The Father, ovvero: la disintegrazione dell’individuo

Siamo stati ieri sera al cinema all’aperto – una cara vecchia bella usanza di cui abbiamo sentito molto la mancanza (pure in rima!) – per vedere il premio Oscar (preso anche con questo film) Anthony Hopkins interpretare il ruolo del protagonista: un uomo, un ingegnere, che “scompare” per una demenza non meglio identificata (semplice demenza senile o, più probabilmente, Alzheimer? Nel film, nonostante la scenda del consulto con la specialista, non viene detto).

Faccio un paio di passi indietro: il primo riguarda l’essere venuto “a contatto” – in via del tutto teorica – con la malattia quando ho lavorato per un biennio in una grande multinazionale farmaceutica (di cui non dirò il nome, ma che è tra quelle che ha realizzato un vaccino tra i più efficaci…) che produce(va) un farmaco considerato una promessa per il rallentamento della degenerazione tipica di queste malattie. Ci avevano “formato” su questo e posso assicurare che già lì veniva un po’ da piangere. Per “esorcizzare” ci avevo scritto un paio di articoli di divulgazione scientifica che credo si trovino ancora in rete da qualche parte (gli umani dimenticano, la rete quasi mai…).

Il secondo passo indietro è quella fantascienza che – sempre specchio delle umane paure, tribolazioni e distopie – tocca da vicino le corde di questo tema così delicato e devastante per gli esseri umani. Due episodi: il primo è un vecchio corto della strabiliante serie di Ai confini della realtà – ma nelle versioni più vicine a noi e non in quelle in cui Rod Serling annunciava gli episodi aspirando ampie boccate dalla sua immancabile sigaretta… Tra le versioni più datate e quelle più recenti infatti correva quasi un fattore 10 per la durata degli episodi: mentre i più vecchi erano quasi dei minifilm, quelli recenti erano letteralmente folgoranti – in tre, quattro minuti precipitavano lo spettatore in situazioni paradossali, misteriose, in quella Twilight zone che tanto riscosse successo. In uno di questi brevissimi episodi, un padre di famiglia torna a casa dal lavoro e interagisce normalmente con i propri familiari: moglie e figli. Poi si mette a leggere e certe parole cominciano a sembrargli essere stampate male, con lettere invertite oppure quasi che nella composizione la macchina da stampa fosse impazzita scrivendo “dhdweifg” mentre il resto del discorso continuava a rimanere comprensibile. Poi però questo “difetto” si aggravava fino ad arrivare a interi paragrafi del tutto incomprensibili. In contemporanea anche l’interazione con i propri cari si fa via via sempre più difficoltosa: lui letteralmente non capisce più cosa questi gli dicono e gli sembra che parlino una lingua vieppiù incomprensibile, secondo lo stesso andamento che aveva trovato nella lettura: all’inizio le parole che non recepisce sono poche, ma poi intere frasi pronunciate sono incomprensibili a lui (e a noi spettatori che continuiamo ad avere il suo punto di vista). Ecco: la drammaticità potente ed “educativa” del film di ieri sta proprio in questo, nel punto di vista che rimane strettamente quello del protagonista il cui mondo sembra letteralmente impazzire intorno a lui – al punto che, a un bel momento del film, ho pensato proprio quello che Hopkins dice, ovvero che ci sia una specie di “congiura” della figlia e del compagno per farlo passare per pazzo e avere così accesso ai suoi beni…

la locandina del film

La locandina del film

Insomma, di film sulla malattia di Alzheimer ne sono stati fatti e se ne sono visti, ma diventa straniante e terrificante “essere Hopkins” (per altro sembra non esserci “mediazione” tra il protagonista e l’attore: entrambi si chiamano Anthony e quando la psichiatra nel film gli chiede la data di nascita lui risponde repentino, quasi a dimostrare la sua memoria: “venerdì 31 dicembre 1937”, che è esattamente la data di nascita di Hopkins nella realtà) e vedere come la sua condizione muta e si aggrava di momento in momento, con tutti i risvolti drammatici del caso. Vivi una vita, magari anche bella e intensa e poi te ne vai così, sconquassato nella psiche, senza neppure più sapere chi sei. Perché si è qualcuno solo grazie a quel prodigio che chiamiamo memoria che è l’insieme del nostro vissuto, “l’accumulazione” dei nostri ricordi, che dimentichiamo per ricordare diversamente in un processo continuo di “costruzione dell’identità”.

Senza memoria, lo sappiamo, nessuna identità.

E qui arrivo al secondo episodio di fantascienza che volevo citare: ricordate l’osannatissimo Blade runner, tratto dal romanzo di Philip K. Dick Cacciatore di androidi (titolo meno sibillino dell’originale Do Androids Dream of Electric Sheep?)? Bene, se lo ricordate, allora ricorderete anche che il gruppo di androidi capeggiati dal temibile Rutger Hauer cerca non solo di vivere più a lungo di quanto i costruttori/programmatori avessero concesso loro come vita, ma anche di avere dei “ricordi artificiali”, impiantati che, pur nella follia di questa idea, diventavano funzionali a questo concetto di identità, dell’individuo: io sono diverso da te perché ho ricordi diversi dai tuoi, perché ho fatto una vita diversa dalla tua.

L’uomo perde se stesso, la propria identità (Anthony alla fine regredisce fino al punto di chiedere all’infermiera “chi sono io?”…), regredisce e il tempo – quello su cui i ricordi poggiano – impazzisce: non c’è più un oggi un ieri e un domani e il ricordo dei cari si fa sincronico: ci si aspetta, a oltre 80 anni, che la mamma ti venga a trovare; la figlia diventa la mamma o la moglie, magari morta e via così sulla china del delirio e di uno sconforto che ti attanaglia ben oltre l’accensione delle luci che sanciscono la fine del film e il deflusso di noi spettatori, tutti ammutoliti da tanta realtà, da tanto dolore, da ciò che, alla fine, potrebbe essere uno degli esiti delle nostre esistenze. Un film durissimo però bellissimo perché Hopkins ha dato, ancora una volta, a 84 anni, grandissima prova di sé.

PS: Dimenticavo: sempre perché alla fine la modernità non ha mai veramente “inventato” nulla, qualcuno senz’altro avrà reminiscenze liceali sul fatto che Platone nella Repubblica narra il mito di Er che, disceso nell’oltretomba per conoscere i misteri della reincarnazione delle anime, scopre che condizione necessaria per questo “passaggio” della reincarnazione è l’abbeverarsi al fiume Lete. Solo in questo modo le anime possono arrivare a nuova vita “pure”, ovvero senza ricordi di quelle precedenti e, in definitiva, senza sapere chi si era nella vita passata.