2052, qualche idea sullo stato del mondo (parte 2 di 2)

Continuo, a distanza di tempo la lettura di 2052 di Jorgen Randers. La seconda parte è semplicemente una lunga citazione che merita di essere riportata per intero, sempre da questo libro. Non credo abbia bisogno di commento alcuno. La questione ecologica è certamente la più dolorosa: stiamo distruggendo letteralmente la nostra casa e il nostro habitat. Per i più scettici: se anche fossero vere la metà delle cose qui di seguito descritte, sarebbe gravissimo. L’idea di “limiti del pianeta da non valicare” è di qualche anno fa e ha tra i suoi autori Johan Rockström, direttore del Stockholm Resilience Centre, un centro di eccellenza dell’Università di Stoccolma che, appunto, si occupa di resilienza globale. Un suo vecchio articolo su Nature, questo, nel 2009 già parlava di “safe operating space” entro i quali l’umanità tutta dovrebbe stare. Quasi 10 anni fa la voce più importante era la biodiversity loss
Come racconta la dettagliata voce Wikipedia (mai tradotta nella nostra lingua, nonostante lo schema presentato fosse familiare a tutti coloro che hanno seguito il programma televisivo Scala Mercalli, di Luca Mercalli), Planetary boundaries, il tasso di perdita delle specie non prossime all’uomo è ancora elevatissimo.

