Sul guardare e il vedere

Leggo e mi rendo conto che leggo sempre di più per allontanarmi da una realtà a tratti dolorosa. Tre le cose lette negli ultimi tempi, vale la pena di citare un vecchio pamphlet di Curzio Malaparte, che misi in lista – senza saperne nulla – per il titolo: Maledetti toscani. Si tratta di un libriccino breve, che si legge in poco, ma come già accadde per il Piovene di Viaggio in Italia, ha il merito di restituire scorci di un’Italia che fu, quella del dopoguerra. Vale la pena di citare quello che si trova alle pagine 115 e seguenti dell’edizione Adelphi:

Se attraversi l’Italia dalla testa ai piedi, voglio dire dalle Alpi alla Sicilia, o per tutto il costato, cioè dal Tirreno all’Adriatico, ti accorgerai che a differenza di come avviene nei paesi stranieri, dove nessuno alza gli occhi a guardarti in faccia, e dove la gente sembra non vederti nemmeno, in Italia tutti ti guardano.

Milioni d’occhi ti seguono dalle soglie delle case, dalle finestre, dal fondo delle botteghe. Ti pare che un intero popolo ti guardi, ti segua con gli occhi: ma non, a differenza dei toscani, per giudicarti: semplicemente per guardarti. Non c’è gretta curiosità negli occhi degli italiani: c’è qualcosa di doloroso, di profondo, di triste, qualcosa che è anche negli occhi degli animali. Specie delle donne e dei bambini: la cui sola difesa è nello sguardo. E ti guardano anche quando credi che nessuno ti veda: di dietro le persiane, le porte socchiuse, dal fondo dei vicoli deserti. In Italia anche i ciechi ti guardano.

Questo brano fa quasi da premessa a quel che segue: ancora piuttosto vivido nella memoria – ancorché a distanza di anni ormai – lo sbarco alleato, Malaparte dice che gli italiani soprattutto guardavano questi soldati non già per vedere “com’erano, e di che colore: ma per una ragione più profonda. Per veder se erano uomini anch’essi, per saggiare con gli occhi la loro qualità umana”.

Ecco sono queste frasi che mi riportano alla mia infanzia “borgatara”: un posto piccolo dove mia nonna teneva ancora la chiave sulla toppa all’esterno e dove “l’antifurto” era la rete di persone che si avevano intorno. Una convivenza che si cercava (e non sempre si riusciva) di rendere civile, negli spazi stretti della borgata, dove tutti sapevano tutto di tutti. Poi c’è chi lo sapeva per malizia, chi per il morboso non farsi i fatti propri (il meccanismo che secondo me decretò il successo delle telenovelas fu il trasferimento della curiosità – non troppo autorizzata – sulla vita dei vicini di casa a quella, non solo autorizzata ma caldeggiata, sulla vita dei protagonisti di Dallas, Dynasty fino ad arrivare alla nostrana Un posto al sole…), chi per semplice senso della civile convivenza e del sentirsi parte di un gruppo o di un destino umano che accomuna gioie e dolori di ognuno. Insomma: vantaggi e svantaggi degli sguardi altrui.

In pochi anni la rivoluzione è stata copernicana: tutto questo non esiste più – meno che mai lo sguardo mite degli italiani di cui parla Malaparte (quando va bene il prossimo tuo, in Italia, adesso ti ignora, a meno che non sia anziano, in coda alla posta e ben disposto alla chiacchiera) – per lasciare posto all’indifferenza (quando va bene) o a quello sguardo ipnotizzato che punta ai pochi centimetri quadrati dello schermo del proprio smartphone. Peccato perché alzando gli occhi si potrebbe ancora vedere un pezzo di mondo e rischiare di incontrare qualche anima in carne ed ossa con la quale condividere le proprie gioie e i propri dolori per sentirsi un po’ meno soli e forse, soprattutto, avere una percezione meno individualista di se stessi.