In programmazione “in questi giorni” (ma i giorni cambiano molto anche in funzione di dove si vive) due film di richiamo ambientale. Il primo è di fatto il backstage del grandioso progetto di Sebastiao Salgado – il celebre fotografo brasiliano – «Genesi» la cui mostra (fotografica appunto) è un gigantesco affresco della nostra casa, il pianeta Terra: Il sale della Terra.
Una mostra che ho visto a Venezia e lascia lo spettatore “occidentale” – quello bombardato spesso da (inutili) stimoli e da (inutili) immagini – meravigliato di fronte a tanta magnificenza, a tanta (bio)diversità di paesaggi, di situazioni, di luoghi. Segno in realtà che la nostra vita, condotta nell’autoreferenziale Occidente, è in realtà povera di questa “globalità” utile e necessaria a intravvedere la complessità del mondo (in tutti i sensi). Pensiamo di sapere molte cose e non sappiamo niente. Si esce dalla mostra con questo pensiero e molto interessante dev’essere l’aver filmato il modo in cui Salgado ha dipinto il suo affresco, sotto l’esperta regia di un altro grande regista di affreschi (il mio preferito per l’antico Il cielo sopra Berlino): Wim Wenders.
Il secondo film è quello di Christopher Nolan, Interstellar. La fantascienza mi ha sempre affascinato perché – da quando lessi un po’ di psicologia freudiana – mi è sempre più sembrata una gigantesca “seduta psicoanalitica dell’umanità” in relazione alle proprie paure, scaturite dalle scellerate scelte (tutte “da pagare”: nulla è gratis a questo mondo…) o da fantasmi legati a tecnologie che a un certo punto vanno fuori controllo. La trama è la fuga dal pianeta, flagellato ormai da insanabili (e bibliche?) piaghe atmosferiche che rendono decisamente più ostica la vita sul pianeta. Da lì parte la “caccia” al pianeta alternativo da poter abitare e tutta una (fanta)scienza ben analizzata nel (vecchio: 1994) saggio di Kip Thorne Black Holes and Time Warps: Einstein’s Outrageous Legacy (qui il link al libro, ancora pubblicato) a cui ovviamente in tempi recenti si è affiancato un altro volumetto che tratta della scienza vera e propria presente nel film: The Science of Interstellar (qui il link).
Insomma, pare proprio che l’ambiente – sia che appaia nell’obiettivo di un fotografo famoso, sia come causa di una (fanta)scientifica fuga causata da una mutazione climatica di cui l’umanità è responsabile – è tornata nelle priorità della nostra specie, mentre nel piccolo qui in Italia abbiamo a che fare con le continue esondazioni, con i “morti da clima” e Washington e Pechino per la prima volta si siedono al tavolo-capezzale del mondo per firmare un trattato di abbattimento delle emissioni…
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Il Club di Roma e la serietà della ricerca: un ps
Una piccola nota ancora sui problemi ambientali e su come anche le tacite scelte fatte dai futurologi intervistati nel documentario di Cerasuolo Ultima chiamata siano in qualche modo controverse. Al minuto 1:08:35 del documentario Bill Behrens, coautore de I limiti dello sviluppo, viene ripreso mentre esce di casa e sale sulla sua auto, una Toyota Prius, nota per essere l’auto ibrida (motore endotermico + motore elettrico) più venduta al mondo.
Con un caro amico, Ivan Maio, docente al Politecnico di Torino, sporadicamente abbiamo discusso delle possibili alternative ai motori endotermici. Di fronte al mio entusiasmo verso l’avventura dell’elettrico e in particolare verso il “tutto elettrico” (e neppure ibrido…) con auto che, pur costose, hanno un’estetica degna di questo nome (e ahimè la Prius con tutto l’impegno, non lo è) come la Tesla, Ivan mi ha sempre molto raffreddato. E in particolare lo ha fatto in maniera definitiva con questo articolo uscito a fine giugno su IEEE Spectrum (ne allego qui anche una versione PDF nel caso il link scomparisse nel tempo).
