Qualche considerazione sulla (mia) mobilità

Lo confesso: ho speso un sacco di tempo in riflessioni – personali e collettive – sulla questione della mobilità (alcune di quelle collettive sono raccolte qui). E’ un’esigenza imprescindibile, bisogna però conciliare esigenza e portafoglio, il tutto in uno scenario che sembra mutare rapidamente ma non si capisce in realtà quanto rapidamente muti (almeno nel nostro paese).

Spinte e reali esigenze poi confliggono con i “desiderata”, ma… ci arriveremo. Un po’ di storia (personale). Ho guidato dal 2010 al 2021 una BMW 320d coupè, acquistata usata (l’auto era/è – perché ancora esiste – del 2007) con circa 40mila km e rivenduta con 235mila. Ottimo acquisto, delle tedesche non si può dire nulla, specie di quelle di fascia medio-alta, tranne che… somigliano alle “italiane” di cui tutti abbiamo un po’ in mente lo stereotipo, ovvero: auto valide, motori indistruttibili (e anche veloci), ma per le quali ci si perde poi sui dettagli. Dettagli che però fanno la qualità quotidiana dello stare in auto: plastiche che si vulcanizzano e diventano appiccicose – e non in posti a caso, ma proprio sul bracciolo dove metti la mano per aprire e chiudere lo sportello (sembra fatta apposta, no?); spie che si accendono dando falsi allarmi – per anni ho avuto quella dell’airbag lato passeggero che faceva un falso contatto o quella del FAP (filtro anti particolato dell’auto che però, controllato, risultava in ordine). Insomma: cose che alla lunga esasperano e che per essere riparate richiedono esborsi ingiustificati e ingiustificabili. Per il bracciolo praticamente mi si chiedeva di cambiare mezza portiera dell’auto. Per la spia addirittura c’era da intervenire sulla centralina. Siamo quindi in piena crisi da “obsolescenza programmata”: siccome l’oggetto non invecchierebbe così tanto “naturalmente” si fa in modo di farlo invecchiare artificialmente.

Sindrome che affligge praticamente tutto ciò che ci circonda e alla fine pure io, stanco di avere la mano appiccicosa (e di farla avere ai passeggeri!), stanco della spia rossa, a tratti “gigante” sul cruscotto e ben in vista a lungo, ho deciso di sbarazzarmi dell’auto. Venduta. Bene e con soddisfazione, sia chiaro, a un ragazzo dell’Est Europa, appassionato, che vive a Lucca e una volta per caso ho rivisto: l’auto è tornata a nuovo splendore. A volte, semplicemente, serve qualcuno che abbia più passione e motivazione di noi (e magari qualche conoscente tra carrozzieri e meccanici).

Ho indugiato qualche mese prima di riacquistare un’auto. Mi sono deciso con i primi freddi per una Golf VII, TDI, il classico 2000 turbo con 150 cavalli e il cambio automatico – giustamente decantato – DSG a doppia frizione. Auto spettacolare che, nonostante di fascia inferiore alla BMW, risultava superiore per qualità delle finiture e soprattutto dei materiali (nessuna plastica appicosa o vulcanizzata). Certo, tra le due auto c’erano anche diversi anni di progettazione di distanza. Anni che, nel settore automotive, fanno tendenzialmente fare salti in avanti. Troppo in avanti, mi verrebbe da dire. E qui arrivo un po’ al nocciolo della questione e della riflessione che voglio esporre. L’auto, di nuovo, era usata (per principio non acquisto auto nuove…), un 2020, quindi recentissima. “Aziendale”, come si dice, neppure 20mila km, insomma: praticamente nuova. Essendo di “questa generazione” (ricordo che la BMW era un 2007…) aveva, oltre a tutte le “sicurezze” previste dai modelli precedenti (ABS, airbag dappertutto, ecc.) anche quelle che vanno verso la guida autonoma: radar anteriore anticollisione; cruise control adattivo (ACC) che “legge” la distanza dall’auto davanti e, in funzione della velocità a cui si procede (forse anche dal fondo se asciutto o bagnato – o comunque c’è anche qualche altro parametro), mantiene la distanza; sensori ovunque; frenata di emergenza se ci si avvicina troppo (mentre si parcheggia) e altre meraviglie della moderna tecnologia. Meraviglie che – per chi come me ha 53 anni e guida dall’età di 18, ha fatto forse un milione di km, con tutti i tipi di auto dal 1988 in poi, con tutti i tempi, ecc. – presto, molto presto, si trasformano in un incubo.

