Scoiattoli, politica e linee del tempo

Ai miei genitori, fuggiti, in questo 2024, verso altre linee del tempo.

Talvolta, e per taluni, la sproporzione tra le possibilità che si affacciano nel mondo cui viviamo sono tali da indurre giustificazioni a quel che accade, che stanno nella twilight zone, quella zona crepuscolare dove tutto sembra possibile e soprattutto dove ogni cosa sta tra il vero, il verosimile, il possibile e magari l’assurdo – perché in certe occasioni assurda, alle persone di buon senso, sembra essere la realtà stessa.

C’è un antesignano a questa sorta di “commistione” tra realtà e fantascienza che è, per me che scrivo, illustre ed è una sorta di piccolo best seller nel suo genere: Piove all’insù di Luca Rastello, giornalista torinese che ebbi modo di conoscere prima che anche lui, qualche anno fa, migrasse verso altre linee temporali. Luca scrisse e descrisse con occhio sensibile e acuto la realtà degli anni ’70 del secolo scorso, in quel fremito di “realizzabilità dei sogni” di una società (italiana) più equa e più giusta che lo connotò, ma che poi le vicende – note e a lungo analizzate – e quel che accadde, di fatto negarono. I suoi “inserti” fantascientifici, frutto di quelle letture post-adolescenziali e psichedeliche, hanno inizialmente un effetto straniante sulla trama del libro stesso, ma poi, come per magia (magia di cui sono capaci i grandi scrittori, e Luca lo era), tutto sembra tornare, tutto sembra avere un suo equilibrio narrativo.
La spassosa genesi di quello che invece qui voglio segnalare è legata a un recente articolo comparso sul magazine online “Rivista Studio”, in cui, nel 2016, «Donald Trump diventa Presidente degli Stati Uniti, e la sensazione di essere in un punto sbagliato dello spazio-tempo si diffonde velocissima». Insomma: si “dà la colpa” di quel che accade a qualcosa che va storto nella realtà attuale. Un tema caro a chi, come il sottoscritto, è cresciuto a pane e “Ritorno al futuro”. Ma partiamo dall’inizio, che è anche l’inizio dell’articolo di “Rivista Studio”: «Le persone chronically online conoscono bene la cosiddetta Darkest Timeline, nota anche come Weasel Timeline. Breve riassunto: nell’aprile del 2016 una donnola si mette a masticare i cavi elettrici che portano energie al Large Hadron Collider del Cern di Ginevra. La donnola muore, bruciata viva dalle scosse elettriche. Il Large Hadron Collider smette di funzionare per un po’ […]. Nel corso di quell’anno, si verificheranno eventi che lo faranno passare alla storia come uno dei peggiori mai vissuti dall’umanità».

Peanut lo scoiattolo e Frank Longo che lo ha adottato

Peanut lo scoiattolo e Frank Longo che lo ha adottato, divenuto poi rocambolescamente simbolo/mascotte della campagna alle elezioni presidenziali di Trump

