BASTA, (Scusate il maiuscolo “urlato”…) non se ne può più con questa schizofrenia umana!
I fatti: i delfini fatti fuori, insieme alle balene, dai giapponesi, a suon di arpioni; l’orsa Daniza è morta perché non ha retto il narcotico (ma va? Sono riusciti a sbagliare la dose?); i capodogli si sono arenati sulle spiagge di Vasto.
Il commento ai fatti (in ordine): i giapponesi, ‘sti cazzarola di giapponesi dai mille inchini, pare (così dicono i giornali) si giustifichino sostenendo che “è una loro tradizione”. Sì, ma Madonna Svizzera (come si dice dalle mie parti in cui posso assicurare che i “rosari” sono molto più coloriti di così), anche noi ai tempi dei Romani c’avevamo il Colosseo pieno di gladiatori mangiati vivi dai leoni, in mezzo a bagni di sangue. Poi però, da qualche anno, abbiamo smesso. Che cavolo di giustificazione è “è una nostra tradizione”? Alcune volte mi verrebbe da applicare in questi casi il precetto cristiano (nel senso: detto proprio dal Cristo): “non fare ad altri ciò che non vuoi venga fatto a te”. Non so quanto i giapponesi sarebbero contenti se, facendo dei tranquilli bagni al mare, qualcuno li avvicinasse con un gommone e li arpionasse…
L’orsa Daniza: nonostante la “commozione” questo giornalismo del cavolo (signori vi assicuro che mi sto trattenendo dal turpiloquio…) intervista il povero pastore a cui è stata rosicchiata una pecora (che la florida regione autonoma del Trentino Alto Adige mi auguro per lui gli avrà indennizzato a peso d’oro), facendo tacitamente passare per “criminale” mamma orsa che forse qualcuno vorrebbe diventasse di colpo vegetariana… Gli orsi DA SEMPRE mangiano carne. Eh ma il pastore era (giustamente) a disagio, pensando che un’orsa si avvicinasse alla sua dimora (chi non lo sarebbe). Pensiamo, solo per un attimo al disagio dell’orso: circondato dalla bestia più pericolosa in assoluto della terra, l’uomo.
Da ultimo i capodogli: si arenano, succede. E’ successo a loro ed è successo ad altri cetacei. Ancora una volta la demenza giornalistica: “hanno perso l’orientamento”. Già, come fossero umani che non sanno più da che parte girarsi e chiedono informazioni. Voglio proporre (1) di istituire delle scuole per insegnare almeno a leggere ai capodogli: è intollerabile tutta questa ignoranza e (2) una volta stabilito il grado di apprendimento piantare strategicamente sul fondo marino dei cartelli indicatori, così non si perdono più…
I fatti mi fanno infuriare nella loro oggettività, ma mi fa veramente incazzare (scusate) come vengono presentati. Fine dello sfogo.
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La solitudine del Nebraska
Nulla di nuovo sotto il sole, per carità. Anzi: sotto il cielo latteo di questo scorcio di Stati Uniti. Siamo stati invasi, fin dal dopoguerra, (anche) culturalmente, spesso con junk film, B movies (che magari la tv italiana ha acquistato perché costavano meno), ecc.
Ma l’ “America” (sineddoche di Stati Uniti, appunto) ha saputo darci anche qualche buon film e qualche rarissimo capolavoro. E questo Nebraska appartiene senz’altro più alla prima categoria che alla seconda. La storia del cinema è densa di esempi in cui al viaggio fisico (e questo a buon titolo può essere considerato in un certo senso anche un road movie…) diventa immediata metafora del viaggio nella conoscenza (di sé, degli altri), negli affetti, nel rapporto padre-figli – e su quest’ultimo tema non posso non pensare al bellissimo e misconosciuto (ma vincitore del Leon d’Oro a Venezia) Il ritorno, di Andrej Petrovič Zvjagincev, del 2003, girato dalla parte opposta del mondo. Il tema è lo stesso ma svolto in una modalità traumatica e dolcissima: i ragazzi che non hanno mai visto il padre, vivono nel bellissima scenario naturale della Russia bianca, in condizioni modeste, con la madre. Il misterioso padre un bel giorno fa capolino (e la prima immagine che di quest’uomo vediamo, dormiente, attraverso gli occhi dei ragazzi è la trasfigurazione del Cristo morto del Mantegna, ahimè triste presagio di quel che nel film accadrà…) e porta con sé i ragazzi che, al termine di quel viaggio di forzata e subitanea bildung, torneranno a casa uomini.
