Integrazione

Il fine settimana appena trascorso siamo andati a Venezia a trovare degli amici. Questi amici sono di origine dalmata, sono esuli, da tempo ormai a Venezia. Il padre della signora che ci ha ospitato è venuto a mancare pochi mesi fa alla invidiabile età di 99 anni. Possiamo presumere, senza sapere molto della sua vita, che abbia visto e vissuto molte cose, anche molto strazianti, per le sorti che finanche la Storia recente del nostro Paese (e di quelli contigui) ci ha consegnato.
La casa, confortevole e silenziosa, ci ha accolto e siamo entrati in punta di piedi, con il rispetto che si deve all’ospite e alla persona che non è più, ma il cui riverbero nei semplici oggetti (libri, mobilio) ne rivela molto bene la  presenza. A Venezia, da sempre inclusivo crocevia d’Oriente, me l’avevano detto (ma me lo sono ricordato in questa occasione) non si dice “straniero”, ma “foresto” che sta per forestiero, colui che viene da fuori, ma non è estraneo come lo “straniero”. Sembra poco, ma è molto.
Approfittando del fine settimana FAI, siamo andati a visitare la Scuola Dalmata. Ancora una volta val la pena fare un breve excursus etimologico e, per questo, mi avvalgo della Treccani:

scuòla (pop. o poet. scòla) s. f. [lat. schŏla, dal gr. σχολ, che in origine significava (come otium per i Latini) libero e piacevole uso delle proprie forze, soprattutto spirituali, indipendentemente da ogni bisogno o scopo pratico, e più tardi luogo dove si attende allo studio].

Ma l’accezione usata a Venezia è ancora un’altra e ha valore di «antica istituzione [e indica] le prime confraternite laiche, presenti a Venezia dal IX secolo» (cito dal documento che il FAI dava durante la visita guidata). I veneziani conquistavano e integravano. E ancora:

La Scuola Dalmata è più conosciuta come Scuola di San Giorgio degli Schiavoni; fa parte delle scuole “piccole” cioè quelle che riunivano coloro che esercitavano la stessa attività (scuole di arti e mestieri), quelle che riunivano le varie “nazioni” presenti a Venezia (cioè cittadini di paesi stranieri o provenienti da altri stati italiani (tedeschi, albanesi, greci, armeni, dalmati, fiorentini, milanesi, lucchesi, ecc.) o che professavano religioni diverse. Per “Schiavoni” si intendono gli abitanti della Dalmazia, spesso soldati e marinai al servizio della Serenissima fino alla sua caduta, o più semplicemente presenti a Venezia con attività commerciali da quando nel 1409 il Regno d’Ungheria cedette a Venezia i diritti su Zara e la Dalmazia.

Servono commenti? Mi pare di no. Come se non bastasse, in treno leggevo il bel saggio di Nicola Gardini, Viva il latino. Storia e bellezza di una lingua inutile. E, arrivato a pagina 111, vi si legge, a proposito di alcuni esilii eccellenti:

[Seneca] costretto da Claudio a vivere nell’aspra Corsica (l’esilio, durato dal 41 al 49 d.C., servì a strappare Seneca all’opposizione), scrive alla madre Elvia alcune delle pagine più profonde della latinità (Consolatio ad Helviam). Mentre Ovidio non fa che compiangersi ed esagerare i disagi della lontananza e la bruttezza del luogo in cui gli tocca vivere, Seneca, con il dichiarato intento di consolare la destinataria, nega addirittura che ci sia esilio al mondo, poiché lo spostarsi è condizione stessa della vita. Tutto nell’universo (“mundus”) muta collocazione inarrestabilmente, tutto si muove; la mente stessa dell’uomo non smette di esplorare e di spingersi lontano, perché è fatta della stessa sostanza delle stelle e dei corpi celesti, perennemente mossi. Ecco, quando si leggono riflessioni del genere, si capisce in che cosa la letteratura latina è unica e necessaria: nella sua capacità di collegare il caso minimo, la vicenda personale o il fatterello di cronaca, a un ordine cosmico, che tutto trascende ma a tutto, anche, conferisce dignità e profondità più che terrena. Perfino Roma è nata da un profugo, Enea. E poi i Romani hanno fondato colonie ovunque. E prima di loro i Greci si sono diffusi per il Mediterraneo. Popoli interi cambiano sedi. Se l’emigrazione (“populorum transportationes”, Consolatio ad Helviam, VII, 5) è esilio (e qui Seneca, mentre si riferisce a una realtà antichissima già ai suoi tempi, sembra che descriva i nostri anni), si deve parlare di esilio collettivo (“publica exilia”, ibidem). Perché, dunque, dolersi di non essere più a Roma? Perché una madre dovrebbe piangere di nostalgia come se figlio fosse morto? E perché, poi, credere che l’esilio sia una perdita di credito pubblico? I templi distrutti (“aedium sacrarum ruinae”) non vengono onorati come se ancora fossero in piedi (XIII, 8)? Seneca usa anche un altro argomento — grazie al quale tocca davvero vertici altissimi — per togliere alla sua condizione qualsivoglia stranezza negativa: l’uomo ovunque è a casa, perché quello che veramente conta, ovvero la sublimità della creazione, si misura allo stesso modo da qualunque punto della terra. E allora non c’è più Corsica aspra e inospitale, non c’è più suolo, ma solo la volta celeste, dove corpi di varia luminosità sorgono e tramontano e seguono la loro orbita e abbagliano e tracciano scie sfavillanti come se cadessero, ispirando senza posa l’ingegno dell’osservatore (VIII).