non statue. Addetti che guadagnano bene, non fanno nessuno sforzo, non hanno il minimo rapporto con la montagna. Una tecnologia che affranca dalla fatica ma nello stesso tempo neutralizza (nel senso di rendere neutro) ogni rapporto con la montagna stessa. Addetti la cui produttività pro capite – lo si può immaginare – non è neppure confrontabile con l’esercito di persone che lassù ci doveva arrivare a piedi per starci una settimana. Non mi si fraintenda: non sono un nostalgico e neppure ce l’ho con questi addetti, che pure fanno il loro lavoro. Solo è che le cose sono cambiate e anche molto e anche alla svelta. Una cosa che ho imparato bene nel mio dottorato è che aumentare l’intensità di sfruttamento di una risorsa disintegra ogni equilibrio, soprattutto quando la risorsa è non rinnovabile, come nel caso di marmo e petrolio. Così interi ecosistemi o microecosistemi (legati al fatto che si tratta di montagne calcaree che arrivano a 2.000 metri di altezza e stanno di fronte al mare, a 10 km) – fatti per esempio di una flora che solo lì cresce – sono andati o stanno andando a puttane (mi perdonerete l’espressione forte). In nome del profitto – qui più che altrove: di pochi. Certo qualcuno penserà: ecco il solito ambientalista che per salvare il fiorellino sarebbe disposto a cancellare un intero distretto economico. Non è così e il discorso è assai più complesso. Ci sarebbero (state) delle sane vie di mezzo che si sarebbero potute perseguire, senza arrivare alla follia di spianare letteralmente un passo montano, abbassandolo di 400 m, come quello della Focolaccia (qui per vedere di cosa stiamo parlando e qui un articolo de “Il Tirreno” sul ridicolo ruolo giocato dal Parco e di amministrazioni da sempre prostrate all’interesse economico – l’articolo è il classico esempio di quando si cerca di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati…).
Insomma: la solita storia, in “salsa apuana” che mi sarebbe piaciuto veder raccontata da Paolini. Così gli scrissi con passione di questo progetto. Ma – forse prevedibilmente? – non ebbi risposta. Continuai a seguirlo, ovviamente: un buon narratore è pur sempre un buon narratore, ma già in quella prima non risposta, notai la discrepanza tra il Marco Paolini reale e quello che in qualche modo mi era sembrato di veder trasparire dal phatos con cui narrava la vicenda del Vajont e che avevo in qualche modo idealizzato, immaginando, non so perché, avrebbe potuto raccogliere la sfida di raccontare le Apuane.
Così non fu e gli anni passarono fino a questo Le avventure di Numero Primo, che è libro e spettacolo insieme. Comprammo il libro che sin dal titolo vorrebbe strizzare l’occhio e/o rendere omaggio a Le avventure di Pinocchio, lo leggemmo senza rimanere a bocca aperta e decidemmo comunque di andare a vedere lo spettacolo a Pontedera il 17 febbraio scorso – e anche questo non ci fece rimanere a bocca aperta. Ne emerge una storia tecnofuturibile, non distopica – se non per la solita multinazionale che trama nell’ombra – basata su una intelligenza artificiale evoluta (quella del protagonista bambino Numero Primo), su persone che muoiono ma non sono veramente morte (dando seguito a quell’altra follia tecnottimista del postumanesimo/transumanesimo) e altre amenità di questo genere da cui, soprattutto, emerge un Paolini tecnofilo, con una visione del futuro in cui la tecnologia (e non più la scienza, relegata a un ruolo quasi ancillare) salverà il mondo. Un Paolini che dice di essersi documentato a lungo – e c’è da credergli – ma, secondo il mio modesto avviso, andando dalle persone sbagliate, dimostrando di non aver letto Collasso di Diamond, di non aver sfogliato The Collapse of Complex Societies di Tainter, di non aver dato un’occhiata ai classici di sempre come I limiti dello sviluppo (e gli aggiornamenti fatti negli anni successivi), di non aver preso in considerazione il Greer di The Long Descent e l’Heinberg di The End of Growth (piccolo spazio pubblicità: entrambi di prossima pubblicazione in traduzione italiana con Lu::Ce edizioni) in cui si dice tra le tante altre cose che, se si continua così, non ci sarà tecnologia capace di salvare alcunché perché mancheranno fisicamente i materiali, perché mancherà fisicamente l’energia per realizzare questi dispositivi che sono solo nella mente di un pur abile affabulatore come Marco Paolini, che forse non è a conoscenza di un dato molto facilmente reperibile come quello sul traffico aereo, per esempio, negli Stati Uniti, dove ogni giorno partono e arrivano più di 87mila voli aerei. Ogni giorno, che in un anno diventano trentunomilioniesettecentocinquantacinquemila e via così, se si volete divertire con le cifre. Questo solo negli Stati Uniti (il dato è qui). Ce la faremo? La Terra quanto a lungo potrà sopportare questo – e il molto altro – che stiamo facendo? Mi correggo, perché come dice Meadows, il problema non è della Terra, che in qualche modo se la caverà, come se l’è sempre cavata in passato: noi ce la faremo? Non una parola su questo. Siamo alle magnifiche sorti e progressive.
Insomma: che peccato! Era partita così bene tanti anni fa con il Vajont per finire un po’ così, attaccato al treno (a proposito di treni…) di un format che lo ha reso vincente, ma attento al marketing (“fuori ci sono i libri, poi mi fermerò per firmarli se qualcuno desidera” – tutti abbiamo visto i libri, visto che per entrare in teatro ci si passava davanti…) e con un atteggiamento mainstream che getta Marco Paolini nell’oblio delle tante voci, incapace, come tanti, di una critica vera al sistema.