Non mi arrendo, una vecchia storia

La storia di Hiroo Onoda è molto nota, anzi: notissima. Quest’anno sono i 50 anni da quando si arrese, dopo averne passati 30 nel folto della giungla di un’isola delle Filippine, Lubang, nella incrollabile convinzione che la seconda guerra mondiale non fosse ancora finita e, soprattutto, che l’Impero giapponese non si sarebbe mai arreso, anche in caso di sconfitta, preferendo la morte, il suicidio collettivo di massa.

Onoda nel 1944 (fonte: Wikipedia)

Onoda nel 1944 (fonte: Wikipedia)

Quest’anno ricorrono anche i 10 anni dalla morte di Onoda e io ho appena finito di leggere la sua autobiografia di guerrigliero dell’esercito giapponese, Non mi arrendo, pubblicata da Mondadori nel 1975, un anno dopo il suo ritorno al “mondo civilizzato”. Sgomberiamo subito il campo da equivoci: in questa autobiografia Onoda mitiga – pare: anche molto – gli episodi di cui lui e il suo “commando” si sono resi protagonisti: saccheggi, minacce, piccole (o grandi, dipende sempre dai punti di vista) estorsioni, dice lui, sempre ai fini della sopravvivenza. A lungo, per quasi tutti i 30 anni di lotta, ha considerato gli abitanti dell’isola alla stregua di nemici. I suoi compagni sono stati via via uccisi (l’ultimo, Kozuka, nel 1972, un paio d’anni prima della sua resa) ma nella stessa biografia, nelle ultime pagine, arriva a dire che se lo avessero ucciso, lo avrebbe meritato. Insomma, verso l’intera vicenda e il personaggio non si può che avere – soprattutto a distanza di così tanti anni – un sentimento ambivalente: da un lato la follia della guerra che si coniuga a codici d’onore e a comportamenti che a noi occidentali sembrano totalmente fuori misura (l’estrema fedeltà a un’idea, o a un ordine militare ricevuto decenni prima; il culto della morte e della “buona morte”, quella in battaglia, per la quale venire osannati come semidivinità e cose così, del tutto aliene al nostro codice di valori – soprattutto a quello attuale). Poi l’idea di sopportare una vita indicibile per un trentennio – di cui Onoda ci mette a parte nelle sue pagine – abituandosi, adattando e disciplinando corpo e mente a quel cammino in tondo, all’interno dell’isola, lungo 30 anni esatti. Quindi da un lato verrebbe quasi da ridere, oggi e oggi penseremmo alla follia di un invasato, ma poi arriva anche il sentimento di grande rispetto per costui che di fatto ha rinunciato alla sua vita per tener fede a quell’ordine. E ha interpretato più o meno scientemente, ma sempre con questa idea di fedeltà e lealtà, tutta la realtà circostante, immaginando come falsi e come “propaganda” tutti i volantini, i giornali, financo le trasmissioni radiofoniche che a un certo punto della storia riesce ad ascoltare grazie a una radio trafugata. Insomma: tutte le comunicazioni che lo sparuto gruppetto riceveva da queste “squadre di ricerca” (composte anche da familiari stretti che inizialmente lui scambiò per controfigure!) erano un sotterfugio per indurli alla resa, ma poiché la guerra stava continuando, inizialmente loro e poi lui solo non si sarebbe(ro) mai potuti arrendere. Se ci si pensa la cosa ha dell’incredibile, eppure è successa e molto ci dice sul “carattere nipponico” e sui motivi che indussero le forze alleate a sganciare le atomiche sul Giappone: fu, paradossalmente, un modo per salvare vite. Un modo brutale per indurre una resa che forse non sarebbe avvenuta altrimenti, data la granitica caparbietà di quel popolo, di quelle persone. E se fosse avvenuta, la si avrebbe avuta a un prezzo ancora più alto di vittime e magari ancora dopo lunghi anni di guerra guerreggiata. Il mondo intero non ne poteva più: dopo 6 anni di conflitto le stime ci dicono oggi che ci sono stati tra i 60 e i 68 milioni di morti. Ma tra questi non vi fu Onoda che, insieme ad altri (lui è forse il caso più celebre, ma non certo l’unico), tenne duro e sopravvisse fino ad arrivare a oggi. Chiudo con qualche spunto di lettura. Oltre al già citato libro (introvabile, se non in biblioteca), vale la pena vedere: