Sabato sera scorso, alla trasmissione Che tempo che fa di Fabio Fazio è stato ospite, per la presentazione del suo nuovo libro, il direttore de «La Stampa» Mario Calabresi. Un bel libro, che viene voglia di leggere e comprare, un libro “nobile” su una professione tendenzialmente poco nobile in Italia, come quella del giornalismo (nel caso specifico: del fotogiornalismo – il libro è questo con annesso booktrailer). Ma si sa: come per tutte le categorie e sottoinsiemi arbitrari che vogliamo prendere in considerazione, c’è chi alza la media e chi l’abbassa.
Calabresi è figlio di quell’ispettore diventato ahimè celebre per essere stato ucciso da un commando della sinistra extraparlamentare 41 anni fa. Le indagini condussero, come sappiamo, ai nomi di Ovidio Bompressi, incidentalmente mio conterraneo, Giorgio Pietrostefani, latitante da molti anni in Francia, Leonardo Marino che per vedersi alleggerire la pena, confessò molte cose – anche contraddittorie tra loro, come Dario Fo ebbe modo di evidenziare in un bello spettacolo, diventato libro – e Adriano Sofri. L’uccisione dell’ispettore avvenne perché questi – responsabile della squadra politica della questura di Milano – fermato il ferroviere anarchico Giuseppe Pinelli, come si usava dire a quei tempi con una rassegnazione e un cinismo che denotano lo zeitgeist degli anni di piombo, “lo suicidò” con un volo dal terzo piano della questura. Dopo estenuanti interrogatori, percosse, e un fermo di ben tre giorni consecutivi, in violazione ai termini previsti allora dalla legge.
Insomma: anni duri, storia dura. Mario, il figlio, mio coetaneo, cresce orfano di padre e prima dei 40 anni – in un mondo “anomalo” come quello del giornalismo italiano – diventa direttore de «La Stampa», uno dei maggiori – nel bene e nel male – quotidiani nazionali. Scrive, e pubblica nel 2007, per i tipi di Mondadori, Spingendo la notte più in là, libro che non ho letto – anche se chi lo ha fatto me ne ha parlato bene, per la visione equilibrata che il libro mostra. La sinossi del libro (tratta dal sito ibs.it) recita:
È la mattina del 17 maggio 1972, e la pistola puntata alle spalle del commissario Luigi Calabresi cambierà per sempre la storia italiana. Di lì a poco il nostro paese scivolerà in uno dei suoi periodi più bui, i cosiddetti “anni di piombo”, “la notte della Repubblica”. Quei due colpi di pistola però non cambiarono solo il corso degli eventi pubblici, ma sconvolsero radicalmente la vita di molti innocenti. La storia dell’omicidio Calabresi è anche la storia di chi è rimasto dopo la morte di un commissario che era anche un marito e un padre. E di tutti quelli che hanno continuato a vivere dopo aver perso la persona amata durante la violenta stagione del terrorismo. Mario Calabresi, oggi giornalista di “Repubblica”, racconta la storia e le storie di quanti sono rimasti fuori dalla memoria degli anni di piombo, l’esistenza delle “altre” vittime del terrorismo, dei figli e delle mogli di chi è morto: c’è chi non ha avuto più la forza di ripartire, di sopportare la disattenzione pubblica, l’oblio collettivo; e c’è chi non ha mai smesso di lottare perché fosse rispettata la memoria e per non farsi inghiottire dai rimorsi. La storia della sua famiglia si intreccia così con quella di tanti altri (la figlia di Antonio Custra, di Luigi Marangoni o il figlio di Emilio Alessandrini) costretti all’improvviso ad affrontare, soli, una catastrofe privata, che deve appartenere a tutti noi.
Insomma: una denuncia importante, da chi quella storia dura l’ha patita sulla propria pelle. A occhi aperti, presentato sabato sera, sembra a suo modo allargare l’orizzonte al mondo intero, sulle ingiustizie sociali e politiche che hanno costellato gli anni dai ’60 in ogni parte del globo (essendo le interviste da lui condotte a fotografi che da ogni parte del mondo arrivano). Eppure… eppure nelle parole di quel direttore c’è qualcosa che suona come falsa moneta. Perché? È presto detto: l’accuratezza dell’informazione. Più volte in questi anni mi è accaduto di leggere sul giornale torinese notizie tendenziose, quando non patentemente false, soprattutto per quella storia – sempre la stessa -, l’unica che posso dire di conoscere realmente di persona, avendola vissuta direttamente per un paio d’anni: la questione No Tav.
Calabresi con veemenza, rivolgendosi a un attento Fazio, diceva sabato – citando il suo collega Domenico Quirico, liberato qualche tempo fa dopo mesi di prigionia in Siria – che il giornalista è uno che non può permettersi il “sentito dire”, ma deve – per deontologia professionale, onestà intellettuale e chi più ne ha più ne metta – essere sul posto. Dice sostanzialmente quello che è nell’introduzione del libro (e che qui cito):
Ma questo non è un libro sulla fotografia ma sul giornalismo, sull’essenza del giornalismo: andare a vedere, capire e testimoniare. Ho scritto queste pagine , che raccontano anni di incontri, nei cinque mesi in cui il giornalista de «La Stampa» Domenico Quirico era sequestrato in Siria. Giorni in cui non potevo non interrogarmi continuamente sul senso del mio mestiere e in cui mi facevo forza con l’idea che il lavoro di un giornalista deve avere la forza e il coraggio di distinguersi da quello di un entomologo: non possiamo accontentarci – per ragioni di opportunità, comodità o sicurezza – di osservare la vita del mondo dall’alto, come si farebbe con un formicaio, aiutati magari da un’ottima lente. Un giornalista, e lo stesso vale per un fotografo, ha il dovere di vivere in mezzo alle formiche, di vedere il mondo dal loro punto di vista.
Prima di partire, Domenico mi aveva ripetuto che non puoi scrivere di un bombardamento dal confine, attraverso i racconti dei fuggitivi, non lo puoi raccontare se non hai sentito il rumore delle esplosioni, se non hai passato la notte sveglio insieme a chi sta sperando di arrivare vivo all’alba, se non hai provato la stessa paura.
Quante belle parole! Ed è buffo che si conceda tutta questa nobiltà d’animo a chi va in luoghi remoti, mentre non si è disposti a fare un passo per andare in Val Susa, per dare un’occhiata! Non serve mandarci uno con il coraggio (o l’incoscienza) di Quirico. Basta un giornalista “normale”, uno che non stia “a occhi chiusi” della specie di coloro che abbassano la media, ma uno che abbia la voglia di stare in mezzo alla gente – e non in mezzo ai poliziotti – a vedere realmente cosa succede.
Un post non è il luogo adatto per entrare nei dettagli, ma ci sono chiari episodi di mistificazione, come quello che cito qui, noto a chi frequenta la Val Susa: http://mazzetta.wordpress.com/2011/11/21/mario-calabresi-deve-spiegare/. Sì è proprio il caso di stare “a occhi aperti”, caro direttore, soprattutto contro l’ipocrisia e la retorica di certe parole. E se si vuol tessere l’elogio dei fotografi, allora anche il Movimento ha dato un contributo che non sfigurerebbe certo nel libro che lei ha appena curato: L. e C. – che non cito espressamente per questione di privacy – ma che ringrazio per il loro lavoro, hanno realizzato queste foto: