Ne avevo sentito parlare anni fa. Poi, delle migliaia di stimoli che abbiamo quotidianamente, qualcosa rimane, qualcosa dimentichiamo per sempre, qualcosa resta nei recessi della memoria.
Così di questa storia vera scopro che è stato fatto un film proprio in questo anno pandemico da cui tutti sembriamo avere necessità di evadere, L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, che ho visto ieri sera sulla piattaforma streaming Netflix (che, invasa dal violento imprinting americano dove il più tranquillo dei telefilm ha almeno una decina di morti ammazzati, ogni tanto si “redime” e propone anche cose più interessanti). E’ la storia, in effetti un po’ incredibile – ma per molti aspetti quelli erano davvero anni in cui tutto sembrava possibile – di un ingegnere italiano, Giorgio Rosa nella finzione cinematografica intrepretato da un sempre bravo Elio Germano, che decide di costruire un’isola che è in realtà la rivisitazione in salsa civile di una piattaforma petrolifera, appena fuori dalle acque territoriali italiane, e lì proclamarsi indipendente e fondare quindi uno stato a se stante.
Ovviamente la cosa sembra partire come uno scherzo e una goliardata e, sempre nella finzione cinematografica, l’idea – non so dire quanto vera – nasce quasi per la battuta, durante un litigio con la ex fidanzata, che gli dice qualcosa del tipo “perché tu vivi in un mondo tutto tuo, ma il mondo non è solo tuo, è di tutti”. Giorgio, da buon ingegnere, anche evidentemente poco propenso a una interpretazione metaforica delle parole della donna, agisce “logicamente” e decide quindi di costruirsi un mondo tutto suo, dove “fare quel cazzo gli pare” (da pronunciarsi con calata bolognese). Così parte l’avventura che ovviamente finisce nel modo che sappiamo: lo stato dell’Isola delle Rose, che arriva a emettere passaporti, a dotarsi di una lingua internazionale (a quei tempi, per antonomasia, l’esperanto) e un francobollo, ha vita effimera e le sue fondazioni vengono fatte esplodere il 25 febbraio del 1969 (la dichiarazione come stato indipendente risale al 1° maggio 1968, una data più che simbolica). Nel mezzo la vicenda e il tentativo di farsi riconoscere dall’ONU e dal Consiglio di Europa, mentre l’Italia che ha le sue gatte da pelare – ed è un paese che deve ancora vedere “il meglio” degli anni del terrorismo di destra, di sinistra, degli attentati di mafia – “rema” e con difficoltà gestisce la situazione non potendo far altro che usare la forza per non dover creare un precedente.
Questo punto merita una considerazione: sempre nella finzione cinematografica a un certo punto c’è una telefonata tra Giorgio Rosa, in quel momento al Consiglio d’Europa, dove la questione è stata presa molto seriamente ed è stata istituita una commissione, e l’allora ministro degli interni Franco Restivo. I due si minacciano e si insultano il giusto, ma nel frattempo Restivo racconta un episodio significativo sul fatto di essere uno dei “552 fessi” che furono chiamati a scrivere la Costituzione Italiana, “meccanismo perfetto”, dice Restivo, dove bisognava considerare tutti i casi possibili anche in relazione a eventi “secessionisti” come quello proposto da Rosa – che continua a essere cittadino italiano e, come ancora una volta dice il ministro, “non si può chiedere la revoca della cittadinanza alla stregua della disdetta di un abbonamento a Famiglia Cristiana”.
Se facciamo un passo indietro e si va al “folle” ed eroico biennio resistenziale italiano prima della fine della Seconda Guerra Mondiale, non è che mancassero episodi in tal senso. La Repubblica di Salò ha avuto, nella sua pur breve vita, all’interno dei propri territori gli “antidoti” a ciò che essa stessa era (la colonia estiva del III Reich, come qualcuno amaramente la definiva…): mi basta qui ricordare l’incipit di un uno dei più bei romanzi resistenziali che io abbia letto, I 23 giorni della Città di Alba: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944».
Ma questo è solo uno dei diversi esempi che si potrebbero fare. Tra i padri costituenti, tra i quali lo stesso Restivo sedeva, molti – ma confesso di non sapere dire quanti, anche perché un conto sono i 552 coinvolti nell’Assemblea Costituente e un altro conto sono i 75 chiamati a scrivere la Costituzione, tra i quali, per altro, Restivo non compare – sono stati partigiani o “a stretto contatto” con le forze partigiane, quelle stesso forze che durante l’oppressione nazi-fascista, avevano dato vita a “enclave di libertà”, magari della durata di poco tempo o in spazi delimitati da singole cittadine o borgate. Insomma: si nega a Giorgio Rosa ciò che è stato il germe della fondazione di uno stato sovrano, dove però la libertà – strutturata e imbrigliata da un ordinamento giuridico – si sclerotizza e diventa “nemica” di libertà simili: un precedente così non si può tollerare, come viene più volte espresso da Giovanni Leone (interpretato da un ottimamente camuffato Zingaretti-Montalbano) e dallo stesso Restivo. E non lo si è potuto tollerare ovviamente neppure in altri contesti, laddove, in tempi recenti, le ragioni locali di un territorio si sono scontrate con quelle nazionali: il caso è quello del Tav in Val di Susa e della libera Repubblica della Maddalena di Chiomonte, poco più di un campeggio “strutturato” e a ridosso del tunnel di prospezione, che venne spazzato via dalle forze dell’ordine con le solite prove di forza della polizia (qui un cenno alla vicenda, per chi non la conoscesse, e in questo libro la storia di quel periodo).
Una storia che si è ripetuta, si ripete e si ripeterà come sembra raccontare questo libro (che non ho letto).