(Ri)leggere Alexander Langer

Alexander LangerLo confesso: i suicidi mi hanno sempre fatto una certa impressione e devono fare molta paura anche alla cristianità, che lascia fuori dalla porta del proprio regno dei cieli queste persone.

Chi non ha mai, neppure per un attimo, pensato di porre fine alla propria esistenza, alzi la mano. Bene: da un lato mi viene da dire “beati voi” che forse avete (avuto) una vita senza amarezze e senza rimpianti e (avete saputo /) sapete dare – volenti o nolenti – senso a ogni vostra azione. Ma credo di essere in buona compagnia tra coloro che la mano non l’hanno alzata. È un pensiero tipico della gioventù forse, di quando ancora non si sa bene chi si è e qual è il proprio posto nel mondo, ma è un pensiero che, carsico, scava e può riemergere a qualunque età. Ho avuto amici e conoscenti suicidi. Forse tendiamo a rimuoverne il ricordo per la paura che questa azione così eclatante ci incute, nel profondo. Persone “normali” e di certo non meno attaccate alla vita di quanto lo si possa essere noi stessi. Anzi: forse di più. Un attaccamento all’esistenza di tale forza che riesce a ribaltarsi – per una alchimia che non ci è dato sapere, ma, talvolta, solo intuire – nel suo contrario.

Quindi ho iniziato la lettura di questo libro di Langer ben consapevole di questo dato biografico (così come, allo stesso modo, mi accostai alla lettura dello straniante Dissipatio Humani Generis di Guido Morselli). Conoscevo solo di nome questo fondamentale esponente politico (ma definirlo politico sarebbe riduttivo, forse un addirittura un insulto se pensiamo da chi è animata la scena politica italiana di oggi…) la cui attività avevo nelle orecchie perché, giovane, ero un “attivista ambientale”. Così, tra i 500 libri (il numero è reale e ahimè approssimato per difetto) che ho acquistato e non ancora letto, qualche giorno fa ho pescato la bella edizione di Sellerio de Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995.

Così scopro di avere pensato pensieri già pensati da altri (da lui in particolare e certamente in forma più organica) quando, nel paragrafo Un catalogo di virtù verdi (p. 189 e sgg.), racconta della necessaria consapevolezza del limite (delle risorse e di ciò che possiamo fare) e, in questo pezzo del 1987 (avevo 17 anni…) racconta come la nostra società sia a tal punto intossicata di consumismo che neppure la consapevolezza di questo limite – che ormai in molti avevano e hanno – è sufficiente a fare invertire la rotta “dal basso”. Langer in queste pagine paragona questo comportamento a quello di un tossicodipendente, di un tabagista o di un alcolista: queste persone, consapevoli che il loro vizio molto probabilmente li condurrà ben prima alla tomba, perseverano nella loro pratica.

Le analisi di Langer, spesso condotte nell’arco di qualche pagina, toccano gli argomenti di cui sappiamo, ma di cui fa sempre bene rinfrescare la memoria: la differenza tra costo e prezzo di una merce, dove i costi (ambientali, umani…) spesso sono celati e non corrispondono per nulla al prezzo, infinitamente più basso, di quella merce; l’idea – potremmo dire molto teorica, col senno di poi – di privilegiare il valore d’uso al valore di scambio, determinato quest’ultimo praticamente sempre da una mediazione in denaro, e via lungo la china che porta a interrogarsi, qualche pagina più avanti (gli scritti sono “sparsi” e non seguono necessariamente un ordine cronologico), sulla necessità di un governo mondiale per quel che riguarda le questioni ecologiche (il problema climatico in quegli anni non era ancora così sentito), fino ad arrivare alla possibile istituzione di un TIA, un Tribunale Internazionale per l’Ambiente – cui ha dato seguito, per un certo periodo, Amedeo Postiglione (qui, qui e qui qualche notizia).