La funzione del padre così si catalizza traumaticamente in un arco di tempo ristrettissimo. Ma era quel che accadeva una volta anche nella realtà – neanche troppi anni fa – da noi: le guerre rendevano orfani e questi orfanelli molto prima di quella che l’attuale età (dilatata) dell’adolescenza, diventavano dei veri e propri piccoli uomini (e piccole donne…).
Ma torniamo a Nebraska: il pretesto per il viaggio – una fantasiosa vincita di un milione di dollari, per pubblicità, a cui questo vecchio e scorbutico padre crede – è la conoscenza, da parte del figlio minore, di quest’uomo, di un passato del quale è stato reticente, essendo “uomo di poche parole”. Un viaggio sulla falsità delle parentele e delle amicizie, pronte ad avanzare (anche pretenziosamente, in almeno un caso) la mano della carità nell’ipotesi – inizialmente forte in parenti e amici – che la vincita sia reale. E’ il viaggio nel ventre molle di un’America in cui non succede niente, in cui alla rarefazione del paesaggio corrisponde una rarefazione delle parole e dei sentimenti, in cui, siccome “non c’è niente da fare”, si beve (e si stupra), all’interno di un’umanità modesta e di modeste ambizioni. E’ il viaggio nella bontà ultima di quest’uomo che “vorrebbe lasciare qualcosa” a questi figli ai quali è sembrato di non aver lasciato nulla. E infine, last but not least, è il viaggio nella sincerità – anche cruenta – legata a una sorta di predestinazione cui quella generazione sembrava – lì come altrove – essere soggetta. Questa sincerità che emerge in un dialogo folgorante e reso forse lucido da qualche birra di troppo, che fa più o meno così:
– Ma tu amavi la mamma? Volevi sposarla?
– Bah, lei ci teneva tanto e mi sono detto “perché no”.
– E ai figli? Hai pensato se volevi figli?
– No, non ci ho pensato. Ma tua madre è una cattolica e a me piaceva scopare: fai tu la somma. Sapevo che a forza di provare qualcosa sarebbe successo.
– Ma perché hai iniziato a bere?
– Beh prova tu a essere sposato con una come tua madre…
– E non hai mai provato a chiedere il divorzio?
– Già. Chiedevo il divorzio per poi incontrare un’altra donna che mi avrebbe rotto i coglioni esattamente allo stesso modo.
Questo (e molto altro) è Nebraska.
Storia di una ladra di libri: un "dettaglio"
Nella piccola vacanza appena finita siamo riusciti ad andare a un’arena estiva, a Catania, per vedere un film che avevamo perso in quella pisana: Storia di una ladra di libri. Giuro: non dico nulla sulla trama per chi non l’ha ancora visto e vorrebbe farlo.
Dico solo che la storia è (per fortuna) un po’ una fiaba che mitiga lo sfondo dell’ascesa del nazismo e la storia della deportazione degli ebrei (e non solo). La produzione del film è statunitense/germanica e qui viene l’inghippo: nella storia c’è un imparare a leggere e a scrivere. I progressi documentati e ripresi però non sono di parole tedesche, ma MOLTO inverosimilmente di parole in inglese!!! Il film è bello, la storia è bella, e questi mi sono scivolati sulla buccia di banana della più banale delle filologie! Non solo quando la ragazza impara a scrivere, ma anche quando poi darà seguito a letture “proibite” (come possiamo dimenticare le tristi immagini dei roghi di libri?): ogni tanto si inquadrava il libro di H. G. Wells ed era scritto in inglese… bah!
Peccato davvero: il troppo spesso bistrattato tedesco (spesso chi bistratta è perché non ne conosce neanche una parola) è una lingua fine, precisissima, “specchio” della razionalità (nel caso specifico purtroppo male indirizzata) di un popolo che ha perso due guerre mondiali e continua a essere la prima potenza economica europea. La lingua del pensiero occidentale (temporalmente dopo il greco antico).
Che tristezza!
