Questo periodo strano della vita, di autoconfinamento, può risultare prezioso per scoprire, riscoprire, vedere e leggere cose nuove. Almeno: lo è per me.
Mi era stata segnalata questa rassegna su documentari e film di montagna, spesso anche cortometraggi, spesso di grande intensità emotiva e altrettanto spesso di grande fotografia (qui il link). Tra questi ieri sera ho visto The Last Honey Hunter, la cui sinossi recita: «Pellicola a cura del regista Ben Knight (35′, 2017). Nelle montagne avvolte dalla nebbia della valle del fiume Hongu, in Nepal, i Kulung praticano un’antica forma di animismo strutturata attorno alla figura del dio Rongkemi. Un uomo magro e senza pretese di nome Maule Dhan Rai si ritiene sia stato scelto dagli dei per il pericoloso rito della raccolta del miele».
Una sinossi che – forse per esigenze di spazio – non rende il dramma di questa manciata di individui che sopravvivono inventandosi col terrazzamento una pianura che non c’è: il protagonista e il suo aiutante mostrano l’entità del “lavoro nei campi”, dissodando sostanzialmente un singolo solco con un aratro manuale aggiogato a due giovani bestie, mentre il racconto si dipana evidenziando come questa pratica della “caccia al miele” (i termini usati in inglese sono proprio hunt e talvolta, verso la fine harvest, raccolta) sia l’unico “valore aggiunto” di una esistenza altrimenti condotta nella rigida durezza che la vita di montagna impone. Il protagonista, Maule Dhan Rai, intervistato, sostiene di essere stato visitato in sogno, da bambino, dal dio Rongkemi. Un sogno articolato, in cui due giovani e bellissime donne lo salvano spingendolo fuori dal pericolo, che si profila all’improvviso, imponendogli di afferrare la coda della scimmia (personificazione del dio) che sta davanti a lui e che, in effetti, lo conduce a salvezza. Il bambino racconta il sogno al padre. Il padre gli dice che questo è un segno del destino perché il dio ha scelto lui per l’ingrato e difficile compito della “caccia” al miele.
Che il compito sia ingrato e difficile lo si vede in primo luogo dalla faccia dello stesso Maule, per niente felice, ormai adulto, di essere stato il designato. In secondo luogo lo si vede sul campo: qui la regia fa miracoli documentando cose che con difficoltà si crederebbero vere. Il gruppetto – Maule e una manciata di sodali, ognuno con un compito preciso – compie questa vera e propria anabasi verso una costa di roccia verticale infinita (siamo pur sempre in Nepal, dove ci sono le montagne più alte del mondo) e, lungo questa costa, accessibile appunto solo a chi è dotato di ali, dall’alto viene calata una scala di corda, poco più che una fune, che scende e sembra non toccare terra mai. Da sotto il nostro eroe l’afferra e lentamente comincia a salire con una specie di secchio per raggiungere questi alveari enormi e selvatici. La corda a un certo punto sembra letteralmente appesa al cielo perché scompare dietro una formazione di nebbia e nuvole. Talvolta Maule si cala dall’alto: dipende da dove si trovano gli alveari. Ma sono davvero grandi e con davvero un numero impressionante di api, a loro volta abbastanza grandi. Il gruppetto si copre come può, ma qualche puntura – che sembra essere “benefica”, secondo quanto dice uno di loro (esiste un filone di “apeterapia”…) – arriva e forse anche più di qualcuna. Maule è gonfio in viso, ma la spedizione è finita. Ha detto prima e dice, anche dopo aver finito questa ennesima spedizione, che non vorrebbe più fare quel lavoro. Che ha avuto ben tre mogli e tutte sono morte prima di lui e due di queste sono morte dopo che lui ha iniziato questa pratica. Sente di essere, in realtà, maledetto.
Arrivano i titoli di coda e (traduco all’impronta):
Le proprietà “pazze” del miele probabilmente provengono dalle graianotossine trovate nel polline dei rododendri, il fiore nazionale velenoso del Nepal. Il prezzo del miele è diminuito negli ultimi anni a causa di voci su una serie di morti di overdose in Corea [il termine usato e proprio overdose, forse legato alle proprietà di queste tossine]. Dopo essersi tolto la vita [nel 2018, l’anno dopo il documentario], Maule fu adagiato sulle rive del fiume Hungu, un rituale che si addiceva a una morte infausta. I Kulung credono che lo spirito inquieto di Maule ora vaga nelle foreste intorno a Saardi. Asdhan ha continuato il raccolto senza il sogno.
Insomma, prosaicamente, al nostro sguardo occidentale, la morale della storia è che questi, che vivono di stenti e di patimenti, ricorrono all’animismo perché non hanno altro cui appellarsi e qualche disgraziato – magari un mite come Maule – deve essere “prescelto” per cercare di vivere un po’ meglio. La divinità, qui come altrove, è funzione regolatrice sociale, in assenza di polizia. Maule, nella sua semplicità, però avverte tutto l’aspetto coercitivo della vicenda – magari non del tutto razionalmente, ma lo avverte – e quel lavoro non lo vorrebbe più fare. Ma nessuno lo fa, nessun altro dopo di lui viene visitato in sogno (e magari se qualcuno davvero lo fosse, a questo punto si guarderebbe bene dal dirlo…) e così è costretto a continuare. Ma è stanco e non sa come tirarsi fuori da questa storia, se non ponendo fine alla sua vita. Chissà mentre Maule moriva in silenzio, da solo, dov’era quel dio che lo visitò in sogno. Ma dopo Maule pare che la divinità diventi superflua, visto che il suo aiutante, pur non essendo stati “visitato”, prosegue la sua opera, come dice la frase finale dei titoli di coda.
Però potremmo essere meno prosaici di così e pensare che se esiste una metafisica della religione che vuole in alto, nell’alto dei cieli, il divino (qualunque esso sia), potremmo pensare, in punta di logica, che tutti gli umani che vivono in alto stanno letteralmente più vicini a dio (qualunque esso sia). La natura così poco gentile e generosa in questi luoghi è compensata forse, dalla meraviglia che comunque essere lì induce: l’antropologia, le abitudini, l’adattamento fanno il resto (forse). Allora il nostro eroe prescelto, mite, lercio e divino, è lì per cercare di rendere migliore la sua vita e quella delle persone che gli stanno attorno e dopo la sua morte il dio Rongkemi, forse misericordioso, decide di usare i cambiamenti climatici per far “abbeverare” di più di pollini di rododendro le api che, a insaputa di tutti, produrranno, di conseguenza un miele più tossico perché contenente più graianotossine (che arrivano anche sulle notizie di cronaca nostrana). Il miele sarà quindi meno venduto (o non venduto del tutto), i Kulung continueranno a campare di stenti e patimenti anche senza il miele, ma la pratica che ha condotto al suicidio l’ultimo dei cacciatori di miele, sarà definitivamente abbandonata.