Del tutto fortuitamente stasera mi sono imbattuto in un incontro pubblico – organizzato nella bella sede della stazione Leopolda a Pisa – con Serge Latouche. Ne avevo sentito tanto parlare – soprattutto dall’amica Stefania – pur non avendone mai letto nulla. Principale teorico della decrescita felice, mi son trovato davanti un signore che mi ha ricordato un passato e una “militanza” ambientalista che mi pare di aver dimenticato.
Ora: i discorsi sono sempre un po’ i soliti, forse io sono invecchiato e tutto questo fervore di quelle che sottilmente ancora passano (secondo una percezione che è e rimane soggettiva) sotto traccia come parole d’ordine (un paio su tutte, stasera: “disastro” e “catastrofe”) ora hanno smesso di infervorarmi e in una qual certa misura mi stomacano un po’. Ma il problema è tutto e solo mio. Insomma il discorso – un po’ contorto e avvitato (complice forse il comunque encomiabile sforzo di parlare la nostra lingua) – ha toccato molti punti e ha oscillato tra la banalità del già sentito miliardi di volte (che Monsanto faccia i soldi con le semente non pare una novità…) e un frame narrativo secondo il quale si auspica il ritorno all’idillico mondo perduto del contadino che ti dà i suoi prodotti coltivati lì sul momento e pronti per te. Chilometro zero, “sostenibilità” e via sul registro che divide i buoni dai cattivi senza sfiorare neppure per un attimo il concetto piuttosto attuale di “complessità”, per esempio. Un modello che sembra – per certi aspetti almeno – del tutto inapplicabile.
Non che Latouche non abbia sacre (come il cibo, la terra, ecc. che sono comparsi nel suo discorso) ragioni per dire ciò che dice, ma è il modo, tra il profetico e l’oscurantista, che mi ha infastidito. Chi mi conosce sa che non sono certo uno che appoggia “le magnifiche sorti e progressive”, ma neppure penso che sia il caso di seguire i consigli per il futuro che questo signore dispensa per evitare di incorrere nell’apocalisse prossima ventura.
Sarà che poi sto diventando allergico all’immancabile parterre di pseudo alternativi, sinistroidi radical-chic, finti freak, e altre specie lì adunate.
Sarà che poi di recente mi sono letto con gran gusto l’intervento di Antonio Pascale nell’agile quanto denso volumetto Democrazia: cosa può fare uno scrittore? (in realtà acquistai il libro per il secondo intervento, quello dell’amico Luca Rastello).
Sarà che poi sono stanco dei “buoni”, tanto per rimanere a Rastello.
Sarà che poi, banalmente, invecchio.