Su certe inevitabilità: un post scriptum
Vorrei aggiungere solo due parole alla questione dolciaria a Catania, e suppongo, per estensione, all’intera Sicilia. Gli abitanti di quest’isola sono dei “pazzi”: facendo un cerchio con raggio 300 metri e prendendo come centro del cerchio il luogo in cui alloggiavo – sostanzialmente la fine di Corso Italia, quando si sbuca sul mare – ho contato almeno 4 bar-pasticceria (tutti grandi, con vetrine come quella che potete trovare qui sotto) e una pasticceria (che si “limita” a vendere dolci da svenimento).
Ora faccio un discorso di marketing spicciolo: se nessuno di questi esercenti, a così breve distanza e così fornito, con vetrine che contano metri, decametri, ettometri e chilometri lineari (le vetrine sono su più piani… e spesso, magari meno visibili, ci sono i frigo-vetrina, con i dolci deperibili: cassate e torte con creme in genere) fallisce, vuol dire che tutti hanno una loro clientela (consolidata o meno che sia) che li tiene in vita. Possiamo serenamente riconoscere che mediamente le persone del Sud – per la qualità e la quantità del cibo – tendono a essere più in carne di quelle del Nord, ma se si pensa a tutto questo popo’ di benedizione divina quotidiana, neppure tanto!
Fatto sta che in posti così è un casino per chi “assimila” o fa poco – o nessuno – sport.
Su certe inevitabilità
Catania, la mattina successiva al giorno di arrivo, avvenuto il 22 agosto.
Bar Galatea, in piazza Galatea a Catania (e se questa anche fosse pubblicità occulta poco mi interessa), intorno alle 9,15. Siamo un gruppetto di persone che devono fare colazione. Arriva la cameriera che prende gli ordini.
E ordini = granite. A me consigliano quella la gelso che è qui è DI gelso, CON sopra i gelsi. Certe preposizioni semplici nella vita sono importanti e fanno una certa qual differenza nelle tassonomie che riguardano la voce concettuale “granite (a Catania)”. La cameriera risponde con un termine non appropriato ma significativo e dice: “Sì, ma è inevitabile”. Lo usa come sinonimo per dire “non la facciamo quella al gelso in altro modo che non sia questo e quindi inutile specificare”, ma dice proprio “inevitabile”.
Ora delle tante inevitabilità della vita che mi sono accadute, questa è quella più auspicata e sempre sia lodato il Creatore – ammesso che esista e da qualche parte sia (ma la Granita DI gelso CON gelso tende a essere una prova inconfutabile di tale esistenza) – che tutto ha creato, compresa questo cibo.
Cibo che a posteriori la dice lunga anche su certe pacificazioni. Stare al Sud è oggettivamente difficile per chi arriva da sopra Roma. Questo per una interazione umana che con difficoltà si capisce (per motivi storici): la causa di queste differenze è spesso individuata nel caldo che implacabile regna per almeno metà dell’anno, ma non è questa la sede per una disamina. L’isola è bellissima, i posti e la natura sono fantastici e ovunque però si ritrova – in misura maggiore o minore – una tendenza alla sciatteria, alla mancanza di decoro (penso banalmente a quello urbano), specchio accentuato e deformato del resto d’Italia. Per non parlare dell’assenza totale del rispetto delle norme che regolano la circolazione stradale, spesso applicate al contrario, con gente che si ferma in mezzo alle rotonde o anche dovunque in mezzo alla strada per rispondere al cellulare, con persone che non obbligatoriamente portano il casco (“Anto’, fa caldo…”) e stanno in due o tre su uno scooter, con bimbi, guidando con una mano sola e con l’altra digitando messaggi al cellulare. Una babele che manda fuori di testa chi è abituato altrimenti e altrove.
E’ qui, quindi, che la granita DI gelso CON gelso, nella sua inevitabilità, oserei dire anche nella sua ineluttabilità, così peculiare nel bar Galatea di piazza Galatea, viene in soccorso come la migliore panacea, pacificando ogni automobilistica collera.
Qui di seguito raffigurazione fotografica di quanto appena descritto (ah, ovvio che di fianco alla granita ci sta l’immancabile brioche…)
Addio Mork! Ci vedremo su Ork?
La morte di Robin Williams coglie tutti noi di sorpresa. La vita – quella vera – delle celebrities ci è sempre ignota. Così nessuno sapeva che il caro vecchio Mork che su un uovo veniva da Ork di quando ero bambino soffriva di depressione e aveva problemi con l’alcol. Una brutta notizia sulla quale mi è venuto quasi da piangere e da farmi domande sceme del tipo: “ma una persona così che dalla vita possiamo ragionevolmente supporre abbia avuto tutto, com’è che decide di farla finita?”.
