Di questi giorni la notizia dell’orso in fuga. Si chiama M49, forse come Primo Levi si chiamava 174517. Ne I sommersi e i salvati lo stesso Levi racconta:
L’ operazione era poco dolorosa e non durava più di un minuto ma era traumatica. Il suo significato simbolico era chiaro a tutti: questo è un segno indelebile, di qui non uscirete più; questo è il marchio che si imprime agli schiavi ed al bestiame destinato al macello, e tali voi siete diventati. Non avete più nome; questo è il vostro nuovo nome. La violenza del tatuaggio era gratuita, fine a se stessa, pura offesa: non bastavano i tre numeri di tela cuciti ai pantaloni, alla giacca ed al mantello invernale? No, non bastavano: occorreva un di più, un messaggio non verbale, affinché l’ innocente sentisse scritta sulla carne la sua condanna.
Può sembrare blasfemo accostare la sorte di un deportato di Auschwitz a quella di un orso che cerca solo la propria libertà, ma uno dei percorsi che dovremmo cominciare a fare – se vogliamo far “pace” con questo pianeta che ci ospita – sarebbe quello di pensarci animali tra gli animali.
Appena ho letto la notizia ho pensato che a quest’orso sarebbe toccata una brutta fine, perché se, come dicevano i latini, nomen omen, nel nome è contenuto un presagio (o forse il destino), beh, allora avere per nome una sigla non porterà molto bene al fuggitivo.
Homo sapiens sapiens (due volte, manco una!), padrone incontrastato, sta disintegrando il pianeta che lo ospita – su questo non v’è più ormai alcuna ombra di dubbio. La questione climatica – che è quella più evidente e quindi quella con cui i media ci bombardano – non è che la punta dell’iceberg e curiosamente ne esistono molte altre che “non si vedono”, ben più importanti e capaci di farci fracassare contro l’iceberg stesso ben prima che il clima renda insopportabile la vita umana sul pianeta. Tra queste: la questione energetica e la biodiversità.
Tra chi si occupa professionalmente o anche solo per sensibilità e curiosità personali di queste faccende, sa che uno studio* di Vaclav Smil, pubblicato qualche anno fa, faceva una stima della biomassa (cioè del peso totale degli esseri viventi, vertebrati, terrestri – quindi senza contare i pesci) i cui risultati sono espressi in questa immagine qui sotto.
Come si vede, il “selvatico” è quasi del tutto scomparso dalla faccia della terra e, con lui, quella parte di biodiversità utile a far funzionare i meccanismi prodigiosi e per la maggior parte ancora ignoti propri dei sistemi ambientali, degli habitat che l’Ecologia studia, che qualcuno faticosamente tenta di modellare, ma di cui continuiamo ad avere una vaghissima idea, nonostante si sia andati sulla Luna 50 anni fa.
In viaggio di nozze siamo andati in Sri Lanka, l’antica Ceylon, all’inizio del 2017. Tra le tappe previste anche una visita al Parco Nazionale di Yala, dove abbiamo dormito, in un bungalow all’interno del Parco. Detta così, sembra cosa di nulla, ma a ogni angolo qualche cartello ci ricordava gentilmente che noi eravamo ospiti e che i “padroni di casa” erano gli animali (dai lemuri ai cinghiali, dai coccodrilli agli elefanti, ai serpenti, ai camaleonti). Per uscire e andare nella struttura centrale (per i pasti) dovevamo chiamare e farci venire a prendere da una guida.
Queste precauzioni non perché gli animali potessero attaccarci, quanto per il fatto che la media degli umani che si affaccia in queste zone non ha idea di come ci si debba comportare e tende ad andare a rompere le scatole così… da venire attaccati! Abbiamo convissuto con gli ipnotici coccodrilli che se ne stanno a bocca aperta a mezz’ore intere, ma se non ti avvicini troppo loro si fanno i fatti loro – come tu dovresti farti i tuoi…
Ci hanno raccontato (e speriamo sia vero…) che il Parco è per i 4/5 (mi sembra di ricordare) “riserva integrale” (ovvero: neppure i guardiaparco ci mettono il naso, se non sporadicamente) e ha la più alta concentrazione di leopardi al mondo. Forse, per fare “pace” con il pianeta e soprattutto con le creature che lo abitano bisognerebbe seguire l’idea espressa in Metà della Terra da Edward O. Wilson.
* Smil, V. 2011. Harvesting the biosphere: The human impact. Population and Development Review 37(4) : 613–636 (il PDF dell’articolo è qui)