Questo l’incipit dal sapore apocalittico dell’articolo che prosegue in una apparente fuga verso una sfrenata fantasia: il legame tra la donnola a Ginevra e la morte violenta di altri piccoli mammiferi “esotici” ma in qualche modo da compagnia a New York, sembra essere legata dal tenue e invisibile filo di questa Darkest Timeline, questa linea del tempo sotterranea e nascosta che mette in relazione eventi apparentemente del tutto sconnessi tra loro. Per l’esattezza a morire a New York sono lo scoiattolo Peanut e il procione Fred.
Nella strampalata logica di questa fantasmagoria – volta, ricordiamolo, a dare una giustificazione (im)plausibile del perché il mondo va come va – la morte di questi due animaletti è di nuovo foriera di sciagure e, in particolare, del dejà vu legato alle elezioni statunitensi, quelle appena avvenute in questo 2024: «questo potrebbe essere l’evento che decide – vogliamo essere ottimisti: contribuisce a decidere – chi vincerà le elezioni negli Stati Uniti. Uno scoiattolo è morto a New York, ucciso dal personale specializzato del Department of Environmental Conservation (DEC) dello Stato di New York. Essendo questi gli Stati Uniti, lo scoiattolo è morto di una morte violenta: gli animalisti dicono che questa è la versione animale della police brutality». Inciso: quando il mondo animale diventa non solo protagonista, ma determinante per la sorte dell’umanità tutta, non può non riaffiorare alla mente la celebre Guida galattica per autostoppisti di Douglas Adams. Fine dell’inciso.
Fatto sta che, per tornare alla realtà, Peanut lo scoiattolo esiste(va) per davvero e ha ancora un profilo Instagram con 700mila followers – ma che, andandolo a vedere, nel frattempo sono diventati oltre 900mila. La realtà assume subito una coloritura che sarebbe comica se non fosse realmente tragica: «L’intervento del DEC, come spesso accade negli Stati Uniti quando la pubblica autorità esercita la sua forza sui privati cittadini, è degenerato subito: Peanut ha morso una delle persone incaricate di portare via lui e Fred, fatto che ha reso inevitabile la soppressione sua e del procione. Il motivo è sempre lo stesso: potrebbero avere la rabbia, l’infezione si può appurare solo con un’autopsia, in attesa dei risultati tutte le persone entrate in contatto con gli animali sono caldamente invitate a parlare con il loro medico di base», racconta ancora “Rivista Studio”. L’umano, tal Frank Longo, che ha adottato Peanut e Fred, dopo aver mandato all’inferno il delatore che ha indicato al DEC i due animaletti, ha messo su una raccolta fondi (per cosa, si chiede “Rivista Studio”, non è chiaro) che però ha già raggiunto i 160mila dollari. Segno, anche questo, che viviamo comunque in realtà parallele.
La storia dovrebbe finire qui e dovrebbe avere poco o nulla di interessante, se non come caso di routine riguardante la salute pubblica in uno stato americano, qualcosa che normalmente riguarderebbe solo i residenti locali. Tuttavia, la morte di uno scoiattolo, Peanut, ha scatenato una controversia di portata nazionale e un dibattito politico durante la campagna elettorale americana. In particolare, il tema è stato ripreso dai repubblicani, che hanno iniziato a vedere lo scoiattolo come simbolo della propria battaglia, mettendo in secondo piano animali “totemici” come l’elefante e l’aquila.
In particolare, Elon Musk ha contribuito a trasformare questa vicenda in un’arma retorica – quella che in inglese si dice weaponization: prendi una cosa che non è intesa per far del male a nessuno e la trasformi in un’arma – accostandola a discorsi familiari anche altrove, come la paura che la sinistra voglia limitare le libertà personali e sottrarre beni e animali domestici. I repubblicani hanno inoltre legato la storia a temi quali il possesso di armi e l’immigrazione, descrivendo un governo intenzionato a limitare le loro libertà.
Donald Trump è diventato il “protettore” di Peanut – potremmo dire quasi obtorto collo, visto che inizialmente pare non fosse molto d’accordo – con immagini satiriche che lo ritraggono in compagnia dello spirito dello scoiattolo. Nonostante il silenzio ufficiale di Trump sull’episodio, alcuni suoi sostenitori hanno espresso rabbia verso il governo per questa vicenda, mentre politici come J.D. Vance hanno cercato di sfruttare la storia per guadagnare consensi.
Sia come sia quello che scriviamo, lo scriviamo adesso che Trump è, con largo consenso, il 47esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Evento inequivocabile che sembra altrettanto inequivocabilmente corroborare la Darkest Timeline Theory.

