L’estate, si sa, per chi rimane a cavallo tra città e vacanza, è fatta, per chi è cinefilo e durante l’inverno si è perso qualche film, anche di arene estive. Spesso commoventi (almeno: lo è l’Arena Roma, proprio dietro la torre di Pisa) per la loro intimità, per i loro baracchini posticci che devono durare solo la stagione, che vendono gelati e caffè. Dove, chi è fumatore non è ghettizzato e può liberamente accendersi una sigaretta e annebbiare per quel poco una parte dello schermo a chi sta dietro.
Ebbene, l’altra sera siamo andavi a vedere “Lei”, un film semifantascientifico che racconta di un mondo non lontano dal nostro, ombelicale, con gente perennemente connessa, all’interno della megalopoli (Los Angeles, mi pare di ricordare) la cui dimensione della solitudine è data dalla selva urbana, nella quale il protagonista si innamora di un sistema operativo “evoluto” e di intelligenza artificiale che, in quanto tale, è pervasivo di ogni intimità della persona.
Insomma: l’estremizzazione – neppure troppo – della follia nella quale siamo immersi. I temi del film sono i “grandi classici”, mescolati un po’ ossessivamente: la solitudine dei tempi moderni con la schizofrenica discrepanza tra l’essere sempre connessi e non avere nessuno che “chiama”; l’intelligenza artificiale con un limite molto ben descritto altrove da grandi classici come “Blade runner”, basato sul geniale e visionario romanzo di Philip K. Dick; la melensaggine di una storia d’amore virtuale e l’incapacità di vivere storie “vere” con persone in carne ed ossa.
Molto ci sarebbe da discutere su un film come questo per i temi che tratta, ma l’impressione è quella di un mondo (il nostro, occidentale e ombelicale) condannato alla solitudine appunto, alla quieta disperazione di un quotidiano che non lascia spazio ad altro che non sia lavoro e rapporti interpersonali ridotti all’osso. Gli ingredienti sono mescolati male però: troppa carne al fuoco, trattata con una certa superficialità – secondo il mio punto di vista.