Da tempo mi ronza per la testa di scrivere questa riflessione sull’acquisto di una Cinquecento che ho realizzato qualche tempo fa.
Le ragioni che mi hanno spinto all’acquisto sono davvero molte (alcune più personali di altre…), ma cercherò di dipanare per quanto possibile la ridda dei pensieri che mi hanno spinto in questa direzione.
Prima tra le “spinte” è senz’altro l’idea del downsizing: nell’era del gigantismo automobilistico, dove la Volkswagen ‘Polo’ di oggi è più grande di una ‘Golf’ di 15-20 anni fa(*) l’idea è quella di andare in controtendenza e di farlo con un oggetto che ricorda le intelligenze (e le resilienze) di un tempo: le moderne case che fanno auto piccole oggi (penso alla ‘Smart’, ma non solo) non hanno inventato nulla e anzi: credo avrebbero da imparare se solo andassero a riguardarsi gli schemi, le schede tecniche con cui Dante Giacosa progettò quel capolavoro assoluto della mobilità che è questa auto – che ricordo, tra le altre cose, è esposta al Museo di Arte Moderna (MoMA) di New York. L’essenzialità che costituì, insieme alla ‘vespa’ Piaggio, la letterale ripartenza dell’Italia dopo il secondo conflitto mondiale.
Da sempre sensibile al fascino automobilistico, mi sono occupato incidentalmente, in tempi recenti, anche della eventuale transizione nella propulsione dei veicoli verso altre fonti energetiche che non siano i derivati del petrolio (benzina, gasolio, GPL, metano. Il volumetto in cui, con altri, ho raccolto queste considerazioni è questo qui). Anche qui la soluzione sembra venire da quel passato un po’ geniale: bisognerebbe tutti “condividere” in primo luogo la mobilità per disintasare le strade dal traffico(**) e, se proprio abbiamo bisogno di un’auto, condividerla con strutture di car sharing. E se proprio vogliamo un’auto personale, beh, comprarsi un’auto piccola e, aggiungo, bella. Perché la Cinquecento è anche bella! È un bell’oggetto che, nel caso specifico – e qui c’è un altro dei tanti motivi che mi hanno spinto all’acquisto – è un vero e proprio regressus ad originem: tra i ricordi di bambino ci sono quelli della Cinquecento di uno zio che era proprio come quella che possiedo adesso: la chiave si inserisce sul cruscotto “a sinistra” (come nella… Porsche 911) si gira il quadro per alimentare l’impianto elettrico ma l’avviamento è una delle due piccole leve vicino al freno a mano, tra i due sedili (l’altra è l’aria – altro regressus ad originem dell’adolescenza: al ‘Ciao’ Piaggio bisognava “tirare l’aria” quando faceva freddo, per cambiare il rapporto stechiometrico in camera di combustione…). Poi… poi ha uno schema classico “tutto dietro” (motore e trazione) che è stato adottato con successo per decine di anni da auto ben più performanti e sportive (penso espressamente a quella nobile erede del ‘Maggiolino’ che è stata la Porsche 356 (un ‘Maggiolino’ allungato – il progettista è sempre lui, Ferdinand Porsche) a sua volta “nonna” della celebre e celebratissima (e inavvicinabile come prezzo) Porsche 911 che, fino a tempi relativamente recenti conservava tutte le caratteristiche tecniche dei primi modelli e quindi: il raffreddamento ad aria (come la Cinquecento!), il motore “a sbalzo” (quindi al di fuori dell’asse posteriore delle ruote, (quasi) come la Cinquecento! – e questo accorgimento tecnico semplicemente serviva a incrementare il peso laddove il momento angolare (la “coppia”) della trazione agiva…). Insomma: tanti amarcord e tanta “mitologia automobilistica” a poco prezzo! E poi ancora: l’idea di una cosa che non fanno più e di un oggetto (idealmente – ma in questo caso anche praticamente!) fatto per durare nel tempo.