Perché le meraviglie hanno senso in un mondo perfetto, ma nell’impefettissimo mondo (soprattutto quello nazionale) in cui ci muoviamo, è una follia pensare di NON poter stare “sotto” l’auto che abbiamo davanti per poterla sorpassare, perché il radar “legge” che siamo troppo vicini e quindi frena automaticamente l’auto! Così come l’ACC che ci tiene a una distanza tale dall’auto che precede tanto da… farci stare un’altra auto che magari al volo si “butta” in mezzo, così che quella su cui viaggiamo vede un altro ostacolo e frena ancora di più, col rischio di venire tamponati! Una follia assoluta, almeno per me. Quindi c’è da decidere “chi guida”! Mi sono divertito a fare una specie di grafico qualitativo “livello di tecnologia vs. tempo” per dare un’idea di quello che intendo dire:

grafico sicurezza-tempo

Ecco, mentre la vecchia BMW stava sotto la prima riga rossa, la “nuova” Golf stava già tra le due linee rosse. Capisco quindi benissimo di essere “a metà di un processo”, il cui punto di arrivo, ammesso e non concesso che la mobilità privata continui ad assomigliare a quella attuale, è un mondo in cui l’auto sarà una specie di taxi personale al quale vocalmente diciamo dove vogliamo andare e il mezzo ci porterà in tutta sicurezza, schivando pedoni, gatti, biciclette, monopattini (altre auto no, perché saranno “sicure” come quella su cui viaggiamo…), mentre noi leggiamo beatamente il giornale: siamo sopra la seconda linea rossa. Sapete cosa è successo? Ho venduto anche la Golf, sempre per disperazione. Una disperazione di diversa natura, ma pur sempre disperazione. La sicurezza “attiva” (quella in cui l’auto decide in autonomia cosa fare al posto mio) non fa decisamente per me, anche perché non è disinseribile: finché sono io a guidare, guido io e me ne prendo le responsabilità. Perché questa tecnologia, per altro, induce alla deresponsabilizzazione del conducente: “tanto ci pensa l’auto a frenare!”.

Di recente ho letto un interessante libro che consiglio a tutti: Radical choc. Ascesa e caduta dei competenti, di Raffaele Alberto Ventura. Tra le interessanti storie che l’autore racconta c’è anche una bella analisi dell’incendio alla cattedrale di Notre-Dame, avvenuto nel 2019 in cui si raccontano le cause che hanno permesso si realizzasse. In un (altro) ipotetico diagramma, sempre secondo l’autore, da una parte ci sta la competenza (del singolo, di una squadra) a cui è associata un grado elevato di “libertà” (di azione, in caso di pericolo); dall’altra c’è l’automazione, l’automatizzazione del “sistema” (in questo caso antincendio) grazie al quale, almeno in teoria, poter fare a meno della competenza e professionalità (l’umano si trasforma in “operatore”) a cui però è associato un grado basso o quasi nullo di libertà (il “sistema” è codificato e può assumere solo determinate “configurazioni” – magari molte, ma sempre in numero ristretto). Come dice l’autore: «L’altenativa è secca: o il sistema lascia meno autonomia all’umano, trasformandolo in puro operatore, o l’umano, per essere più autonomo, deve anche essere competente, quindi professionalizzato» (op. cit., p. 111) e poco dopo aggiunge: «Nessuna di queste due opzioni – piena automazione contro piena professionalizzazione – è economicamente sostenibile su larga scala. Ed è per questo che la regola della gestione della sicurezza consiste in una soluzione intermedia: tecnologie di sicurezza fallibili che lasciano margini di manovra a esseri umani fallibili» (p. 112).