Domanda scema appunto, che denota una qual certa mia superficialità: le cause di certi “mali” sembrano prescindere da ogni condizione sociale. La vita è sempre una questione personale, difficilmente negoziabile col prossimo, chiunque esso sia. Del pari la solitudine è questione metafisica difficile/impossibile da comunicare. E così tutte le persone del mondo (e sono convinto siano molte) che hanno sorriso o pianto di fronte alla scena di uno dei suoi molti indimenticati film a nulla sono servite per farlo desistere da questo proposito.
Addio Robin, anzi “nano-nano”. Un giorno forse da qualche parte su Ork ci incontreremo, chissà.
Lei, una vita di quieta disperazione
L’estate, si sa, per chi rimane a cavallo tra città e vacanza, è fatta, per chi è cinefilo e durante l’inverno si è perso qualche film, anche di arene estive. Spesso commoventi (almeno: lo è l’Arena Roma, proprio dietro la torre di Pisa) per la loro intimità, per i loro baracchini posticci che devono durare solo la stagione, che vendono gelati e caffè. Dove, chi è fumatore non è ghettizzato e può liberamente accendersi una sigaretta e annebbiare per quel poco una parte dello schermo a chi sta dietro.
Ebbene, l’altra sera siamo andavi a vedere “Lei”, un film semifantascientifico che racconta di un mondo non lontano dal nostro, ombelicale, con gente perennemente connessa, all’interno della megalopoli (Los Angeles, mi pare di ricordare) la cui dimensione della solitudine è data dalla selva urbana, nella quale il protagonista si innamora di un sistema operativo “evoluto” e di intelligenza artificiale che, in quanto tale, è pervasivo di ogni intimità della persona.
Insomma: l’estremizzazione – neppure troppo – della follia nella quale siamo immersi. I temi del film sono i “grandi classici”, mescolati un po’ ossessivamente: la solitudine dei tempi moderni con la schizofrenica discrepanza tra l’essere sempre connessi e non avere nessuno che “chiama”; l’intelligenza artificiale con un limite molto ben descritto altrove da grandi classici come “Blade runner”, basato sul geniale e visionario romanzo di Philip K. Dick; la melensaggine di una storia d’amore virtuale e l’incapacità di vivere storie “vere” con persone in carne ed ossa.
Molto ci sarebbe da discutere su un film come questo per i temi che tratta, ma l’impressione è quella di un mondo (il nostro, occidentale e ombelicale) condannato alla solitudine appunto, alla quieta disperazione di un quotidiano che non lascia spazio ad altro che non sia lavoro e rapporti interpersonali ridotti all’osso. Gli ingredienti sono mescolati male però: troppa carne al fuoco, trattata con una certa superficialità – secondo il mio punto di vista.
Farà piacere un bel mazzo di rose
Chi non ricorda l’incipit di una delle più celebri canzoni di Paolo Conte? La “Iannaccesca” Bartali, con il protagonista che sta lì, seduto in cima a un paracarro (una roba veramente d’altri tempi e molto piemontese, il paracarro…) che pensa agli affari suoi, mentre sta lì e aspetta Bartali, scalpitando sui suoi sandali.
Insomma: scrivere qualcosa prima che Nibali (che incidentalmente fa rima con sandali e Bartali…) vincesse in via definitiva, sarebbe stato presuntuoso e forse avrebbe pure portato un po’ di sfiga, ma la sfortuna qui non c’entra: questo piccolo grande uomo (65 chili di nervi e muscoli) è arrivato alla vetta non certo per questioni di fortuna o sfortuna e ha il merito – almeno per come la vedo – di riconciliare un po’ tutti noi (anche chi come me il ciclismo alla fine non l’ha mai seguito davvero e solo l’ha immaginato nelle filmiche sequenze della canzone di Conte, dove abbaia la campagna e c’è una luna in fondo al blu) con questo sport che negli ultimi anni, un campione via l’altro, ha sempre gettato la velenosa ombra del doping sulle vittorie dei protagonisti, con il conseguente tradimento di una fiducia.
