Torno, ancora una volta (anche su questo blog ne ho scritto qui e qui in tempi recenti, sul blog della Società di Chimica Italiana, qui) su Dante, su quell’immenso libro che è la Commedia e sulla meritoria opera di Vittorio Sermonti che me lo sta facendo apprezzare. La Commedia è una specie di “maratona” (se si pensa che sono 100 canti e non tutte le sere li si ascolta e guarda, sono tre mesi e mezzo, diciamo quattro…) e con quel passo, che ci consente di assaporarla, va presa. Questa volta però non sono considerazioni mie, ma dello stesso Sermonti, a cui lascio autorevolissima voce, in questo brano che segue, nel quale condensa, in poco più di un paragrafo, ciò che la Commedia è e ciò che la Commedia significa (o dovrebbe significare) per noi italiani.
Questa «summa tonale», in cui è dettato il libro [la Divina Commedia] che stiamo leggendo, costituisce — ricordiamolo — un inesauribile scandalo linguistico. Lingua della conoscenza e del canto, lingua impura, erudita e popolare insieme, che presta identica misura d’attenzione alle geometrie musicali delle sfere celesti e ai congegni di un orologio meccanico, alla precipitosa circospezione d’un ramarro che traversa la strada e ai languori del desiderio, al sorriso furtivo di una dama e alla corruzione della Chiesa militante, alle tecniche del peculato e al computo degli angeli, alle trappole del rimpianto e alle architetture della luce, alla libertà morale, alle malattie della pelle, ai nomi dell’acqua, alla circolazione monetaria, al disegno volubile d’un volo d’uccelli contro il crepuscolo e alla solitudine di Dio… questa scandalosissima lingua senza registro – non sarà male ricordarlo di tanto in tanto – costituisce per noi poveri italiani d’oggi, ridotti a importare quasi tutto (tecnologie, modelli di vita, sogni e bisogni), un prezioso blasone d’identità. Perché proprio in questa lingua ibrida, dotta e domestica, che convoglia nel fiorentino del Due-Trecento la tessitura d’intonazioni e l’energia vocale delle cento parlate della penisola a una quota suprema di pensiero e di pronunciamento poetico, si è fondata sette secoli fa, e continua concretamente a fondarsi l’unità spirituale di una nazione chiamata Italia. Finché nella penisola comunicheremo pensieri alti e complessi, percezioni impalpabili, emozioni forti e semplici nella lingua battesimale della Commedia, temo che dovremo rassegnarci all’umile e scomodo destino di essere italiani.
Può bastare così? Io dico che può bastare.
Vittorio Sermonti, Il Purgatorio di Dante, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2015, pp. 453-454.