Mutatis mutandis il ragionamento è applicabile all’auto: non mi sono sentito mai così “insicuro” come sull’auto più sicura che ho posseduto: l’ultima Golf. Non mi considero certo un asso del volante, ma diciamo che me la sono sempre cavata egregiamente, in certi casi anche in condizioni che molti considererebbero proibitive. Basta un po’ di “manico” e capire cosa fa e come reagisce l’auto che abbiamo sotto il sedere (perché ci sono differenze che sono anche sostanziali) se facciamo una mossa anziché un’altra. Ma non lasciamo ancora Ventura, che ancora ci dice (sempre in riferimento all’incendiodi Notre-Dame): «la presenza del sistema di sicurezza stesso, che tende a deresponsabilizzare l’essere umano tanto più quanto viene considerato infallibile» (ibid.). Sono cose ovvie, ma proprio perché tali, tendiamo a non considerarle. Possiedo una Fiat 500 del 1974. Auto “resiliente” – il prossimo anno fa 50 anni! – che ovviamente NON guido come se fosse un’auto moderna per motivi ovvi legati alla sicurezza, alle prestazioni, ecc.: «circondati da macchine e procedure, tendiamo a convincerci che tutto andrà liscio perché progettato in maniera impeccabile, sottovalutando sia l’incertezza strutturale, sia le trasformazioni che potrebbero rendere obsolete le nostre previsioni» (p. 113): se pensi di sorpassare ma l’auto frena nel momento in cui dovresti accelerare è un problema. E potrebbe diventare un problema grave.

Arrivo presto alla conclusione di questo lungo post, nel quale avrei voluto infilare qualche considerazione a margine anche sulla mobilità elettrica (mia moglie ha un’auto elettrica), ma diventerebbe eccessivo. La conclusione è che mi ritrovo nella condizione di due anni fa: in primavera vendo l’auto e con l’arrivo del freddo e del cattivo tempo, capisco che con un mezzo elettrico da città, pur con tutte le necessarie cautele, in due, in questo paese, non ci si fa: serve comunque un mezzo che ci permetta di arrivare un po’ ovunque senza gli assilli delle ricariche (e il plurale è necessario quando hai al massimo 200-250 km di autonomia andando “a passeggio”, ovvero non superando praticamente mai i 100 km/h): se vogliamo andare a trovare amici un po’ distanti o i suoceri o si ricorre ai mezzi pubblici (treni, aerei…) – per carità: opzione sempre possibile – oppure bisogna attrezzarsi diversamente, nonostante tutto, nel 2023, in Italia. Dicevo: la condizione è la stessa di due anni fa, ma l’esperienza diversa: se non altro ho capito cosa NON voglio.

Quindi ho deciso di acquistare una “nuova auto” vecchia. Quindi usata, ma usata da almeno una decina d’anni. Che abbia quindi tutte le sicurezze passive (ABS, airbag, ecc.); che abbia il cruise control, ma NON adattivo – sono io che guido e che capisco QUANDO va disinserito. Insomma: che stia nuovamente sotto la prima linea rossa (partendo dal basso) del grafico qui sopra. Sono “vecchio”? Sì. Ma non ancora così rincoglionito da non saper guidare un’auto!

Il senso di una Cinquecento (del 1972) nel 2021

la mia nuova 500

La mia “nuova” 500

Da tempo mi ronza per la testa di scrivere questa riflessione sull’acquisto di una Cinquecento che ho realizzato qualche tempo fa.

Le ragioni che mi hanno spinto all’acquisto sono davvero molte (alcune più personali di altre…), ma cercherò di dipanare per quanto possibile la ridda dei pensieri che mi hanno spinto in questa direzione.