Fiducia in primis che si instaura tra il campione del momento e un pubblico che magari sul paracarro non ci sta più, ma che con trepidazione segue e ha seguito questo sport nelle cui immagini di repertorio, ci ha sempre lasciato il sapore dell’eroismo, della fatica improba, quella della salita nella quale abbassi lo sguardo sui piedi, una pedalata via l’altra.
Poi, come molti in questi anni – a partire dal (o forse per arrivare al) catanese Luca Parmitano, altro eroe, stavolta astronauta, che racconta il suo sangue freddo nell’incidente occorsogli durante la missione in esterno nella stazione spaziale internazionale (trovate le sue vividissime parole qui) – si parla ancora una volta di un siciliano. Sarà che sono un po’ sensibile alla questione, ma, in certi momenti c’è di che commuoversi.
Bravo Vincenzo! (… e i francesi che s’incazzano, che le balle ancora gli girano… zazzarazzà zazzarazzà zazzarazazzarazzazzazzà…)
Un giorno (quasi) di fuoco
Alla fine di giugno Pietro Gallesio diede la parola alla doppietta. Ammazzò suo fratello in cucina, freddò sull’aia il nipote accorso allo sparo, la cognata era sulla sua lista ma gli apparì dietro una grata con la bambina ultima sulle braccia e allora lui non le sparò ma si scaraventò giù alla canonica di Gorzegno. Il parroco stava appunto tornando da visitare un moribondo di là di Bormida e Gallesio lo fulminò per strada, con una palla nella tempia. Fu il più grande fatto prima della guerra d’Abissinia.
Così inizia Un giorno di fuoco, uno dei racconti più pirotecnici di Beppe Fenoglio. E questa storia, quella della cronaca di questi giorni, del contadino solitario, Piero Arri, di 72 anni che nella sua cascina sperduta nell’astigiano si barrica in casa facendo resistenza alla polizia, un po’ ricorda – seppure da lontano – la vicenda di Gallesio, quasi omonimo nel nome.
Nella realtà per fortuna nessuno si è fatto male, ma che il pover’uomo, come in epilogo fece il Gallesio della narrazione fenogliana, potesse in extremis rivolgere l’arma verso di sé, non era ipotesi da scartare.
Al tuo fianco, Marcello
Ascoltavo il giornale radio questa mattina e la colazione tra un po’ mi va di traverso.
La notizia – comunicata da un’ascoltatrice (perché ci si guarda bene dal dire certe cose, mi vien da pensare…) – è che, pur a pagamento, sul Corriere della Sera di oggi è comparsa una pagina di solidarietà a Marcello Dell’Utri, condannato in via definitiva in cassazione per concorso esterno in associazione mafiosa.
Gli aspetti sconcertanti sono (secondo me):
- che il giornalista che conduce questa settimana “Prima pagina” su radio 3, Alessandro Campi, a commento della telefonata dell’ascoltatrice abbia balbettato qualcosa senza condannare fermamente l’episodio, a mio parere gravissimo, limitandosi a dire che la pubblicazione del redazionale (così si chiamano le pagine a pagamento dei giornali) da parte del Corsera è “inopportuna”. La mia opinione, che però non conta niente, è che dovrebbe essere invece vietata per legge se “oggetto” della pubblicazione è una persona condannata in via definitiva. Altrimenti se a me ha fatto del bene chessò, Totò Riina o Bernardo Provenzano, posso anche spendere i miei soldi per far sapere a tutta Italia che voglio loro bene. Per carità, essere adulti significa capire che buono e cattivo, bene e male albergano in ognuno di noi, nella società e nel nostro prossimo, ma quando la condanna è definitiva esiste il bene da una parte e il male dall’altra e vuol dire che se si è stati condannati l’ago della bilancia è decisamente inclinato verso il male;
- che il Corriere, autorevole testata nazionale, abbia pubblicato questo appello di solidarietà. Non sono certo i soldi che ha ricavato da questa operazione a migliorare il suo bilancio, credo. Ma credibilità e serietà dove stanno?
Bisognerebbe fare, come legge del contrappasso, quel che suggerisce il mio collega: voi firmatari di quell’appello, volete stare letteralmente al fianco di Dell’Utri? Bene, allora tutti nella stessa cella (magari in piedi per qualche ora, visto che sembrano essere in tanti…).
Come diceva Ed Murrow, «good night & good luck»
PS: qui di seguito le testate (non tutte…) che questa mattina hanno pubblicato la notizia: