Il ruolo sociale dei meccanici (delle motociclette)

Personalmente ho una lunga storia con i mezzi a due ruote, come molti che, a latitudini che lo permettono, hanno cominciato preso ad armeggiare con motorini, vespe, scooter, ecc. Scrivo “armeggiare” perché di solito, almeno nella zona da cui provengo, il “motorino” non era un semplice strumento di cui si disponeva, che si usava, ma un oggetto con il quale interagire, quasi, in certi casi, da “riprogettare”. Il “clima favorevole” non era solo quello atmosferico, ma anche quello sociale: a una sessantina di km da dove abitavo da ragazzino c’è Pontedera, storica sede della più importante azienda italiana produttrice di scooter di tutti i tipi, la Piaggio, primo tra tutti la osannata e universalmente nota “vespa”. Il clima favorevole era dettato anche dal “livello di accesso” di questi mezzi: poco costosi, estremamente semplici nella loro realizzazione, era quanto di meglio si potesse immaginare – anche per, chiamiamole così, le “personalizzazioni”.

Ebbene sì: sono stato tra quelli che hanno avuto il motorino (rigorosamente “Ciao”) truccato. Acquistai una “elaborazione Polini” e trasformai quell’innocente “bicicletta col motore” (o poco di più, soprattutto con gli occhi di oggi), in un oggetto piuttosto bizzarro e… rumoroso (se devo pensare a quanto sono invecchiato e a qual è la misura di questo invecchiamento, è quanto maledico i moderni scooter con marmitte che non perdono occasione per violentare i timpani altrui – perché alla fine io cosa facevo, se non quello?). Non entro nei dettagli: sarebbe inutile e sono comunque parte di una storia personale che poco interessa. Mi interessa invece l’aspetto che accompagnava questa “esigenza”: passare ore a socializzare – tra ragazzi e col meccanico, che nel mio caso si chiamava semplicemente Pino (diminutivo quasi sicuro di Giuseppe).

Pino aveva l’officina (veramente un fondo che sembrava poco più che un antro del drago: buio, quindi costantemente illuminato da luce artificiale, con il classico bancone degli attrezzi e… con un gran casino) a meno di 50 metri da casa mia. Capite che era impossibile non passare mezze giornate sane (o anche intere) da Pino, a rompergli le scatole mentre lui lavorava. Un bravo ragazzo, mi viene da dire più cosciente del suo ruolo sociale di quanto desse a vedere.

A un certo punto, forse un certo giorno – data la rapidità con cui la cosa avvenne – Pino chiuse e noi diventammo adulti. Trovò lavoro come meccanico, sempre delle motociclette, per una concessionaria – Kawasaki, se non ricordo male. Ma è come se davvero la cosa fosse accaduta di colpo. Una delle tante stagioni della vita – ed era comunque una stagione importante – si chiudeva. Il “Ciao” me lo rubarono a Marina di Massa, poco prima o poco dopo questo evento luttuoso, quasi a sancire la definitiva fine di quel periodo. Non un grande acquisto per i rapinatori che, sono convinto, devono essersi mezzi ammazzati dopo la seconda curva: le vibrazioni che avevano sollecitato il telaio non progettato per sopportarle, stavano facendo il loro lavoro e il telaio si stava crepando. Solo da un lato però, con il risultato che le curve da un lato erano “normali”, mentre dall’altro, beh, metà motorino si piegava e l’altra rimaneva dov’era. Insomma, bisognava saperlo, come bisognava sapere che il freno davanti era inesistente… Non credo se la siano passata bene, ma tant’è: il motorino a quel punto, dopo anni gloriosi di servizio, non c’era più.

Iniziò la stagione delle “vespe” sulle quali però non misi mano: era cresciuto e basta esperimenti. Il rapporto con i meccanici per anni delle due ruote si fece asettico come quello delle auto da portare a tagliandare: ormai sembra d’essere a un centro convegni anziché in un autosalone e tutta la gentilezza e la cordialità sa di estremamente finto, basato solo sulla capienza del tuo portafoglio.