Prima tra le “spinte” è senz’altro l’idea del downsizing: nell’era del gigantismo automobilistico, dove la Volkswagen ‘Polo’ di oggi è più grande di una ‘Golf’ di 15-20 anni fa(*) l’idea è quella di andare in controtendenza e di farlo con un oggetto che ricorda le intelligenze (e le resilienze) di un tempo: le moderne case che fanno auto piccole oggi (penso alla ‘Smart’, ma non solo) non hanno inventato nulla e anzi: credo avrebbero da imparare se solo andassero a riguardarsi gli schemi, le schede tecniche con cui Dante Giacosa progettò quel capolavoro assoluto della mobilità che è questa auto – che ricordo, tra le altre cose, è esposta al Museo di Arte Moderna (MoMA) di New York. L’essenzialità che costituì, insieme alla ‘vespa’ Piaggio, la letterale ripartenza dell’Italia dopo il secondo conflitto mondiale.

Da sempre sensibile al fascino automobilistico, mi sono occupato incidentalmente, in tempi recenti, anche della eventuale transizione nella propulsione dei veicoli verso altre fonti energetiche che non siano i derivati del petrolio (benzina, gasolio, GPL, metano. Il volumetto in cui, con altri, ho raccolto queste considerazioni è questo qui). Anche qui la soluzione sembra venire da quel passato un po’ geniale: bisognerebbe tutti “condividere” in primo luogo la mobilità per disintasare le strade dal traffico(**) e, se proprio abbiamo bisogno di un’auto, condividerla con strutture di car sharing. E se proprio vogliamo un’auto personale, beh, comprarsi un’auto piccola e, aggiungo, bella. Perché la Cinquecento è anche bella! È un bell’oggetto che, nel caso specifico – e qui c’è un altro dei tanti motivi che mi hanno spinto all’acquisto – è un vero e proprio regressus ad originem: tra i ricordi di bambino ci sono quelli della Cinquecento di uno zio che era proprio come quella che possiedo adesso: la chiave si inserisce sul cruscotto “a sinistra” (come nella… Porsche 911) si gira il quadro per alimentare l’impianto elettrico ma l’avviamento è una delle due piccole leve vicino al freno a mano, tra i due sedili (l’altra è l’aria – altro regressus ad originem dell’adolescenza: al ‘Ciao’ Piaggio bisognava “tirare l’aria” quando faceva freddo, per cambiare il rapporto stechiometrico in camera di combustione…). Poi… poi ha uno schema classico “tutto dietro” (motore e trazione) che è stato adottato con successo per decine di anni da auto ben più performanti e sportive (penso espressamente a quella nobile erede del ‘Maggiolino’ che è stata la Porsche 356 (un ‘Maggiolino’ allungato – il progettista è sempre lui, Ferdinand Porsche) a sua volta “nonna” della celebre e celebratissima (e inavvicinabile come prezzo) Porsche 911 che, fino a tempi relativamente recenti conservava tutte le caratteristiche tecniche dei primi modelli e quindi: il raffreddamento ad aria (come la Cinquecento!), il motore “a sbalzo” (quindi al di fuori dell’asse posteriore delle ruote, (quasi) come la Cinquecento! – e questo accorgimento tecnico semplicemente serviva a incrementare il peso laddove il momento angolare (la “coppia”) della trazione agiva…). Insomma: tanti amarcord e tanta “mitologia automobilistica” a poco prezzo! E poi ancora: l’idea di una cosa che non fanno più e di un oggetto (idealmente – ma in questo caso anche praticamente!) fatto per durare nel tempo.

Alla “ripartenza” – e forse all’avvio della moderna società industriale quale oggi siamo – l’Italia è arrivata, l’abbiamo accennato, solo dopo il secondo conflitto mondiale. Ma questa ripartenza è stata foriera anche di altro, come descrive Marco D’Eramo ne Il maiale e il grattacielo. Infatti (pp. 96-97):