Questo per dire che, anche chi con le migliori intenzioni compie scelte personali che siano il segno di una la volontà di andare verso direzioni alternative, non è detto che la direzione che ha scelto l’abbia imboccata per il verso giusto…
PS: qui il sunto video, ad usum delphini, dell’ultimo rapporto IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) sul cambiamento climatico: http://youtu.be/XVw6dm12Eyw. Mentre qui il commento, risalente a un paio di mesi fa, di Luca Pardi: http://malthusday.blogspot.it/2013/10/cosa-manca-nei-rapporti-dellipcc.html. Buone letture e visioni…
PS: un’amica, nel frattempo, mi ha segnalato quest’altro istituto che si occupa del “futuro dell’Umanita”: Future of Humanity Institute, niente meno che promosso dall’Università di Oxford…
Il Club di Roma e la serietà della ricerca
Qualche giorno fa il collega Luca Pardi, attuale presidente dell’Aspo (Sezione Italiana dell’Associazione per lo Studio del Picco del Petrolio), mi ha prestato Ultima chiamata, un documentario di Enrico Cerasuolo. Il tema è l’ambiente e lo sfruttamento delle risorse che condurrà inevitabilmente alla catastrofe planetaria. Il documentario narra la storia della nascita del Club di Roma attorno alla figura di Aurelio Peccei (uno di quegli italiani che alzano la media) che, imprenditore e manager di successo, preconizzò «the big problem», quello della sopravvivenza dell’uomo sul pianeta.
La svolta, come dice il documentario, avvenne a Berna nel 1970, dove vi fu la prima riunione del Club, tutt’oggi esistente e con sede in Svizzera, a Winterthur. Peccei – che aveva in mente un progetto di ricerca nel quale si studiasse il futuro del pianeta – incontrò lì Jay Wright Forrester fondatore della «dinamica dei sistemi», la scienza che studia l’interazione tra sistemi complessi e che darà poi luogo a quella che – solo una ventina d’anni dopo, sempre al MIT – verrà battezzata «teoria della complessità». Forrester che non ha bisogno di presentazioni (qui il suo profilo wikipedia), nell’intervista che Cerasuolo gli fa, dice:
A quel primo incontro a Berna, essendo nuovo e americano, pensai che la cosa migliore da fare fosse ascoltare e non dire niente. Alle sei di sera dissero che la Fondazione Volkswagen non avrebbe finanziato la ricerca perché non era stata stabilita la metodologia. Quindi improvvisamente c’era un progetto senza metodologia né finanziamenti, il che si avvicinava molto a un’assenza di progetto.
Poi Forrester confida a un suo vicino di posto, durante la riunione, che quello stava per essere il giorno più interessante della sua vita perché loro avevano un problema, lo avevano individuato e definito, e lui aveva la soluzione:
Gli dissi che potevano venire all’MIT per saperne di più ma che sarebbero dovuti venire per due settimane oppure niente, perché sapevo che gli ci sarebbero volute due settimane per capire bene. E accettarono, a mezzanotte, che sarebbero venuti all’MIT tre settimane dopo.
Ecco questo mi fa impressione: sarà che il passato ha sempre un’aura di magia, ma lo scienziato (1) assiste alla riunione, (2) trova il problema che si pone interessante e una sfida intellettuale degna delle sue capacità (a volte anche superiore, ma «nel più ci sta il meno»…) e (3) invita il gruppo che dovrebbe occuparsene ad andare al MIT per 2 settimane come minimo. Se si pensa alla scienza attuale dove i talk per spiegare i risultati di una ricerca – che magari ha impiegato mesi di lavoro – si hanno 10 minuti…
La storia poi in qualche modo la si conosce: quel fortuito e fortunato incontro darà luogo nel 1972 alla pubblicazione de I limiti dello sviluppo, pubblicato in Italia da Mondadori e scaricabile gratuitamente, da pochi mesi, nella versione inglese originale dal sito di una delle autrici, Donella Meadows, a questa pagina). Il libro, come racconta attraverso la voce dei protagonisti, spaccò letteralmente in due l’opinione pubblica e la comunità scientifica internazionale. Da alcuni venne accolto come lo studio – sistematico e serio – che mancava; da altri (tipicamente: lobby dell’industria energetica, politici, una larga fetta di economisti) venne recepito malissimo. Il documentario è davvero molto interessante, una di quelle cose che tutti dovrebbero aver visto almeno una volta nella vita.
Il Club di Roma divenne. come lo è ancora oggi, una sorta di osservatorio permanente sui cambiamenti e un osservatorio soprattutto sul futuro del pianeta. A vent’anni – nel 1992 – venne pubblicato un “aggiornamento” che consisteva anche in una specie di verifica degli scenari dipinti nel 1972. Tra quelli proposti, già nel 1992 (per il libro tradotto in italiano con Oltre i limiti dello sviluppo, pubblicato da Il Saggiatore), il mondo stava già andando verso il peggiore e, a trent’anni di distanza, con I nuovi limiti dello sviluppo. La salute del pianeta nel terzo millennio (tradotto solo nel 2006 in italiano, Mondadori editore) siamo già all’inarrestabilità del processo e puntiamo decisamente verso la catastrofe.
Una storia che merita senz’altro di essere conosciuta, soprattutto perché gli strumenti per correggere la rotta ci sarebbero (stati) tutti.