Non so se nessuno abbia scritto mai un libro o una sceneggiatura in cui il protagonista, magari svegliandosi, scopre di essere morto, di essere passato in un altro regno – che solo la nostra scarsa fantasia, apostroferebbe Nietzsche, vorrebbe in tutto simile al mondo terreno nel quale viviamo – semplicemente accorgendosi di non proiettare più alcuna ombra.
Il fatto che tale mondo ultraterreno sia in tutto simile a quello che abbiamo lasciato, acutizza però il senso di straniamento: nulla è diverso tranne questo piccolo, quasi insignificante, dettaglio: il nostro corpo non produce ombra perché la luce solare – sarà a questo punto lo stesso astro che illumina il nostro pianeta, ci chiederemmo piuttosto lecitamente – non si frange contro la materia di cui siamo composti.
Non so se nessuno lo abbia fatto, ma lo ritengo molto probabile, giacché quel libro immenso che è la Commedia dantesca, tra gli infiniti spunti che offre, ci dà anche questo. Siamo nel Purgatorio e, al secondo canto di questa seconda cantica, il nostro poeta-pellegrino (come è battezzato da Vittorio Sermonti e forse prima di lui – o con lui – da Gianfranco Contini) incontra un vecchio amico (della cui biografia reale nulla sappiamo), Casella. Dopo la traversata infernale – il mondo infero si caratterizza, tra l’altro, per una delle deprivazioni tanto banali quanto fondamentali: quella dell’assenza di luce naturale, che permette al nostro ritmo circadiano di funzionare – e l’uscita “a riveder le stelle” conduce i due pellegrini, Dante e Virgilio, a quel “mondo di mezzo”, il Purgatorio, recente “scoperta” consacrata dal poema. Ma mentre in tutta la prima cantica, pur con tutte le interazioni tra i due protagonisti del viaggio e i personaggi – siano essi anime dannate, siano essi creature infere – che popolano quel regno, non c’è quasi stata interazione fisica (soprattutto con i dannati), ma solo dialoghi tenuti a debita distanza, qui, per la prima volta, Casella si fa incontro a Dante con le braccia aperte (immaginiamo) come segno di un abbraccio; Dante di riflesso tenta di abbracciarlo, ma “tre volte le mani dietro a lei [“l’ologramma” di Casella ci verrebbe da dire in termini moderni] avvinsi, / e tante mi tornai con esse al petto”. Ne segue un momento di imbarazzo che ci mostra tutta la potente e stupefacente “magia divina” di questo poema, lasciando a tutti noi il segno del mistero divino (uno dei tanti): Virgilio, guida di Dante, fatto della stessa incorporea materia, nell’Inferno in più di un’occasione abbraccia Dante e in almeno un’altra lo stringe a sé spiccando un salto (volando?) per salvarlo da un pericolo imminente. Quindi le regole cambiano e l’interazione tra materia e non-materia pure. Mistero che lasciamo tale e accettiamo come tale.
In altre occasioni, all’Inferno, lo statuto di Dante veniva riconosciuto come diverso dalle anime dannate e il dettaglio non era tanto l’ombra, difficile da proiettare data la scarsa illuminazione, quanto il respiro: i dannati e le creature deputate al buon funzionamento del regime carcerario di questo regno dannato avevano un moto di sorpresa perché vedevano Dante respirare. Qui è la luce che rivela il poeta-pellegrino essere anima incarnata. Così nel terzo canto un episodio acutizza la sua diversa ontologia, facendogli credere, per un attimo, d’essere rimasto solo sulla costa iniziale di quel monte Purgatorio:
Ma la luce fiammante del sole, che ha appena svelato la montagna frangendovisi contro, subito denuncia al pellegrino la singolarità della sua condizione fisica: investendolo da dietro, la luce si rompe davanti alla sua figura per l’ostacolo (l’appoggio) che quella le interpone. E nel vedersi ai piedi un’unica sagoma d’ombra, Dante si rivolge a lato spaurito: fosse rimasto solo…*
Ovviamente così non è: Virgilio lo rincuora ricordandogli, con una vena di tristezza (che non spigheremo qui), le differenze tra lui e loro, anime trapassate, e il viaggio prosegue.
Dovremmo aspettare più o meno 175 anni per vedere – in una tela famosissima – un rovesciamento della prospettiva: l’annuncio dell’arcangelo Gabriele a Maria è ambientato nel giardino di un elegante palazzo rinascimentale. L’angelo è creatura concreta che proietta l’ombra sul prato, provviste di ali robuste e realistiche perché l’autore aveva studiato il volo degli uccelli e quell’autore è Leonardo Da Vinci.
* Vittorio Sermonti, Il Purgatorio di Dante, Rizzoli, Milano, 2015.