L’automobile di massa, il modello T lanciato da Henry Ford nel 1908 fu […] molto di più di una rivoluzione industriale: ti concedeva di accedere all’individualità pur senza essere diventato ricco. Con l’automobile, ci si poteva permettere di essere individui anche da operai, da commessi, da spazzini: “Il rapido consenso popolare per il nuovo veicolo è dovuto in gran parte al fatto che esso ha dato al suo proprietario un controllo sui propri movimenti che gli era negato dai mezzi precedenti. A portata di mano e pronto per un uso istantaneo, esso porta il suo proprietario dall’uscio di casa a destinazione secondo itinerari che egli stesso ha scelto e su tempi e programmi che egli stesso ha stabilito,” diceva un rapporto presentato nel 1933 al presidente Herbert Hoover. […] In ottant’anni, l’accessibilità delle auto è prima cresciuta, poi però è scemata. Nel 1909 negli Stati Uniti erano necessari 25 mesi di paga media (lorda) di un operaio per comprare una modello T della Ford. Nel 1925, perché le auto costavano molto meno e perché i salari erano molto più alti, per una T erano necessari solo 3 mesi di paga. Oggi né negli Usa, né in Europa bastano tre mesi di salario per comprare la macchina (servono 5 e 6 mesi, un regresso rispetto a 70 anni fa).

Così, quando il 5 gennaio 1914 Henry Ford raddoppiò il salario operaio da 2,3 a 5 dollari giornalieri non lo fece solo per allargare il mercato (pagare agli operai che fabbricano un’auto un salario abbastanza alto da permettere loro di comprarsi quella stessa auto). Questo salario è il tassello di una visione sociale più ampia, in cui i dipendenti sono esortati a fare ogni sforzo per accedere allo statuto di individui, a guadagnarselo e, a questo scopo, è offerto loro un salario tale che l’individualità diventi alla loro portata: non si è individui in teoria, ma nella pratica, nell’abitare, nel muoversi, nell’“avere il controllo sui propri movimenti”. Mettere l’individualità alla portata di tutti significa rendere accessibile a tutte le tasche un veicolo personale, l’automobile, un’abitazione unifamiliare come lo è la casa balloon frame(***). Henry Ford spingeva gli operai a “conquistarsi la propria individualità” proprio mentre in fabbrica introduceva la catena di montaggio, un processo che segmentava la loro personalità lavorativa e finiva di renderli anonimi, intercambiabili. Ma quella di essere una persona è forse l’unica illusione cui non si può abdicare.

Forse la Cinquecento, trent’anni dopo e di qua dall’oceano, ha significato (anche) questo anche per noi, fatto sta che possederne una nel 2021 significa conservare simbolicamente al suo interno quanto scritto fin qui e molto altro.

Chiudo solo con un’altra suggestione che arriva sempre dalle pagine del libro di D’Eramo. Poco oltre il pezzo appena citato, in un curioso capovolgimento prospettico l’autore parla delle auto come oggetti “al centro dell’attenzione” che modificano gli assetti delle città, che fanno costruire quei giganteschi spazi desolati che chiamiamo parcheggi, che “schiavizzano” in realtà i loro proprietari che, a loro volta, ne hanno fatto dei feticci da adorare. Proseguendo nel suo discorso D’Eramo dice infatti (p. 101):

Una certa antipatia le auto la nutrono anche per gli alberi, e infatti negli Stati Uniti sono rare le arterie cittadine dotate di alberi, Commonwealth Avenue a Boston, Broadway a New York per un breve tratto sopra la 60a e poche altre. Però la sera, ormai stanche, anche le macchine cercano requie in un ambiente più aggraziato e allora migrano nei loro suburbi dove le attendono garage accoglienti, tutti per loro che, nelle regioni fredde, d’inverno sono riscaldati. Qui finalmente permettono ai loro servitori bipedi di ristorarsi per essere pronti, l’indomani mattina, col corpo acceso, il pieno di corn-flakes, la carrozzeria profumata di dopobarba.

Questo mi induce a una riflessione di carattere quasi antropologico su questa affezione irrazionale, quasi viscerale che alcune persone – molte più di quelle che siamo disposti a credere – hanno verso “l’oggetto auto” e in particolare l’oggetto auto con motore a combustione interna e a carburanti tradizionali. Tento questa specie di analisi, che però è più una suggestione che altro. Da un lato c’è la classica antropomorfizzazione per la quale l’auto ha occhi (fanali), muso (frontale) – da cui tutto quel che ne segue su “auto aggressive”, “auto sportive” fino a quelle che, proprio negli States, vengono chiamate “muscle cars” e via discorrendo. Dall’altro il “cuore” dell’auto che è il motore con il suo carburante – la benzina che diventa a volte anche quella per gli esseri umani in un parallelo meccanicista per cui il corpo umano è appunto macchina a cui va fornito il carburante/cibo – con le sue vene e arterie (olio motore, condotti, prese d’aria e filtri) e il suo intimo funzionamento che è confrontabile in tutto e per tutto al respiro animale: la miscela aria/combustibile che entra nei cilindri è l’aria che entra nei nostri polmoni; l’auto emette gas di scarico come noi emettiamo una piccolissima percentuale di anidride carbonica ad ogni espirazione: senz’aria l’auto “non funziona”, esattamente come noi.

