Treni senza freni
Dunque vorrei spendere due parole sull’“incidente” occorso un paio di giorni fa (19 agosto) a macchinista e capotreno del regionale “Trenord”, da Paderno a Carnate (la notizia, per chi se la fosse persa, è questa).
Parto esprimendo tutta la solidarietà agli ex colleghi: “incidenti” di questo genere, che conquistano le pagine delle cronache nazionali, sono per fortuna pochi, ma frutto di quella che è la “coazione a ripetere” molte volte (quante? Migliaia? Decine di migliaia in una vita lavorativa?) gli stessi gesti che diventano automatismi, fino a quando l’automatismo non scatta, il treno resta dov’è – sfrenato – un quarto d’ora e poi magari parte perché in equilibrio precario sul binario (basta un treno in transito sul binario accanto, l’equilibrio va a farsi benedire e il treno si mette in moto).
Fortuna ha voluto che il treno fosse praticamente vuoto, a parte lo sventurato che c’era sopra addormentato (e che, ancora fortuna, pare se la sia cavata con poco) – ma anche se non lo fosse stato, si sarebbe reso conto che c’era qualcosa di sospetto? Difficile dirlo, anche se un treno che parte fuori orario, “in silenzio”, senza il classico fischio del capotreno che chiude le porte, qualche sospetto dovrebbe farlo venire, ma difficile che venga, sotto il sole agostano… se fosse successo, cioè se l’unico occupante si fosse reso conto dell’anomalia, avrebbe potuto azionare il freno di emergenza. Al netto dei danni materiali, dunque, la cosa si è risolta tutto sommato in modo indolore – certamente non per i due che saranno sottoposti a qualche rigido provvedimento disciplinare (e probabilmente al pubblico ludibrio dei colleghi per il resto della loro vita lavorativa).
Come diceva qualcuno però, se non fosse tragico (e lo è), sarebbe ridicolo. Forse effetto di come è stato montato il servizio televisivo sulle reti Rai, non ho potuto fare a meno di notare una certa vena “ironica”: immaginate una cosa alla Stanlio e Ollio – che in gergo, quand’ero bambino, mia nonna chiamava “ridolini”: questi che prendono il caffè al bar della stazione, al primo binario e magari il convoglio, alle loro, spalle, silenzioso e all’inizio a velocità minima, ma in inesorabile accelerazione, comincia a muoversi. A parte sentirsi ghiacciare la schiena, la reazione sarà stata quella di rincorrere, ma, per quel che la cronaca narra, senza successo. Quindi scatta il piano di deragliamento perché alle leggi elementari e ineludibili della fisica non si sfugge e l’energia cinetica (ricordo: E = 1/2 * m * V2) di “quell’oggetto” chiamato treno, ha dalla sua non tanto la velocità (che, pur modesta, varia con il quadrato) ma la massa. I treni, è noto, pesano. E fermarli in spazi ragionevoli è sempre stato un problema.
Sul convoglio c’è una persona ma non c’è modo di avvertirla: un po’ perché forse nessuno lo sa e soprattutto perché lui legittimamente dorme (quale posto più tranquillo di un treno agostano deserto, “abbandonato” su un binario, per schiacciare un pisolino?) – e questo di nuovo, nella sua tragicità, perdonerete l’irriverenza, fa ridere.
Così come mi ha fatto ridere la testimonianza raccolta dal giornalista (ah, i giornalisti, che cialtroni a volte!) che, intervistando uno che abita nei pressi di dove il treno è stato fatto deragliare ha fatto un commento del tipo: «Eh, sì, ho sentito un gran botto… come di un treno che deragliava!» – caspita, un genio! Anche perché il “rumore tipico” di “treno che deraglia” in effetti lo si può sentire a giorni alterni e quindi alla fine diventa facile riconoscerlo… (ma la gente ci è o ci fa?)
Un amico camionista mi chiede: ma com’è che sui treni non scatta nessun “cicalino” se uno lascia incustodito il convoglio? Beh, non c’è nessun sistema perché (1) non è previsto che il convoglio venga lasciato incustodito e (2) ci sono spiegazioni anche tecniche con le quali non voglio annoiare chi leggerà questo post. Fatto sta che io – dacché ho lasciato “il pazzo pazzo mondo ferroviario” – mi stupisco quasi sempre del contrario: vale a dire di come ne succedano in realtà poche rispetto al livello generale di sicurezza che, dal 1995 (anno della mia assunzione) al 2005 (anno delle mie dimissioni), ho visto calare sensibilmente.