Sono finalmente riuscito a recuperare ieri sera un film che avrei voluto vedere quest’inverno e che, più o meno fugacemente passato dalle sale di Pisa e Trento (città nelle quali avrei potuto realisticamente vedere la pellicola), ho pensato di riuscire a vedere in una delle due arene estive pisane. Ma neppure da qui è passato – forse per la sua durata e “l’impegno” (in termini di tempo perché comunque la storia si segue benissimo) che costringe lo spettatore a una maratona di quasi 3 ore – così… ho risolto in altro modo. Il film è Silence, di Martin Scorsese, (che ha preso l’Oscar) e tratta del tentativo di colonizzazione del Giappone da parte dei gesuiti nel XVII secolo (qui la lunga sinossi).
Sebbene non abbia letto il romanzo da cui è tratto, il film è molto bello: Scorsese è capace di mettere in evidenza lungo tutta la durata del film la tensione emotiva e le profonde convinzioni di questi “pastori” nel tentare di portare in luoghi così remoti il “verbo” cristiano. La situazione è drammatica e tale si annuncia sin dalle prime battute: i cristiani, quei pochi che tali si definiscono, vengono sistematicamente perseguitati e uccisi. Il martirio dei poveri contadini convertiti, dispera, fiacca e pone dubbi insormontabili alla coscienza dei due giovani apostoli (uno dei due morirà e il film si concentrerà sulle vicende umane del superstite).
La Storia ripropone una vecchia storia, che è quella degli uomini disposti a sacrificare la vita – certamente la propria e forse anche l’altrui – per la fedeltà a un’idea, a un credo e il messaggio si trasforma quindi, almeno ai miei occhi di spettatore, da contingente a universale. Alla fine il protagonista incontra Cristovão Fereira, il padre confessore e guida spirituale sulle cui tracce si erano messi partendo dall’Europa. I dialoghi sono molto belli: Fereira convince poco a poco Sebastião Rodrigues della bontà dei suoi ragionamenti, lo convince all’abiura perché quello è l’unico modo per far cessare le torture e le uccisioni della popolazione povera e inerme.
Quel che il film omette di dire sono i motivi per cui i giapponesi si comportano così: i quali, nel film, sembrano essere tutti legati al piano religioso. Se si legge un po’ della storia del Giappone, di quel periodo siamo in quella delicatissima fase – nota come periodo Edo o periodo Tokugawa, la cui datazione ufficiale va dal 1603 al 1868 – che vide l’impero isolarsi pressoché completamente al mondo esterno a seguito di una crisi ambientale e demografica provocata – neppure troppo paradossalmente (se si pensa al mondo odierno) – da un periodo di pace e prosperità. Leggendo Collasso di Jared Diamond (i brani sono tratti dalle pagine 310-312), si scopre che:
Per quasi 150 anni, a cominciare dal 1467, il Giappone fu sconvolto da guerre civili, seguite al crollo della coalizione delle forti casate feudali che erano andate al potere dopo la disintegrazione dell’autorità imperiale. […] Le guerre si conclusero grazie alle vittorie militari di un guerriero di nome Toyotomi Hideyoshi e del suo successore Tokugawa Ieyasu. […] Già nel 1603 l’imperatore aveva investito Ieyasu del titolo ereditario di shogun (supremo capo militare). Da allora fu lo shogun a esercitare davvero il potere del suo palazzo nella nuova capitale Edo (la moderna Tokyo), mentre l’imperatore, che aveva dimora nella vecchia capitale Kyoto, rimase una figura formale senza alcuna autorità. [… In quel periodo] una dinastia di shogun mantenne il paese libero da guerre e da influenze straniere. La pace e la prosperità fecero esplodere il Giappone. Nel giro di un secolo la popolazione raddoppiò per una fortunata combinazione di cause: condizioni di pace, assenza delle epidemie che stavano colpendo l’Europa (il Giappone, infatti, vietava l’entrata a tutti i visitatori e viaggiatori stranieri), aumento delle rese agricole […]. Le città diventavano sempre più grandi, al punto che nel 1720 Edo era la più popolosa del mondo. In tutto il Gappone, la pace e un forte governo centralizzato determinarono la nascita di una moneta unica e di un sistema uniforme di pesi e misure, la fine dei dazi e dei pedaggi, la costruzione di strade e il miglioramento della navigazione tra le isole. Tutti questi fattori causarono un aumento esponenziale dei commerci interni.