Insomma: se da un lato è consolante sapere che qualcuno queste cose le aveva pensate, dette, scritte, magari raccontate in quella sede che ancora, all’epoca, si chiamava solo Comunità Europea e aveva 12 stati membri, dall’altro è deprimente che tutto questo sia, ancora una volta, rimasto lettera morta e che lui, Langer, abbia deciso di zittire la sua stessa voce in modo così drammatico.

Alla fine del libro c’è un ricordo toccante di Adriano Sofri: ne tratteggia lo spirito e ne scrive quasi che lui sia ancora presente. Dice di Langer che era uno che prendeva gli indirizzi di tutti, accoglieva, per quanto poteva, le richieste di tutti e Sofri lo immagina oggi, nell’era di internet, dove la tecnologia ha moltiplicato all’infinito questa possibilità comunicativa, sommerso e quotidianamente impegnato nel farsi carico di quel pezzo di mondo che lo cercava.

Lui, che “parte” cattolico e “arriva” verde passando per il rosso del comunismo ha, sulla copertina del libro che non ha scelto di scrivere, San Cristoforo di cui tutti conosciamo la parabola: traghettatore di stazza e forza erculea di un fiume della Licia, un giorno gli si presentò un bambino che chiedeva di essere trasportato dall’altra parte del fiume. Accettato l’incarico, in apparenza semplice, si sarebbe piegato sotto il peso di quell’esile creatura, che sembrava pesare sempre di più ad ogni passo. In alcune versioni della storia sarebbe cresciuta anche la corrente del fiume, che si faceva sempre più vorticosa. Il gigante sembrava essere sopraffatto, ma alla fine, stremato, riuscì a raggiungere l’altra riva. Al meravigliato traghettatore il bambino avrebbe rivelato di essere il Cristo, confessandogli inoltre che aveva portato sulle sue spalle non solo il peso del corpicino del bambino, ma il peso del mondo intero.

Langer si è fatto carico di una parte di quel peso e, nel breve messaggio di commiato dal mondo che fa da incipit di apertura al libro, redatto il 3 luglio 1995 dove si tolse la vita a Pian di Giullari, nelle colline che circondano Firenze, esordisce dicendo: «I pesi mi sono divenuti davvero insostenibili, non ce la faccio più» e chiude il messaggio con un «Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto».

Monito che dovremmo cercare tutti di tenere a mente.

Non ce la possiamo fare

Segnalo velocemente – ancora oggi – due episodi scissi tra loro, ma significativi per quel che riguarda l’idea se (/che) ce la si possa fare o meno.
Il primo (micro): alla mensa del posto di lavoro – cronicamente in crisi per essere sottodimensionata rispetto al numero di utenti – si usano spesso piatti e posate di plastica. La lavastoviglie industriale non ce la fa a tenere il passo, non ci sono soldi, da tempo si parla di una ristrutturazione radicale dell’impianto, ecc. ecc. Tutto nella “norma” (?!?). Una norma che prevede una volta al giorno, per una media di mille millecinquecento persone tutti i giorni lavorativi della settimana, l’uso di posate e piatti di plastica. Ma tant’è. Oggi ho preso il passato di verdura, e ho avuto anche la fortuna di prendere un piatto vero e delle posate degne di questo nome. La bustina (per fortuna di carta) che le contiene non prevede però il cucchiaio che di solito, quando ci sono passato di verdura o altri “piatti liquidi”, viene messo a parte, in un cestellino. Oggi il cestellino semplicemente non c’era. Ho chiesto alla signora della mensa che con la massima serenità mi ha detto di prendere quello nella confezione/bustina (di plastica) delle posate di plastica (sempre disponibili). La bustina che io prendo per prendere dei tre oggetti SOLO il cucchiaio, devo aprirla, vanificando le condizioni igieniche e lasciando che tutto sostanzialmente venga buttato via. Non ce la possiamo fare.
Il secondo (macro) merita un titolo: «No alla ‘ndrangheta, sì a Versace». Leggere a questo link per credere (e se «Repubblica» dovesse archiviare la notizia altrove, la trovate comunque a questo link in PDF). Senza parole e, ancora una volta, non ce la possiamo fare.