La biodiversità è la diversità della vita a vari li­velli di organizzazione, dai geni alle specie, dagli ecosistemi ai biomi e ai paesaggi. Per quel che ne sappiamo, appena prima della comparsa dell’uomo moderno la terra era più biodiversa di quan­to fosse mai stata durante i 3,5 miliardi di anni di vita sul pianeta, e prima che iniziassimo a sov­vertire le cose, ospitava un totale tra i 10 e i 100 milioni di specie. Il registro dei fossili mostra che ci sono state cinque estinzioni di massa negli ultimi 400 milioni di anni, tutte dovute a cause na­turali come l’impatto di meteoriti o gigantesche eruzioni basaltiche, o magari per drastiche rior­ganizzazioni interne alle comunità biotiche. Ma la più grande e più veloce estinzione di massa sta avvenendo adesso ed è interamente dovuta alle attività economiche delle moderne società.
Stiamo assistendo a un’emorragia di specie con un tasso di estinzione nove volte superiore a quello naturale o, più prosaicamente, perdiamo ogni giorno centinaia di specie, soprattutto nelle grandi foreste tropicali, per il nostro sconfinato desiderio di legno, soia, olio di palma e manzo. Le barriere coralline e il regno marino in generale non sono esenti dalle nostre attenzioni distrutti­ve — anche loro stanno sperimentando catastro­fiche riduzioni di specie. La lista delle atrocità che la nostra cultura ha perpetrato al pianeta vi­vente è un racconto agghiacciante. Entro il 2052 potremmo aver eliminato un quarto di tutti gli organismi sulla Terra. Già nel 2000 circa l’11% di tutte le specie di uccelli, il 18% dei mammiferi, il 7% dei pesci e l’8% di tutte le piante del mon­do erano a rischio estinzione. Stando al Living Planet index, nel periodo dal 1970 al 2000 la dimensione delle popolazioni di specie forestali si è ridotta del 15%, quella delle specie di acqua dolce di uno sconvolgente 54% e quella delle specie marine del 35%. Entro il 2052, potremmo aver aumentato il tasso complessivo di estinzio­ne delle specie di circa 10.000 volte rispetto al tasso naturale di contesto.
Le cattive condizioni della biodiversità nel mon­do moderno hanno bussato alla mia porta di re­cente, quando ho portato mio figlio di nove anni in visita allo zoo locale. Ciò che vi abbiamo trova­to incarna verosimilmente quella che potrebbe essere la relazione tra gli uomini e iI resto del mondo biologico nel 2052. Una marea di esseri umani ossessionati da telefonini, macchine fo­tografiche e da una pletora di beni di consumo distruttori del pianeta, che ribollivano e sciama­vano in una folla pulsante e rumorosa intorno a piccole isole di habitat artificiali accuratamente gestiti, ognuno contenente una specie esotica o condannata all’estinzione o sotto grave stress nella sua sempre più ridotta casa nella natura selvaggia.
Nel 2052 il mondo assomiglierà a un grande zoo, solo molto peggiore, perché per allora avremmo ridotto tutti gli ecosistemi terrestri del pianeta, un tempo vasti e intoccati, a piccole isole di ha­bitat circondate da campi agro-industriali fram­mentati da strade, piloni e città in espansione. II cambiamento climatico avrà poi reso il piane­ta praticamente invivibile per la maggior parte delle specie, compresi noi, a causa degli eventi meteorologici estremi e dell’aumento del livello del mare.
I motori principali dell’estinzione di massa, entro Il 2052, saranno molto più evidenti che oggi. For­se il più importante di tutti sarà la distruzione e la frammentazione degli habitat, che credo per quell’epoca avranno rovinato tutte le aree natu­rali del pianeta e in particolare le foreste pluviali tropicali, che sopravviveranno solo come residui miserabilmente piccoli e severamente degradati all’interno di parchi nazionali e riserve.
Un altro motore cruciale dell’estinzione di massa è l’introduzione di specie esotiche, che nel 2052 potranno aver spazzato via molte più specie ri­spetto ad altre importanti cause come l’Inquina­mento, la pressione della popolazione umana e il sovrasfruttamento delle risorse. Già nel 2006, negli Stati Uniti, circa 4.000 specie di piante esotiche e 2.300 specie di animali esotici aveva­no minacciato il 42% delle specie elencate sulle liste delle specie a rischio, causando un danno di circa 138 miliardi di dollari nei settori forestale, agricolo e ittico.
Ma forse il più pericoloso di tutti i motori dell’e­stinzione di massa nel 2052 sarà il cambiamento climatico. Nel 2052 il pianeta si sarà riscaldato di 2°C e forse anche di più, con conseguenze disa­strose sia per gli uomini sia per la biodiversità. Uno degli impatti peggiori potrebbe essere il collasso irreversibile della foresta amazzonica a causa degli incendi. L’anidride carbonica rila­sciata da questi incendi potrebbe far aumentare le temperature di 10°C entro la fine del secolo, un ritmo molto più rapido rispetto a qualunque altro episodio precedente di riscaldamento glo­bale naturale.
Il cambiamento climatico spingerà le specie fuo­ri dai loro areali in cerca di nuovi habitat. Ogni specie ha un suo specifico range di tolleranza di temperatura e umidità, e già adesso le specie si stanno spostando per seguire le loro zone di comfort climatico mentre il clima cambia intor­no a loro. Uno studio del 2003 su 1.700 specie re­gistrava uno spostamento verso i poli di sei chi­lometri ogni dieci anni, e una ascesa sui versanti delle montagne di sei metri ogni dieci anni.
Stiamo potenzialmente sradicando l’intera bio­sfera con modalità senza precedenti. Gli esempi sono infiniti, come la marcia verso nord della fo­resta boreale a spese della tundra; l’espansione verso nord delle volpi rosse nel Canada Artico e il contemporaneo restringimento dell’areale della volpe artica; lo spostamento verso l’alto di 1-4 metri per decennio delle piante alpine nelle Alpi europee; la sempre maggiore abbondanza di specie di acqua tiepida tra lo zooplancton, i pesci egli invertebrati dei litorali nel Nord Atlan­tico e lungo le coste della California; e l’espansio­ne degli uccelli delle terre basse del Costa Rica dai bassi pendii delle montagne verso aree più elevate per la mutata frequenza delle nebbie umide nella stagione asciutta. Nel 2006 in Gran Bretagna e Nord America 39 specie di farfalle si erano spostate fino a zoo chilometri verso nord in 27 anni.
Entro il 2052, molte specie terrestri saranno estinte, perché il cambiamento climatico le avrà obbligate a trovarsi nuove dimore, ma le loro migrazioni forzate saranno state rese impossi­bili dalla grave frammentazione degli habitat. Nel regno marino, un numero enorme di specie adattate alle acque fredde si saranno estinte alle latitudini più elevate, lasciando piccoli spazi preziosi per le specie che dagli oceani tropicali e subtropicali stanno migrando verso i poli. L’a­cidificazione degli oceani — un risultato diretto dell’aggiunta di anidride carbonica in atmosfera — avrà spazzato via molte specie che costruisco­no parti del proprio corpo col carbonato di cal­cio, come i coralli e alghe marine coccolitoforidi. Molte di queste specie giocano un ruolo essen­ziale nella regolazione del clima, sequestrando il carbonio e seminando nuvole che raffreddano il pianeta, e la loro scomparsa riscalderà ulterior­mente la terra.
Entro il 2052 gli ecosistemi a livello globale saranno stati letteralmente fatti a pezzi dal cambiamento climatico perché la delicata sin­cronizzazione degli eventi al loro interno sarà interrotta. Le sequenze, un tempo accurata­mente ordinate, della comparsa delle foglie, dell’emersione dei bruchi, della schiusa delle uova e così via, non si incastreranno più fluida­mente come un tempo, e questi “disaccoppia­menti fenologici” porteranno a ulteriori collassi di biodiversità in alcuni ecosistemi. Poiché la biodiversità è intimamente connessa all’effica­cia delle funzioni di un ecosistema, come il ciclo dei nutrienti, la regolazione del flusso idrico e la modulazione del clima, queste perdite ren­deranno gli ecosistemi meno resilienti — ovvero molto meno in grado di tamponare i cambia­menti imposti loro dal cambiamento climatico e dalla frammentazione degli habitat. Come risultato, entro il 2052 alcune aree terrestri alle basse e medie latitudini saranno ben avviate sul percorso per diventare deserti o semideserti inospitali.
Entro il 2052 la perdita di biodiversità avrà reso la vita molto difficile per quei miliardi di perso­ne il cui benessere dipende direttamente dagli ecosistemi che le circondano. E quei privilegia­ti umani nel mondo “sviluppato” — le persone che mio figlio e lo abbiamo raggiunto allo zoo quel giorno — cosa ne sarà di loro? Soffriranno anche loro per le conseguenze del cambiamen­to climatico e la perdita di biodiversità, ma nel 2052 è possibile che la tecnologia li avrà protetti, almeno per un po’, dagli effetti peggiori. Forse per loro la prima conseguenza dell’estinzione di massa sarà un immenso impoverimento psicologico — perché gli animali selvatici, grandi e piccoli, che hanno plasmato la psiche umana con la loro straordinaria presenza fin dalle origini della nostra specie, saranno per allora diventati niente più che immagini appiattite su quegli schermi scintillanti che così fatalmente ci disconnettono dal mondo della natura.
[Jorgen Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente, 2012 – pp. 157-159]