I rapporti del Giappone con il resto del mondo, però, si ridussero quasi a zero. I grandi navigatori portoghesi, mossi dalla brama di commerci e di conquiste, circumnavigarono l’Africa e raggiunsero l’India nel 1498, le Molucche nel 1512, la Cina nel 1514 e infine il Giappone nel 1543. Questi primi visitatori, pur ridotti di numero, causarono un vero sconvolgimento nel paese, perché vi introdussero le prime armi da fuoco. I cambiamenti furono ancora più drastici sei anni dopo, quando arrivarono i missionari cattolici. Centinaia di migliaia di giapponesi, inclusi alcuni daimyo, si convertirono al cristianesimo. Purtroppo, i missionari gesuiti e francescani manifestarono un comportamento non irreprensibile, fatto di gelosie e competizione, e si sparse la voce che frati stavano cercando di cristianizzare il Giappone per permettere all’Europa di impadronirsi del paese.
Nel 1597 Toyotomi Hideyoshi fece crocifiggere 26 cristiani. Quando i daimyo cristiani cercarono di corrompere o assassinare i funzionari del governo, Tokugawa Ieyasu decise che gli europei e la cristianità costituivano una minaccia alla stabilità dello shogunato e del Giappone […]. Nel 1614 Ieyasu bandì il cristianesimo e cominciò a torturare e a condannare a morte i missionari e tutti coloro che si rifiutavano di rinnegare il nuovo credo. Nel 1635 lo shogun arrivò a proibire ogni viaggio al di fuori del paese. Quattro anni dopo, espulse dal Giappone i pochi commercianti portoghesi rimasti.
Strategia che, col senno di poi, si rivelò vincente. Alla Cina, accenna Diamond in quelle stesse pagine, andò diversamente e, circa un secolo dopo, come invece racconta Ha-Joon Chang in Economia. Instruzioni per l’uso (pp. 383-384), essa dovette soccombere all’espansionismo commerciale europeo, incarnato soprattutto dall’Inghilterra. Battaglia che dal piano commerciale si spostò a quello militare e si concluse con una vera e propria débâcle per i cinesi:
Nel 1792, il re inglese Giorgio III inviò il conte Macartney in Cina in sua rappresentanza, affinché convincesse l’imperatore cinese Qianlong a permettere agli inglesi di commerciare liberamente in tutta la Cina, e non solo a Canton (Guangzhou), all’epoca l’unico porto aperto agli stranieri. A quel tempo la Gran Bretagna aveva un notevole deficit commerciale con la Cina (niente di nuovo sotto il sole!), soprattutto a causa della sua recente passione per il tè. Gli inglesi pensavano che, se il commercio fosse stato più libero, sarebbero riusciti a ridurre il disavanzo.
La missione fu un completo fallimento. Qianlong rimandò indietro Macartney con una lettera per Giorgio III in cui affermava che il Celeste Impero non aveva alcun bisogno di incrementare gli scambi commerciali con la Gran Bretagna. Ricordò al re che la Cina aveva permesso agli stati europei di commerciare a Canton solo «quale segno di favore», dato che «il tè, la seta e la porcellana del Celeste Impero sono assolutamente necessari alle nazioni europee». Qianlong dichiarò che «il nostro Celeste Impero possiede tutte le cose in copiosa abbondanza e non manca di nessun prodotto entro i suoi confini. Non vi era dunque alcun bisogno di importare i manufatti di barbari dall’esterno in cambio della nostra produzione»*.
Poiché era proibito anche solo cercare di convincere i clienti cinesi a comprare maggiori quantità di manufatti inglesi, alla Gran Bretagna non restò che aumentare le proprie esportazioni di oppio dall’India. La conseguente diffusione della dipendenza da oppiacei allarmò il governo cinese che ne bandì il commercio nel 1799. La manovra non funzionò, perciò nel 1838 l’imperatore Daoguang, nipote di Qianlong, nominò un nuovo «zar antidroga», Lin Zexu, allo scopo di reprimere il contrabbando di oppio. Per tutta risposta, nel 1840 gli inglesi scatenarono la Guerra dell’oppio, dalla quale la Cina uscì a pezzi. Con il Trattato di Nanchino del 1842, la Gran Bretagna, vittoriosa, costrinse la Cina a concedere il libero scambio, compreso quello dell’oppio. Seguirono cent’anni di invasioni, guerre civili e umiliazioni nazionali.
* Il testo completo della lettera dell’imperatore Qianlong a Giorgio III si trova qui in inglese: http://www.history.ucsb.edu/faculty/marcuse/classes/2c/texts/1792QianlongLetterGeorgeIII.htm
Insomma – tornando alla questione giapponese – le premesse e i motivi per cui il cristianesimo fu bandito, se ci fidiamo di uno studioso come Diamond, sembrano di tutt’altra natura e la questione religiosa è in qualche modo strumentale a un gioco più grande. Dispiace quindi che Scorsese – che pure conferma di essere un ottimo regista – veda il dettaglio alimentando tacitamente alcuni luoghi comuni (i “poveri cristiani”, lo straniero è in qualche modo “cattivo”…) e al contempo facendo perdere di vista il quadro d’insieme.