A breve, tra qualche giorno – a proposito di transizione energetica – ci consegneranno la nostra nuova Renault Twingo completamente elettrica, che caricheremo a casa, visto che abbiamo un impianto fotovoltaico. Sarà un’altra storia in tutti i sensi perché non ci sarà un “rumore” (per quanto silenziato) del motore (al limite un sibilo…), non ci saranno emissioni e la nostra auto potrebbe tranquillamente viaggiare sulla Luna o su Marte, indifferente alla composizione chimica dell’atmosfera che la circonda, perché la sua propulsione si basa su altri principi. Un’auto per il momento “aliena” insomma, rispetto a quello che abbiamo avuto occasione di sperimentare fino ad oggi ed è forse anche questo ciò che, credo, più o meno inconsciamente ci “fa difficoltà” nel separarci dalle vecchie auto per approdare alle nuove. Già, ricordo, con l’avvento dell’elettronica e delle sempre più severe regole antinquinamento, tutto mi sembrò via via anonimizzarsi e uniformarsi: ragazzino distinguevo i motori a orecchio e sapevo dire se quella che stava passando era una Fiat, una riconoscibilissima Alfa Romeo, ecc. prima di vederla spuntare magari dietro l’angolo o dietro una curva. Poi in Italia tutto è diventato Fiat e anche quel gioco – complice l’avvento dell’elettronica di cui sopra – è finito. Vedremo come andrà con questa Twingo “aliena” che non dovrà neppure essere accesa: i motori elettrici basta alimentarli e non serve “accenderli”…

NOTE

(*) Gli esempi di questo tipo si possono fare per tutti i marchi automobilistici, fino ad arrivare agli eclatanti casi dei SUV che letteralmente non stanno sulla strada da quanto sono grandi – e lo scrive uno che va spesso (anzi: più spesso) su due ruote e la difficoltà nel sorpassare questi “pachidermi stradali” non sta nella velocità (spesso con la vespa riesco a sgusciare via con facilità…) quanto proprio negli ingombri: sono “difficili” da superare perché si è costretti ad andare nell’altra corsia…

(**) Su questo vale la pena di citare Marco D’Eramo che, ne Il maiale e il grattacielo – saggio veramente illuminante, come non ne leggevo da tempo, su molte questioni che ci riguardano da vicino – fa cenno alla nozione sociologica della “perversione” teorizzata da Albert Hirschman: «La perversione è un classico argomento […] per cui ogni “tentativo di spingere la società in una certa direzione avrà per effetto sì un movimento della società, ma nella direzione opposta”» (p. 114). Seguono esempi, uno dei quali balza agli occhi: mentre il trasporto pubblico nasce e funziona se e solo se porta un grande numero di passeggeri, quello privato (automobilistico) funziona “a bassa densità” ed è efficace se e solo se le auto in giro sono poche e le strade tendenzialmente sgombre. Invece la realtà l’abbiamo tutti sotto gli occhi e… le uniche strade sgombre che vediamo sono quelle delle pubblicità (incessanti! – di auto).

(***) Su cui l’autore aveva discusso nelle pagine precedenti.

Allegri, verso la catastrofe

Ieri ho voluto far compagnia a un amico che deve cambiare auto. Mi sono preso un paio d’ore nel pomeriggio e mi sono dedicato all’esotica attività di andar per concessionari e tastare quindi con mano, la follia insita nel nostro modo di procedere.
Di auto siamo saturi – penso che molti di noi ne convengano. Forse è da quando ho coscienza di me che lo sento dire, ma nel frattempo i mezzi in circolazione sono n-uplicati (non so quali siano i numeri esattamente, ma dal web ho ricavato dei dati con i quali ho realizzato il grafico qui sotto).