2052, qualche idea sullo stato del mondo (parte 1 di 2)

Anche questo, 2052, è un libro. Un libro che cerca di ragionare – con tutti i limiti del caso – su quale potrà essere il nostro mondo così lontano nel tempo. Così lontano, mica tanto… Fatti i conti, nel 2052 potrei ancora essere un arzillo 82enne, anche se dubito di essere ancora vivo. Ma diciamo, da me in poi, ragionevolmente tutti i più giovani hanno, in via direttamente proporzionale, buone probabilità di esserlo.
E’ un libro che sto centellinando, perché – pur avendo voglia di leggerlo tutto d’un fiato – è un vero e proprio stillicidio di notizie poco confortanti su come sarà il mondo di domani, a partire dalla miopia gestionale della “cosa pubblica”, tanto fondamentale quanto basata sul nulla nel dibattito politico nostrano, ridotto al solito inascoltabile gossip pre-elettorale.
Il libro di Jorgen Randers – norvegese che fece parte di quel piccolo e meraviglioso gruppo di scienziati del MIT a cui negli anni ’70 del secolo scorso venne commissionato il primo studio sul “mondo che verrà” – è un libro scientificamente accurato ma molto accessibile e ovviamente fa i conti su dove stiamo andando e su cosa stiamo facendo. Scritto nel 2012 – quind qualche anno fa – sulla politica dice questo:

