In un momento drammatico sulla scena internazionale, come quello che stiamo vivendo – in televisione… – sulla situazione afgana, sembrerà quasi fuori luogo parlare della politica nostrana, anzi della nostra “storia politica”, ma sono reduce dalla lettura de Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi (Mondadori) e immerso nella lettura di Canale Mussolini (sempre suo, sempre Mondadori). Libri ben scritti, scritti “dalla parte” del popolino e quindi con semplificazioni utili a comprendere i meccanismi che stanno dietro le scelte politiche, gli eventi storici e quant’altro. Cose che, chi ha un minimo di letture e di interesse alle spalle, in realtà sa (sa che Mussolini “nasce” socialista, per esempio, ma poi prende la deriva che sappiamo, molto ben motivata in questi libri che sono scritti dalla parte dei fascisti), ma che rischiano di rendere poca giustizia a quel che stare da una parte o dall’altra ha comportato negli anni che vanno dalla nascita, appunto, del fascismo, a tutto il dopoguerra per arrivare a noi. Ne Il fasciocomunista, per esempio, ci sono momenti anche “divertenti”, quando il protagonista, Accio Benassi, da ragazzino convinto fascista, attivo politicamente – e il libro mette ben in evidenza cosa significhi questa espressione per la Destra cui lui appartiene, vale a dire: menare il prossimo di parte avversaria o comunque scontrarsi sul piano fisico, evidentemente non potendolo/riuscendolo a fare su quello verbale/argomentativo – viene attratto in realtà dal Comunismo, o almeno dalle ragazze che fanno attività politica dall’altra parte. Vale la pena riportare il pezzo:
Lui puntava la sorella più grande di Francesca, una battaglia persa. Quella faceva tutta la saputa. lo sono marxiana atea esistenzialista dichiarò al Cordusio (pare che adesso tutti dicano «a» Condusio, ma noi allora dicevamo «al»), all’angolo della banca dove c’era il fioraio, sopra il marciapiede. Me lo ricordo come fosse adesso, poiché per poco non cado per terra. È una frase che m’ha estasiato. M’ha cambiato la vita e per un attimo mi sono innamorato, anch’io, più di lei che di Francesca.
Erano mesi oramai che leggevo “Urania” – tutti quelli di Serse, che li comprava settimana per settimana – ed ero diventato un patito di fantascienza. Li ho letti tutti quanti e quando quella ha detto «marxiana» – che io non lo avevo mai sentito prima in vita mia; solo «marxista», anche da Violetta e il marito – quella lo ha declamato in milanese, con la «x» che sembrava una «s»: «marsiana». Ma loro anche la «z» la pronunciano come la «s» e io ho quindi capito «marziana», cittadina di Marte, ed era tutta seria – convinta – e avevo pensato: «Questa è meglio di noi», perché pure noi credevamo agli extraterrestri, ma solo tra di noi, non è che fossimo così convinti da farne un manifesto politico. E invece questa che arriva e dice seria seria: «Io sono filo-marziana, li sto ad aspettare e sto dalla parte loro» a me m’era sembrata meglio di Anita Garibaldi.
Poi s’era capito l’equivoco e io non ho nemmeno insistito, per non fare la figura dell’allocco. Serse invece era scoppiato a ridere – ma per «atea esistenzialista» – e aveva fatto la faccia: «Mi sa che non è aria». A me invece quel «marsiano» m’è rimasto impresso in mente e anche adesso, che è caduto il muro di Berlino, io continuo a dichiarare irriducibile: «Sono marxiano»; ma sempre più per Marte che per Marx. Ateo-esistenzialista no, viene da ridere anche a me.
Ecco, oggi si sorride insieme al protagonista dei sofismi legati alle definizioni (soprattutto di una certa sinistra intellettualoide anni ’70) e alle appartenenze delle mille correnti indecifrabili che furono, ma quella sinistra a me personalmente ha “regalato” persone come il mio ex professore di Italiano, Luciano Ferrari verso cui il debito per la mia formazione umana, personale (e perché no, anche di orientamento politico) è inestinguibile. La sua vicenda è narrata qui, dal genero Luca Soldati, in un libro per me toccante, perché ho conosciuto Luciano anche fuori dall’ambito strettamente scolastico.
Il rischio è quindi quello di far finire – come spesso accade in questo paese – tutto a “tarallucci e vino”: fascisti e comunisti alla fin fine erano “uguali” perché volevano le stesse cose ma con mezzi diversi e hanno quindi scelto strade diverse (tesi dei romanzi di Pennacchi) e altre amenità di questo genere.
Nell’ambito di questa voluta confusione – volta sempre un po’ a una forma sottile e subdola di revisionismo storico – entra anche l’episodio narratomi dall’amica Maria Del Giudice, figlia del Comandante partigiano Pietro Del Giudice, intervenuta pubblicamente, in polemica con l’amministrazione di Massa (nel 2019), per un monumento da realizzare per Ubaldo Bellugi (di cui scopro esistere anche un profilo Wikipedia nel quale si tessono le lodi del buon amministratore oltre che del poeta dialettale, originario per altro della frazione, Borgo del Ponte, di cui mio padre è originario e io stesso ho vissuto gran parte della mia adolescenza e gioventù). L’intervento di Maria, con la replica di Franco Frediani – lo storico che fu promotore di questo monumento commemorativo – si può leggere ancora qui e l’aspetto che ho trovato più interessante non è tanto l’intervento di Maria, di cui conosco il pensiero, quanto quello dell’altro che, colto nella flagranza dello sdoganamento del fascista che Bellugi fu, devia l’attenzione sui suoi meriti poetici: insomma, non si celebra il Bellugi podestà, ma il poeta, tacciando Maria di essere, in tal senso, scarsamente democratica (“La poesia viene regolarmente studiata in molte scuole cittadine e che a lei piaccia o no, è nel cuore di tanti massesi. Ma lei è liberissima di non apprezzarla, lasci però, visto che siamo in democrazia, che possano apprezzarla chi come lei non la pensa“). Insomma la tecnica è consolidata: io provo a sdoganare la qualunque facendo attenzione che la qualunque abbia in ogni caso un merito che non sia attacabile politicamente: se nessuno dice niente ho vinto – un punto a me – e se qualcuno dice qualcosa allora mi appello alla democrazia, agli inalienabili diritti della cultura e suono la fanfara dell’oscurantismo (di sinistra). Fin troppo facile, ma la domanda resta: ma, mi scusi, signor Frediani, ma il Bellugi fascista convinto e poeta non erano una sola persona o siamo davanti a un caso di conclamata schizofrenia?
Allora, mi si dirà, non si deve più studiare Heidegger perché era colluso o quanto meno simpatizzante del nazismo? Non ho detto questo: studiare sì – per carità, altrimenti non sarebbe democrazia (forse il discorso di Frediani è da intendere in questo senso, per salvarlo in extremis) – ma magari cercare di fargli dei monumenti no, forse, per favore, se possibile. Ma il monumento, la stele o quel che è, è alla poesia. Ah! Ma l’autore della poesia è sempre quello di cui sopra, o no? E, come dicono a Roma, “stiamo da capo a dodici”.
Chiudo: la damnatio memoriae è sempre sbagliata – perché la memoria è un “esercizio” che va coltivato sempre – ma elogiare complessivamente un personaggio di dubbia fama che questi meriti li ha avuti solo “parzialmente” – e magari in un ambito culturale, lontano dalla prassi quotidiana – sarebbe quanto meno da evitare e da evitare soprattutto nello “spirito del tempo”, nello zeitgeist, che ci è proprio: quello della facile dimenticanza di ciò che fu.