Mi ero perso la seconda parte dei “10 comandamenti” di Benigni: l’ho recuperata ieri sera su Rai 5. Benigni può piacere e non piacere – come stile – ma ha il pregio di far apparire “nuove” cose tutto sommato ovvie, sulle quali semplicemente, forse, non si riflette abbastanza.
Incidentalmente: a dimostrazione di come si cambi nella vita, il “Corriere” ha riesumato un vecchio spezzone (lo trovate a questo link) tv nel quale 30 anni fa Benigni parlava dei 7 vizi capitali e non era proprio così tenero e amorevole nei confronti dell’Altissimo. Ma non è questo ciò di cui intendo scrivere.
Tra i comandamenti il quinto è “Non uccidere”. L’analisi di Benigni – ripeto: fors’anche al limite dell’ovvio – è suggestiva perché dice sostanzialmente che uccidendo un altro uomo di fatto si uccide noi stessi. Questo mi ha riportato alla mente un film statunitense di imminente uscita: American Sniper, per la regia di Clint Eastwood. Così ieri sera mi sono fatto un giretto sul web per capire meglio questa storia (che è vera): chi è Chris Kyle e cos’ha fatto (a questo link), la sua controversa (pare che vi siano raccontati episodi non proprio aderenti alla realtà, almeno secondo quanto afferma “Il Post”) autobiografia (che comunque ha venduto un milione di copie negli Stati Uniti) da cui è stato tratto il film, la cui regia, prima di arrivare a Eastwood, pare sia passata di mano a registi del calibro di David Russell e Steven Spielberg.
In vita questo giovanottone statunitense ha sostenuto di aver ucciso almeno 250 persone, mentre il Pentagono ne conferma 160. La sua mira, e qui pare che tutti concordino, però pare fosse davvero infallibile: un proiettile, una vita.
Kyle – una volta “guarito” dalla malattia (psichica) di aver ucciso a sangue freddo, attraverso il mirino del suo fucile di precisione, 160 persone (uomini, donne, bambini), una malattia che si chiama PTSD, disturbo post traumatico da stress – è tornato alla vita civile e ha cominciato ad aiutare chi, come lui, è reduce dalla guerra e disadattato (Rambo docet). Un aiuto e una cura che consisteva sostanzialmente nell’imbracciare ancora una volta fucili, pistole e mitragliatrici per battute di caccia o frequentazione di poligoni. Proprio in un poligono Kyle ha trovato la morte in tempo di pace: nel suo tentativo d’aiuto di un ragazzo reduce di guerra come lui ma psichicamente messo un po’ peggio, quest’ultimo, convinto che Kyle segretamente volesse ucciderlo, per non sbagliare lo ha anticipato e lo ha fatto secco. Contrappasso del quinto biblico comandamento?
Kyle negli Stati Uniti è un eroe indiscusso (nonostante alcool, qualche guida in stato d’ubriachezza dove col suo pick-up ha sfondato la recinzione di una villetta e ha rischiato di finire dentro la piscina della stessa: tutto sommato piccoli effetti collaterali del PTSD) e la sua storia è raccontata qui. Alla fine di questo racconto si parla della moglie e di un intervento pubblico che questa ha fatto. Lo si può vedere su Youtube a questo indirizzo. E’ interessante vederlo: siamo nel cuore degli Stati Uniti favorevoli alle armi. Armi per uccidere, per difendersi, per “salvare vite” (perché il frame narrativo della moglie è questo, secondo uno schema pragmatico e senza tanti fronzoli: le guerre sono necessarie – ma questa è una mia illazione su ciò che questa giovane donna credo pensi – e qualcuno le deve pur fare; mio marito le ha fatte, servendo egregiamente la patria e, aver ucciso le persone che ha ucciso, è servito a salvare i suoi compagni). Quel che in condizioni normali sarebbe un assassino, in questo caso è un salvatore.
Un paradigma che a noi europei non può che apparire folle ed essere evidente nella follia delle cronache di questi giorni che vedono le popolazioni di origine afro-americana in rivolta per le uccisioni a sangue freddo di ragazzi che… “giocano” con pistole (più o meno finte). Insomma, non si esce dallo stretto cerchio delle armi: che un ragazzino di 12 anni (nell’ultimo caso: 18) ne abbia una finta (o vera) e questa compaia davanti a un poliziotto “con i nervi a fior di pelle” (e quindi il grilletto facile) causa immediatamente – e invariabilmente – la morte (del ragazzino).
Dopo, ma solo dopo quando la vita di qualcuno si è estinta, ci sono le giustificazioni (poco giustificabili): ma il ragazzino aveva una pistola (certo: in uno Paese in cui è più facile avere una pistola che un libro…) e il poliziotto doveva difendersi (certo: ma uccidendo necessariamente l’altro? Che addestramento hanno questi poliziotti? Non si può sparare a una gamba? Non si può NON sparare e provare a parlare con quello che è e resta un ragazzino? Ma compito della polizia non dovrebbe essere (anche) quello di tutelare le persone e quindi anche il ragazzino che “gioca” con una pistola – magari finta?).
E’ un cambio di paradigma. A cui dovremmo essere forse abituati dalla cinematografia western. Tempi, quelli del “far west”, da cui francamente poco sembra che quella civiltà si sia discostata.