*** ATTENZIONE QUEL CHE SEGUE CONTIENE “SPOILER” SUL FILM IN QUESTIONE: NON LEGGA CHI NON VUOL SAPERE COME FINISCE! ***
Siamo reduci (io, mia moglie, insieme a una coppia di amici) dalla visione del film di Paola Cortellesi C’è ancora domani. La sinossi/trama del film può essere letta più o meno ovunque sul web, a partire dalla pagina Wikipedia linkata.
Siamo rimasti un po’… perplessi. Il film ripercorre (anche molto drammaticamente) il florilegio delle vessazioni a cui storicamente le donne sono state sottoposte in questo paese (dalle botte, alle umiliazioni psicologiche di ogni tipo, ai rapporti sessuali non desiderati/voluti col partner, passando per le differenze di salario a parità di mansione e chi più ne ha più ne metta), in un contesto dove, regola pressoché invariabile, a una povertà economica corrisponde(va) una povertà culturale.
Insomma: una roba da “magone” (che scopro essere un regionalismo, quindi: seconda definizione del dizionario…) per quasi tutto il tempo del film. Un film che alla fine si basa sul gigantesco equivoco legato alla partenza di un potenziale “pretendente” (o comunque: una vecchia fiamma della protagonista Delia/Paola Cortellesi) a cui tutti, a un certo punto, quando gli eventi precipitano, sembra ella si debba/voglia ricongiungere, per fuggire dalla ingrata vita che fino a quel momento le è toccata.
E invece? Invece “c’è ancora domani”, appunto, perché siamo a ridosso del primo suffragio universale del dopoguerra, e i giorni per andare a votare erano la domenica (momento che artatamente coincide, nella narrazione della vicenda, con la partenza “per il nord” della “vecchia fiamma”, il meccanico Nino/Vinicio Marchioni) ma anche il lunedì. Insomma, di colpo, ex abrupto, quasi che il drammatico destino individuale su cui le quasi due ore di film si erano concentrate “scomparisse” di fronte alla importanza del voto, pur notevole, ci ha lasciato tutti un po’ così, con un finale che sinceramente, in tutta franchezza, avremmo preferito diverso.
Che misoginia e maschilismo fossero all’ordine del giorno anche nella vita pubblica della nazione è dato acclarato, ma che la “rivoluzione” (autenticamente democratica) del voto fosse in qualche modo la via per uscire dal “sistema” della vessazione, sembra a tutta prima, alquanto improbabile. Un po’ perché ex post, a quasi 80 anni di distanza, vediamo i risultati sia di partecipazione (*) sia di “capacità di modificare lo status quo” della democrazia, un po’ perché l’effetto straniante del film è dato da una intensa focalizzazione che concentra l’attenzione dello spettatore sui dettagli del quotidiano della povera Delia che d’un tratto diventano il macrocosmo di una nazione: si fatica a capire il passaggio e a capire perché correre tutto quel rischio per andare a votare. Soprattutto perché, sempre artatamente, di questa opzione non si fa mai riferimento o menzione per tutto il film, se non implicitamente (Delia più volte passa di fronte a un muro di cinta in cui campeggia una scritta tipo “abbasso [con la “W” rovesciata] i Savoia, W la Repubblica”). Riferimento che si coglie solo quando ormai si accendono le luci in sala e stiamo tornando a casa. Insomma, sembra una costruzione un po’ fragile, un po’ pretestuosa su temi che, presi separatamente, sono così importanti (il voto alle donne, quindi i loro diritti da un lato e la declinazione di quegli stessi diritti nella quotidianità dall’altro).
Avremmo insomma immaginato una soluzione diversa e abbiamo provato a fare delle ipotesi con mia moglie che sostiene Delia avrebbe dovuto fuggire con la figlia e mollare marito stronzo e bifolco (impersonato da un ottimo Valerio Mastrandrea) insieme ai due figli maschi tal quali al padre. Cosa che probabilmente avrebbe salvato la vita a Delia (ricordiamo, giusto per dovere di cronaca, che nel bananifero paese che abitiamo la legge sul divorzio è del 1970, mentre il delitto d’onore è stato abolito definitivamente solo nel 1981!) ma che risultava ugualmente improbabile per lo zeitgeist dell’epoca: quasi nessuna donna, soprattutto se appartenente alle classi sociali inferiori, avrebbe saputo “vedersi” da sola con una figlia, in fuga da un marito manesco. A un certo punto, come dice la protagonista alla figlia, se ti scegli un marito “è per sempre” e quindi devi fare attenzione a come scegli. A me più plausibile sarebbe sembrata la fuga, magari a rischio di venire accoppata, visto che il marito a quel punto sacrosantamente abbandonato e cornificato, se fosse riuscito nell’impresa di uccidere la (ex) moglie sarebbe rimasto comunque impunito. Ma tra queste due soluzioni, nessuna delle due è stata scelta. Ci dobbiamo quindi immaginare che la povera Delia, compiuto il suo diritto/dovere di elettrice, sarebbe tornata a casa dal marito, pronta di nuovo a subire e a prender botte, in quell’inferno quotidiano che una volta era stato illusoriamente il paradiso di quando si è stati innamorati. Ma l’amore, lo sappiamo, rende ciechi.
Il tutto, per altro, alla luce dell’ultimo – in ordine di tempo – di una lunga, inifinita, sequela di femminicidi che denunciano il grave stato di analfabetismo sentimentale (soprattutto maschile!) di cui il nostro paese sembra essere campione: la morte di Giulia Cecchettin per mano di Filippo Turetta.
(*) Entusiaste, nel generale entusiasmo della neonata democrazia, il film, nei titoli di coda, mostrava come a quelle prime elezioni del 1946 l’89% delle donne aventi diritto si fossero recate alle urne. Questo grafico mostra come le cose sono evolute nel tempo, con una sempre più sostanziale sfiducia nel “modo di cambiare le cose” (per renderle migliori): l’astensionismo, in nero, avanza sempre di più…