Probabilmente forti dei risultati, del martellamento pubblicitario incessante (almeno nel nostro paese), anziché essere un settore in crisi, come dovrebbe esserlo ogni settore merceologico arrivato alla saturazione, aprendo le porte dei saloni, quel che ci appare è una inattesa floridità: numeri bassi alla Peugeot, medi alla Volkswagen e decisamente al limite dell’affollamento alla Fiat (la fortuna è che a Pisa sono tutti vicini l’uno all’altro, a Ospedaletto).
Da questo ne consegue che anziché stenderti un tappeto rosso ed esserti grato per aver manifestato anche solo il proposito di cambiare auto investendo in questa operazione qualche migliaio di euro che notoriamente non cresce sotto il cuscino di notte, l’atteggiamento, in molti casi è di sufficienza. Quando non è di sufficienza risulta peggiore perché la netta sensazione, senza mezzi termini (e mi scuserete per la brutalità degli stessi) è quella di essere presi per il culo.
Prendiamo per esempio la “auto aziendali” o “a km zero”. Stratagemma adottato in tempo di carestia per continuare a tenere alti i numeri delle vendite, benchmark atto da sempre a valutare la bontà del venditore (bontà direttamente proporzionale al numero delle vendite realizzate in un determinato intervallo di tempo). L’autosalone si intestava l’auto, scaricava l’IVA (avendo la partita IVA) e la rivendeva all’acquirente “di seconda mano” (in realtà solo immatricolata) facendogli risparmiare almeno quella (non poco su un oggetto che costa svariate migliaia di euro e in paese come il nostro con l’IVA al 22%). Strategia “win-win”: il concessionario vende un’auto in più, l’acquirente è contento perché prende una macchina nuova, ancorché, in molti casi, senza la possibilità di sceglierne gli accessori, il colore, ecc. (sebbene in alcuni casi si poteva addirittura combinare la cosa: il cliente sceglieva e poi l’auto veniva richiesta per l’immatricolazione, esattamente con le specifiche descritte dal cliente).
Invece ieri ci siamo sentiti dire, col sorriso sulle labbra, in un salone diviso in due – da una parte il nuovo e dall’altra l’usato – che il “km zero” a conti fatti costava di più (ma la famosa IVA che voi avete bellamente scaricato intestandovi l’auto perché me la volete fare pagare di nuovo?) a causa del fatto che l’auto che l’amico avrebbe dovuto dare indietro (una piccola utilitaria con 10 anni di vita) per l’usato valeva 1.000 euro, mentre, se avesse acquistato il nuovo, la valutazione andava oltre 3.000 (ma com’è che lo stesso oggetto a pochi passi di distanza da una parte è valutato così tanto e dall’altra così poco?). L’aspetto che agli occhi del comune mortale appare folle è che il nuovo costa meno dell’usato. Da un punto di vista strettamente economico ha molto senso: vendere vendere vendere e quindi produrre produrre produrre per vendere di nuovo, soprattutto il nuovo.
Questo “giochino” ce lo siamo sentiti raccontare anche alla Fiat. Ha un altro nome e lì lo chiamano “premio targa” (“Ah, ne ho proprio una del colore che vuole lei e la posso fare arrivare, però si deve sbrigare…” – perché metter fretta all’acquirente lasciandogli l’illusione di aver appena colto l’occasione (ovviamente unica…) è un’altra strategia abbastanza idiota, ma che evidentemente in molti casi continua a funzionare e a pagare molto bene). Il “premio targa” è: mi intesto l’auto e te la rivendo?
Insomma, una vera tristezza. Soprattutto perché ci sono video come questo che raccontano una storia molto diversa. E ancora, non più tardi di oggi, mi è arrivato l’annuncio della presentazione di un nuovo libro di un collega Cnr appena uscito: Effetto serra, effetto guerra, Due fenomeni che pare siano sempre più connessi l’uno all’altro.