La sindrome Dogville
Certo è che se lo stato (emotivo, psichico, morale) di un Paese lo si dovesse dedurre quasi esclusivamente (ma questo “quasi esclusivamente” è ciò che in realtà ahinoi accade…) da quel che produce in ambito artistico e nella fattispecie televisivo/cinematografico, beh allora gli Stati Uniti sarebbero davvero messi male. Voglio dire: personalmente – non avendo contatti diretti con persone che lì vivono – mi faccio un’idea di quel che di là dal mare accade sbirciando magari sul New York Times, ma più spesso sentendo i telegiornali italiani che riferiscono quasi sempre solo di scandali o violenze e uccisioni o, come a molti di noi accade, vedendo più o meno “passivamente” (ovvero: quello passa il convento perché “fare igiene” – come diceva un vecchio amico – anche su questo costa, come per tutte le cose, fatica) film o serie tv che da lì arrivano. Personalmente sono un po’ stufo. Con mia moglie ci abbonammo su Netflix: prima che ci conoscessimo non era mia abitudine seguire serie TV, ma sono stato “contagiato” da questa “malattia”, con la scusa di mantenere vivo almeno un po’ l’inglese passivo dell’ascolto e nello stesso tempo non essere ammorbati dalla pubblicità.
Così che siano film, che siano serie, gli ingredienti e la salsa sono sempre quelli: violenza (fisica o morale), competitività estrema, sesso e potere. Ma la vita somiglia anche solo vagamente a questa roba qui? E anche fosse: si riduce a questi estremi sempre e comunque?
Da qui il mio essere stufo e il cercare – pur sempre nel canone Netflix da cui mi aspetto poco – qualcosa di vagamente più articolato, che ho trovato ultimamente nelle serie La casa di carta (Spagna) e Dottor Foster (Regno Unito). Di quest’ultima, che tratta temi “classici” ed evergreen come il tradimento coniugale, l’aspetto che mi ha colpito è il sottile ma tenace filo che collega (secondo me) la storia della protagonista a un vecchio film, Dogville (2003), di Lars von Trier – con protagonista una bravissima Nicole Kidman e, nel suo piccolo, un film che ha girato relativamente poco nelle sale, italiano, sullo stesso tema: Il vento fa il suo giro (2005) di Giorgio Diritti.
Non è questa la sede per narrare le trame (che si trovano un po’ ovunque) e dei due film e di questa serie, ma è impressionante quanto sia determinante il contesto nelle vicende che si narrano. Il leitmotiv è l’essere finiti in un posto piccolo (paese, villaggio, cittadina) da uno remoto, ma certamente con un’altra mentalità e presumibilmente più grande (in Dottor Foster con certezza sappiamo che la protagonista arriva da Londra). E questo posto piccolo, all’apparenza accogliente e dove sono tutti amici si rivela presto un inferno per l’estraneo che in qualche modo perturba – pur avendone in tutti e tre i casi sacrosante ragioni – la quiete e il quieto vivere del paesino. La protagonista (perché alla fine le donne sono protagoniste e “pietre dello scandalo”) in tutti e tre i casi è costretta ad azioni eclatanti per smuovere coscienze inamovibili e votate sull’altare del quieto vivere in nome del quale sacrificare sostanzialmente tutto (e tutti): dignità, etica, rapporti personali, amicizie, persone. Nonostante queste azioni eclatanti si ritrova sostanzialmente sola a combattere la propria battaglia, comprendendo di essere circondata sostanzialmente da una manica di stronzi (si può dire vero?).
Insomma: scenari inquietanti che mostrano “l’altra faccia” della provincia, quella che non vorremmo mai sperimentare sulla nostra pelle (allora meglio i film “sparatutto” in cui giustizia e vendetta sono realizzate a colpi di pistola?).