«Cercare ostinatamente la verità e marciare verso ciò che è giusto è un processo infinito. Fermarsi, anche solo per un attimo, significa fallire. Marciare verso il cambiamento è come avere due aghi ai piedi con un filo invisibile che ti segue e non si ferma mai mentre continui a marciare. Con la convinzione che un po’ di speranza sia migliore di un’immensa disperazione, andiamo avanti con costante determinazione ancora una volta.»
Questi “i titoli di coda” di una serie coreana – dal titolo un po’ anonimo, Stranger, e per altro confondibile molto facilmente con un’altra serie sempre presente sulla piattaforma Netflix, The Stranger, che però è un’altra cosa… – che ho finito di vedere qualche sera fa. Perché in un momento come questo, e forse anche nei momenti che seguiranno a questo, in cui sarà oggettivamente più difficile spostarsi in giro per il mondo, uno dei modi “virtuali” per vedere altri mondi e modi di vivere è quello, forse un po’ banale, di guardare delle serie televisive che da quei mondi lontani vengono. Per carità: la Corea (quella del Sud) è “Occidente”, a volte più occidente dell’Occidente come stile di vita metropolitano, e fin qui nulla di nuovo sotto il sole.
Ciò che a me però interessa sono le storie ed essendomi abbondantemente stufato di quelle statunitensi et similia – in cui, come ai bambini, si racconta che da una parte ci sono i buoni e dall’altra i cattivi; che i buoni, nonostante tutto, vincono anche se non hanno tante armi (perché quasi sempre di pistole e di ammazzamenti si parla) come i cattivi ma sono più intelligenti e buoni appunto, ecc. ecc. – vado spesso in cerca di storie diverse o, se non è possibile averle diverse, declinate in altre salse. E in effetti la storia di Stranger alla fine è una storia abbastanza normale: il protagonista è un procuratore che a causa di una malattia (tumore? non lo sappiamo) da ragazzino subisce una operazione al cervello, mantiene integre le proprie facoltà (anzi: quella della memoria diventa prodigiosa) al prezzo di una alessitimia che lo rende, appunto, un po’ strano o “estraneo” soprattutto nei momenti di convivialità.
Il suo alto senso della giustizia lo rendono inattaccabile e il potere – anche quello di chi è sopra di lui – in sostanza gli fa un baffo. Sembra sempre non aver nulla da perdere e questo, nella sua mitezza, ce lo rende simpatico perché è un “puro”, completamente fuori dai giochi di potere. Forse anche qui non c’è nulla di nuovo: che la corruzione sia connaturata al potere e non conosca latitudine non ci sorprende. Sorprende invece, soprattutto a noi italiani, il fatto che di fronte a una accusa – e nel caso del telefilm, praticamente sempre fondata – l’accusato, per prima cosa, vada in sala stampa, si scusi per il suo operato e per aver tradito la fiducia dei cittadini e, dopo profondo inchino, esca di scena. Sicuramente siamo sempre nell’ambito della finzione, ma per quanto io non sappia dire quale sia il grado di verosimiglianza con altre serie tv a noi più vicine (ho visto polizieschi finlandesi, inglesi e francesi la cui verosimiglianza c’era…), è pensabile e credibile che, nonostante tutto, nel Sud Est Asiatico questo senso della dignità esista. Come italiano rimango stupito perché dacché sono al mondo non ho mai visto in nessuna occasione fare una cosa simile (magari anche meno plateale) a un politico o a un alto funzionario. Di certo me lo avrebbe reso più simpatico e più vicino a quel mondo ideale che tutti vorremmo e spesso cerchiamo nella finzione televisiva.