Questo è coinciso con le mie parentesi piemontesi e forse nell’elenco delle cose favorevoli al ruolo sociale che i meccanici delle due ruote hanno nelle vite dei loro clienti, c’è da indicare anche la geografia, perché quando nel 2011 tornai a Pisa ed ero orfano di un meccanico che mi seguisse la vespa, un collega mi indicò un’officina che mi ha ricordato mutatis mutandis quella di Pino – come “attitudine”: piccolo paesino, grande competenza, anche se questa officina è anche visivamente molto meglio… Allora non dico che i clienti diventano amici perché non è così. Ma il rapporto si fa decisamente più personale. Ci si racconta. Perché raccontare “cosa è successo” a un mezzo, perché si è lì a ripararlo o altro, alla fine significa raccontare di se stessi. Parliamo di una piccola officinetta “autorizzata” Piaggio, ma indipendente. Ci sta che le cose vadano così. Soprattutto dopo anni di frequentazione. Ma quando poi la stessa dinamica avviene presso il concessionario ufficiale Honda di Lucca (perché i mezzi a due ruote abbondano, nonostante i trascorsi…) allora capisci che è un insieme di cose a creare questa fortunata coincidenza.

Ieri avevo appuntamento per la sostituzione dei paraoli della forca anteriore della VFR: una vecchietta in ottima forma, ma che, come tutti, ha qualche acciacco dovuto all’età da sistemare. Ieri l’abbiamo sistemato. Mi ero portato da leggere: la lavorazione avrebbe richiesto almeno un paio di ore e di andare a passeggio della pur sempre meravigliosa Lucca con 30 gradi anche alle 7 di sera non ne avevo gran voglia. Mi sarei messo in sala d’attesa al fresco e amen. Invece sono rimasto in officina. Ho chiacchierato con Fabio, mentre lo vedevo operare sugli ammortizzatori della moto con grande perizia. Quel che si dice appunto il ruolo sociale dei meccanici dei mezzi a due ruote.

In vespa (elettrica). Da Pisa a Trento*

Ho immaginato di guidare una vespa elettrica, per colpa di questo articolo. Di salire a bordo di un futuro fatto di silenzio, fatto di oggetti che non vanno “accesi”.
Accendere.
Un termine che ha una contiguità di significato con bruciare. La legna, quando ancora eravamo uomini delle caverne e il fuoco era una specie di divinità; combustibili fossili oggi, per tenebre ormai ben più metafisiche che reali.
Quanto Freud c’è in questa storia! Quanta metafora sessuale, spesso anche oscena e pornografica come lo è lo zeitgeist nel quale viviamo: drill baby drill!, per usare terminologia da esperti d’oltreoceano. Perforare, trapanare la terra per i combustibili, per tunnel TAV dai quali far entrare e uscire, entrare e uscire… treni ad alta velocità senza nessun godimento. Falloforia, fallocrazia.
Se non vogliamo morire tutti soffocati dobbiamo smetterla di bruciare – o bruciare il meno possibile – combustibili fossili e smetterla di fare buchi per sbancare rocce amiantifere o contenenti uranio. I treni possono passare altrove, dove e come già fanno, senza la fretta imposta dal TAV, senza la fretta imposta dal mondo, un mondo che abbiamo costruito sulla potenza, sulla prestazione, sul “delta t”, l’intervallo di tempo. Se non serve sollevare un ponte da un sacco di tonnellate in un tempo rapido, ma ci si può mettere 10 minuti, si possono usare motori dalla potenza ridicola. La scienza – che è semplice fisica del primo anno di liceo – applicata ci suggerisce che sarebbe meglio rallentassimo. Per goderci il paesaggio dell’Appennino, magari valicando il Passo dell’Abetone su quel miracolo dimenticato di viabilità che sono le strade statali, come la numero 12 “del Brennero” che da casa mia, a Pisa, arriva a Trento (e al Brennero) appunto, passando per boschi meravigliosi. Magari su una vespa. Elettrica stavolta.
* Titolo la cui assonanza – ai più attenti non sarà sfuggito – richiama il celebre racconto di viaggio di Giorgio Bettinelli: In vespa. Da Roma a Saigon, Feltrinelli, (ultima edizione) 2014, Milano.

La vespa elettrica, a EICMA 2016

La vespa elettrica, a EICMA 2016