PREVALENZA DELLA VISIONE A BREVE TERMINE
L’effetto negativo della stagnazione sulla crescita della produttività non è un fenomeno obbligato. Può essere evitato, perlomeno nelle fasi iniziali. La redistribuzione del reddi­to e delle opportunità prima che i problemi si ingigantiscano può ridurre enormemen­te le probabilità che si verifichino instabilità sociali. Ma una redistribuzione pacifica si è verificata raramente nel passato e così sarà in futuro. Ciò perché la maggior parte delle decisioni che hanno a che fare con la società vengono influenzate dai loro effetti a bre­ve termine: la società, sia nei sistemi democratici sia nei regimi dittatoriali, è per lo più incapace di vedere i vantaggi che si manifestano sul lungo periodo. L’umanità è spudoratamente ancorata al breve termine e pertanto la redistribuzione programmata dei red­diti di rado avviene prima che i bisogni diventino critici.
Pertanto, sebbene la società potrebbe decidere di cambiare profondamente la distribu­zione dei redditi e del benessere e la composizione della propria economia, non cre­do che questo riguarderà la quantità e il tipo di energia consumata e le emissioni di gas serra. O perlomeno non alla scala necessaria, perché decisioni di questo tipo so­no associate con dei costi iniziali che rendono difficile vedere i benefici che si otter­ranno in seguito. Le persone sono spaventate da soluzioni di questo tipo. Desidera­no ottenere vantaggi da subito e accettano, a denti stretti persino di pagarne i costi in un secondo momento.
La mia assunzione, secondo cui nei processi decisionali la prospettiva a breve termine è prevalente, è una delle cose che non avrei mai osato affermare in maniera cosi risolu­ta quando ero più giovane e avevo minore esperienza. Ma 40 anni di pratica e di batta­glie per la sostenibilità mi hanno convinto che la società, e in modo particolare la socie­tà democratica, tende a scegliere la soluzione più a buon mercato, ovvero quella ove il rapporto tra benefici e costi è il più alto possibile, senza tenere conto di quali siano i co­sti sostenuti e i benefici ricevuti in un orizzonte temporale superiore ai cinque anni. Si tratta di quello che gli economisti chiamano “soluzione efficace economicamente”, cioè la soluzione che fornisce il miglior ritorno in rapporto alla spesa all’interno di una nor­male prospettiva umana, di rado estesa oltre i cinque anni. L’orizzonte temporale limi­tato è un problema serio se la società ha bisogno di investire subito per evitare mi pro­blema in un futuro distante. Il breve termine lavora attivamente contro le politiche sag­ge, e dato che la prospettiva a breve termine tende a essere maggioritaria all’interno del corpo elettorale, lo è anche nella testa dei politici.
Il breve termine domina anche nell’ambito dei mercati. Il mercato tende a sottrarre un tasso del 10% annuo, se non di più, quando compara i costi immediati con i vantaggi ottenibili nel futuro. Ciò significa che un beneficio distribuito su vent’anni verrà valu­tato un ventesimo del suo valore reale. In altre parole, un problema che si manifesterà vent’anni avanti nel futuro sarà degno di essere risolto solo se il costo della sua soluzio­ne sarà inferiore a un decimo del valore da tutelare. Non è una sorpresa per coloro che si occupano di economia: è economicamente efficiente consentire che il mondo si avvii al collasso a causa dei danni provocati dai cambiamenti climatici, dato che questi si ve­rificheranno in un arco temporale superiore ai quarant’anni. Il valore netto nel presen­te dato dalla riduzione delle emissioni e dal salvataggio del pianeta è inferiore al valore netto presente generato dal business as usual. Costa di meno spingere il mondo sull’or­lo del baratro piuttosto che tentare di salvarlo.
Nel mondo della politica non va molto meglio, data la breve durata delle cariche istitu­zionali. I politici raramente possono occupare la propria agenda per questioni, che por­tano a risultati positivi solo dopo l’elezione successiva, che in genere avviene meno di quattro anni dopo.
Pertanto, la moderna democrazia e il mercato capitalista hanno una veduta straordi­nariamente corta. Questo è un problema per un mondo che deve fronteggiare minac­ce climatiche di lungo termine, ma è un indiscutibile vantaggio per noi che lavoriamo alle previsioni. La mentalità a breve termine rende improbabili le deviazioni dalla solu­zione più economicamente efficace (ovvero quella più a buon mercato), che può essere spesso calcolata in anticipo. La caratteristica umana del pensiero a breve termine man­tiene la società su una strada relativamente angusta. Anche se spero di sbagliarmi, so­no pronto a scommettere che in futuro il mondo tenderà ancora a scegliere la soluzio­ne più economica.
Fortunatamente (per il mondo) ci sono delle eccezioni. Alcune di queste sono d risul­tato di azioni lungimiranti di leader saggi. Altre vengono imposte alla società perché c’è un nemico alla porta, o perché la crisi ha già colpito, o perché tutte le altre vie di usci­ta sono impraticabili. Ma queste eccezioni sono rare; normalmente la soluzione più a buon mercato è quella che ha la meglio. E a buon mercato significa che lo è sul breve periodo, cioè su un lasso di tempo inferiore ai cinque anni.
La prevalenza del breve termine è la ragione fondamentale perché faccio previsioni a partire dall’assunzione che l’umanità deciderà di risolvere solo una parte della questione climatica, sebbene potrebbe facilmente affrontarla nella sua totalità. E questo è il mo­tivo per cui credo che l’umanità rimanderà la messa in campo di azioni serie fino a che il danno climatico non sarà chiaramente visibile anche dalle aule parlamentari. Le ec­cezioni saranno i regimi autoritari, che sono nella condizione di non dover rispondere con frequenza alla popolazione.

[Jorgen Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente, 2012 – grassetti miei]

Cose che sappiamo e su cui non è necessario fare calcoli né previsioni, ma di cui spesso dimentichiamo la portata. Poco prima nel libro viene descritto un altro scenario, più strettamente legato all’ecologia, di cui parleremo nel post che seguirà questo.

Jorgen Randers

Jorgen Randers durante una delle sessioni della prima Summer Academy School del Club di Roma, a Firenze – nel settembre 2017.