Alla “ripartenza” – e forse all’avvio della moderna società industriale quale oggi siamo – l’Italia è arrivata, l’abbiamo accennato, solo dopo il secondo conflitto mondiale. Ma questa ripartenza è stata foriera anche di altro, come descrive Marco D’Eramo ne Il maiale e il grattacielo. Infatti (pp. 96-97):
L’automobile di massa, il modello T lanciato da Henry Ford nel 1908 fu […] molto di più di una rivoluzione industriale: ti concedeva di accedere all’individualità pur senza essere diventato ricco. Con l’automobile, ci si poteva permettere di essere individui anche da operai, da commessi, da spazzini: “Il rapido consenso popolare per il nuovo veicolo è dovuto in gran parte al fatto che esso ha dato al suo proprietario un controllo sui propri movimenti che gli era negato dai mezzi precedenti. A portata di mano e pronto per un uso istantaneo, esso porta il suo proprietario dall’uscio di casa a destinazione secondo itinerari che egli stesso ha scelto e su tempi e programmi che egli stesso ha stabilito,” diceva un rapporto presentato nel 1933 al presidente Herbert Hoover. […] In ottant’anni, l’accessibilità delle auto è prima cresciuta, poi però è scemata. Nel 1909 negli Stati Uniti erano necessari 25 mesi di paga media (lorda) di un operaio per comprare una modello T della Ford. Nel 1925, perché le auto costavano molto meno e perché i salari erano molto più alti, per una T erano necessari solo 3 mesi di paga. Oggi né negli Usa, né in Europa bastano tre mesi di salario per comprare la macchina (servono 5 e 6 mesi, un regresso rispetto a 70 anni fa).
Così, quando il 5 gennaio 1914 Henry Ford raddoppiò il salario operaio da 2,3 a 5 dollari giornalieri non lo fece solo per allargare il mercato (pagare agli operai che fabbricano un’auto un salario abbastanza alto da permettere loro di comprarsi quella stessa auto). Questo salario è il tassello di una visione sociale più ampia, in cui i dipendenti sono esortati a fare ogni sforzo per accedere allo statuto di individui, a guadagnarselo e, a questo scopo, è offerto loro un salario tale che l’individualità diventi alla loro portata: non si è individui in teoria, ma nella pratica, nell’abitare, nel muoversi, nell’“avere il controllo sui propri movimenti”. Mettere l’individualità alla portata di tutti significa rendere accessibile a tutte le tasche un veicolo personale, l’automobile, un’abitazione unifamiliare come lo è la casa balloon frame(***). Henry Ford spingeva gli operai a “conquistarsi la propria individualità” proprio mentre in fabbrica introduceva la catena di montaggio, un processo che segmentava la loro personalità lavorativa e finiva di renderli anonimi, intercambiabili. Ma quella di essere una persona è forse l’unica illusione cui non si può abdicare.
Forse la Cinquecento, trent’anni dopo e di qua dall’oceano, ha significato (anche) questo anche per noi, fatto sta che possederne una nel 2021 significa conservare simbolicamente al suo interno quanto scritto fin qui e molto altro.
Chiudo solo con un’altra suggestione che arriva sempre dalle pagine del libro di D’Eramo. Poco oltre il pezzo appena citato, in un curioso capovolgimento prospettico l’autore parla delle auto come oggetti “al centro dell’attenzione” che modificano gli assetti delle città, che fanno costruire quei giganteschi spazi desolati che chiamiamo parcheggi, che “schiavizzano” in realtà i loro proprietari che, a loro volta, ne hanno fatto dei feticci da adorare. Proseguendo nel suo discorso D’Eramo dice infatti (p. 101):
Una certa antipatia le auto la nutrono anche per gli alberi, e infatti negli Stati Uniti sono rare le arterie cittadine dotate di alberi, Commonwealth Avenue a Boston, Broadway a New York per un breve tratto sopra la 60a e poche altre. Però la sera, ormai stanche, anche le macchine cercano requie in un ambiente più aggraziato e allora migrano nei loro suburbi dove le attendono garage accoglienti, tutti per loro che, nelle regioni fredde, d’inverno sono riscaldati. Qui finalmente permettono ai loro servitori bipedi di ristorarsi per essere pronti, l’indomani mattina, col corpo acceso, il pieno di corn-flakes, la carrozzeria profumata di dopobarba.
Questo mi induce a una riflessione di carattere quasi antropologico su questa affezione irrazionale, quasi viscerale che alcune persone – molte più di quelle che siamo disposti a credere – hanno verso “l’oggetto auto” e in particolare l’oggetto auto con motore a combustione interna e a carburanti tradizionali. Tento questa specie di analisi, che però è più una suggestione che altro. Da un lato c’è la classica antropomorfizzazione per la quale l’auto ha occhi (fanali), muso (frontale) – da cui tutto quel che ne segue su “auto aggressive”, “auto sportive” fino a quelle che, proprio negli States, vengono chiamate “muscle cars” e via discorrendo. Dall’altro il “cuore” dell’auto che è il motore con il suo carburante – la benzina che diventa a volte anche quella per gli esseri umani in un parallelo meccanicista per cui il corpo umano è appunto macchina a cui va fornito il carburante/cibo – con le sue vene e arterie (olio motore, condotti, prese d’aria e filtri) e il suo intimo funzionamento che è confrontabile in tutto e per tutto al respiro animale: la miscela aria/combustibile che entra nei cilindri è l’aria che entra nei nostri polmoni; l’auto emette gas di scarico come noi emettiamo una piccolissima percentuale di anidride carbonica ad ogni espirazione: senz’aria l’auto “non funziona”, esattamente come noi.
A breve, tra qualche giorno – a proposito di transizione energetica – ci consegneranno la nostra nuova Renault Twingo completamente elettrica, che caricheremo a casa, visto che abbiamo un impianto fotovoltaico. Sarà un’altra storia in tutti i sensi perché non ci sarà un “rumore” (per quanto silenziato) del motore (al limite un sibilo…), non ci saranno emissioni e la nostra auto potrebbe tranquillamente viaggiare sulla Luna o su Marte, indifferente alla composizione chimica dell’atmosfera che la circonda, perché la sua propulsione si basa su altri principi. Un’auto per il momento “aliena” insomma, rispetto a quello che abbiamo avuto occasione di sperimentare fino ad oggi ed è forse anche questo ciò che, credo, più o meno inconsciamente ci “fa difficoltà” nel separarci dalle vecchie auto per approdare alle nuove. Già, ricordo, con l’avvento dell’elettronica e delle sempre più severe regole antinquinamento, tutto mi sembrò via via anonimizzarsi e uniformarsi: ragazzino distinguevo i motori a orecchio e sapevo dire se quella che stava passando era una Fiat, una riconoscibilissima Alfa Romeo, ecc. prima di vederla spuntare magari dietro l’angolo o dietro una curva. Poi in Italia tutto è diventato Fiat e anche quel gioco – complice l’avvento dell’elettronica di cui sopra – è finito. Vedremo come andrà con questa Twingo “aliena” che non dovrà neppure essere accesa: i motori elettrici basta alimentarli e non serve “accenderli”…
NOTE
(*) Gli esempi di questo tipo si possono fare per tutti i marchi automobilistici, fino ad arrivare agli eclatanti casi dei SUV che letteralmente non stanno sulla strada da quanto sono grandi – e lo scrive uno che va spesso (anzi: più spesso) su due ruote e la difficoltà nel sorpassare questi “pachidermi stradali” non sta nella velocità (spesso con la vespa riesco a sgusciare via con facilità…) quanto proprio negli ingombri: sono “difficili” da superare perché si è costretti ad andare nell’altra corsia…
(**) Su questo vale la pena di citare Marco D’Eramo che, ne Il maiale e il grattacielo – saggio veramente illuminante, come non ne leggevo da tempo, su molte questioni che ci riguardano da vicino – fa cenno alla nozione sociologica della “perversione” teorizzata da Albert Hirschman: «La perversione è un classico argomento […] per cui ogni “tentativo di spingere la società in una certa direzione avrà per effetto sì un movimento della società, ma nella direzione opposta”» (p. 114). Seguono esempi, uno dei quali balza agli occhi: mentre il trasporto pubblico nasce e funziona se e solo se porta un grande numero di passeggeri, quello privato (automobilistico) funziona “a bassa densità” ed è efficace se e solo se le auto in giro sono poche e le strade tendenzialmente sgombre. Invece la realtà l’abbiamo tutti sotto gli occhi e… le uniche strade sgombre che vediamo sono quelle delle pubblicità (incessanti! – di auto).
(***) Su cui l’autore aveva discusso nelle pagine precedenti.