Ho completato ieri sera la lettura di Tecnobarocco. Tecnologie inutili e altri disastri del collega Cnr Mario Tozzi. Un libro che nonostante lo sforzo – che pure però mi pare modesto – non lascerà il segno. E non lo lascerà per diversi motivi che sono quelli tipici, per usare lo stesso linguaggio che l’autore usa nel libro, della “turbo modernità”: una contraddizione intrinseca al libro che espliciterò al termine di questa breve analisi. E dire che non mi reputo un “tecnofan”…
Ma entriamo per un momento nel dettaglio. Il libro di Tozzi, redatto con linguaggio informale e altamente discorsivo, captatio benevolentiae utile a portare dalla sua parte il lettore ancor prima che questi possa valutarne i contenuti, è una lunga lista del “com’era bello una volta” vs. “com’è inutile e dannosa la tecnologia moderna”.
Attorno ad argomentazioni di buon senso (per le quali forse non serviva scrivere un libro…), anche molto condivisibili – come il discorso sulle plastiche e sul fatto che queste negli oceani stanno distruggendo letteralmente la vita, così come la condannabilissima pasca a strascico e le reti di nylon che permangono nelle acque praticamente per sempre, ecc. – l’ago della bilancia oscilla tra banalità (data la nostra vita sedentaria prendere le scale fa meglio che prendere l’ascensore… ma va?) e patente superficialità nell’affrontare le varie dicotomie che di volta in volta, in questo lungo elenco che è il libro stesso, vengono (arbitrariamente) proposte: ne elenco due su tutte.
- rifacendosi a un vecchio libro scritto dall’ex collega di master Sissa Nicola Nosengo (L’estinzione dei tecnosauri) l’autore, ricalcando Nosengo, mostra qua e là (il caso della tastiera “qwerty” e la questione dei supporti di memorizzazione che sono passati in pochi anni dall’incisione su nastro al dvd e ora alla completa virtualizzazione mediante cloud o dispositivi come penne usb e, in generale hard disk) come l’evoluzione tecnologica non necessariamente faccia vincere i prodotti tecnologicamente e tecnicamente migliori sul mercato (tesi principale dei tecnosauri) ma, per ragioni soprattutto economiche (che comprendono senz’altro anche l’obsolescenza programmata), fanno vincere ciò che ottimo non è. Tutto questo tacitamente viene confrontato con l’evoluzione darwiniana tout court, sostenendo come la tecnologia si discosti da quest’ultima proprio perché arbitraria e non “ottima”. Insomma: sembra che Tozzi dimentichi però, mi pare, che il darwinismo – che si differenziava dal lamarckismo proprio per la sua componente NON teleologica – teorizzi la vittoria del NON ottimo e del fatto che la Natura proceda per tentativi ed errori e che essa non proceda secondo un rigido finalismo;
- l’annosa questione Ogm che, ancora una volta, non viene affrontata secondo quello che, sempre secondo me, dovrebbe essere un corretto uso dell’argomentazione. I “corni del dilemma” in questo caso sono sempre stati 2: il primo è la questione scientifica: gli Ogm sono il frutto “accelerato” di quel che sono di fatto processi naturali (almeno in linea teorica) ed è stato ampiamente dimostrato che non sono dannosi per la salute, checché ne dicano tutti gli oppositori. Dannoso all’economia è invece il monopolio sulle sementi che le multinazionali (sempre le solite: Monsanto, Syngenta & co.) operano su questa faccenda: ti vendo il grano transgenico che resiste a tutti gli agenti patogeni tranne che ad uno e per quell’uno ho qui il mio prodottino che ti vendo insieme alle semente senza il quale non raccoglierai nulla. Questo si che è condannabile e completamente non etico e su questo non si può non essere d’accordo con Vandana Shiva, con la questione della biodiversità, con tutto quel che è importante nelle colture non intensive. Invece Tozzi in un paragrafetto sostanzialmente liquida la questione, non divide i corni del dilemma con il risultato di un minestrone in cui si mescolano questioni etiche e di politica economica e questioni scientifiche. Un minestrone che contribuisce a confondere anziché a far chiarezza.
Un vecchio professore sosteneva che se tre amici al bar parlano di una questione e nessuno dei tre è realmente competente sulla questione che si discute, allora quelle sono e rimangono chiacchiere da bar. Il retrogusto che rimane dopo aver letto il libro è un po’ questo: la chiacchiera da bar.
Ma ancora tutto questo, a mio modestissimo avviso, non è la pecca peggiore del libro. Il suo difetto principale sta non solo nel non offrire soluzioni – se si tratta di porsi i problema, forse in molte di queste dicotomie il problema ce lo siamo posto in molti… – ma nel pensare in filigrana che le soluzioni possano arrivare bottom up, dalla gente che dovrebbe poter cambiare i propri comportamenti. Atteggiamento, pure questo, completamente avulso dalla realtà. La maggior parte delle persone se pure ha consapevolezza di questi problemi, non è che non voglia risolverli, è che forse non ha gli strumenti materiali per scegliere (banalmente perché la società non li offre) in modo più consapevole.
Molte mattine della mia vita – non è un pensiero originale: forse sarà capitato a ognuno di noi – vedendo un cielo terso, blu cobalto, senza neanche una nuvola, ho pensato che per onorare degnamente la giornata neppure un motore si sarebbe dovuto accendere. Poi, guardato l’orologio, vedendo che si faceva tardi al lavoro, ho messo in moto la mia vespa e sono andato, accendendo il motore. E sono fortunato perché posso scegliere la vespa al posto dell’auto: un mezzo di modesta cilindrata, che consuma poco, dal peso contenuto per portare in giro il mio peso contenuto, di modeste dimensioni utili a svicolare nel traffico. Chi è meno fortunato magari il “lusso” di un mezzo a due ruote non può permetterselo, oppure teme per la propria incolumità fisica e quindi “preferisce” stare delle mezz’ore in coda dentro la propria auto. Chi è insensibile a questo problema invece va in Suv, ma questa è un’altra storia. Soluzioni? Nel libro non se ne leggono. Né bottom up né top down – e personalmente, per altro, penso che quelle top down siano le uniche perseguibili.
Le contraddizioni intrinseche al libro quindi, per concludere, sono almeno due: l’essere stato scritto in fretta e furia (alla faccia di quel che in esso si denuncia… la velocità della “turbo tecnologia”) e l’aspetto della sostenibilità, che sembra un tema molto caro a Tozzi in tutto il libro, pubblicato con Einaudi, una delle prime case editrici “costrette” dal collettivo di scrittori Wu Ming a usare carta riciclata (qui la notizia). Carta riciclata su cui questo libro non è stampato.