La via oscura – qualche riflessione

Ho finito di leggere ieri sera La via oscura, di Ma Jian, consigliatomi tempo fa da un amico. Sembra lontano dai temi su cui lavoro negli ultimi anni (la questione energetica), ma non lo è così tanto. E non lo è perché banalmente di risorse – in generale – ce ne sono di più o di meno se a consumarle siamo di più o di meno. L’annosa (e soggetta a enormi tabù) questione demografica – sempre poco sviscerata almeno nel nostro paese in cui si parla di “inverno demografico” (che vale per il nostro paese, ma appena fuori dai confini l’inverno è di nuovo primavera o estate piena…) – ha avuto almeno un maldestrissimo tentativo di azione, non qui ma nella popolosa Cina, con la celebre “politica del figlio unico“. Un tentativo (ripeto: decisamente maldestro), calato dall’alto, di contenere l’esplosione demografica dagli anni che vanno dal 1979 in poi, fino almeno al 2013, anno di ufficiale abolizione di quella che è stata a tutti gli effetti una sorta di follia.

Manifesto pubblicitario sulla politica del figlio unico

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Follia ben narrata nel romanzo crudo, a tratti cruento, di Ma Jian, in cui si racconta la vicenda di una coppia che in sostanza si dà alla macchia, per sfuggire alla “polizia di pianificazione familiare” (una roba a dir poco orwelliana) e accetta lavori e compromessi di sempre più basso livello, pur di rimanere “liberi”. Libertà a cui vanno messe le virgolette perché, tragedia nella tragedia, come accadeva in una Italia di decenni fa (neppure troppi se ci si pensa), la libertà è quella maschile di disporre della propria consorte in sostanza come “fattrice”. La protagonista resta incinta dopo la prima figlia, ma la coppia viene scoperta e… vabbè, non faccio troppo spoiler. In ogni caso si ha l’impressione di una discesa nell’inferno perché al degrado morale, diciamo così, si accompagna il degrado degli ambienti nei quali la famigliola protagonista della narrazione è costretta ad agire: discariche (del mondo occidentale) in cui questi “migranti interni” disgraziati sono costretti a lavorare e a vivere, in mezzo a rifiuti di ogni genere, inizialmente vari (oggetti rotti, tipicamente di plastica) e poi in un distretto specializzato nel recupero dei dispositivi elettronici (del primo mondo). Reietta e costretta all’inferno più degli altri che compongono il terzetto (padre, madre, figlia), la protagonista femminile. Non entro in dettagli e non dico nulla sull’epilogo, ma è un romanzo terribile, che getta una luce davvero sinistra su una nazione enorme, la maggiore potenza mondiale insieme agli USA, che ha grandi se non grandissimi problemi di diritti civili.

Si dirà: sì ma è un romanzo. Già, ma per questo romanzo in sostanza Ma Jian è stato costretto all’esilio, prima a Hong Kong e, dopo che questa è tornata cinese, in Europa (prima in Germania e poi a Londra, recita il risvolto di copertina sulla nota biografica). Da leggere, ma da prepararsi a prendere cazzotti nello stomaco…

Sul guardare e il vedere

Leggo e mi rendo conto che leggo sempre di più per allontanarmi da una realtà a tratti dolorosa. Tre le cose lette negli ultimi tempi, vale la pena di citare un vecchio pamphlet di Curzio Malaparte, che misi in lista – senza saperne nulla – per il titolo: Maledetti toscani. Si tratta di un libriccino breve, che si legge in poco, ma come già accadde per il Piovene di Viaggio in Italia, ha il merito di restituire scorci di un’Italia che fu, quella del dopoguerra. Vale la pena di citare quello che si trova alle pagine 115 e seguenti dell’edizione Adelphi:

Se attraversi l’Italia dalla testa ai piedi, voglio dire dalle Alpi alla Sicilia, o per tutto il costato, cioè dal Tirreno all’Adriatico, ti accorgerai che a differenza di come avviene nei paesi stranieri, dove nessuno alza gli occhi a guardarti in faccia, e dove la gente sembra non vederti nemmeno, in Italia tutti ti guardano.

Milioni d’occhi ti seguono dalle soglie delle case, dalle finestre, dal fondo delle botteghe. Ti pare che un intero popolo ti guardi, ti segua con gli occhi: ma non, a differenza dei toscani, per giudicarti: semplicemente per guardarti. Non c’è gretta curiosità negli occhi degli italiani: c’è qualcosa di doloroso, di profondo, di triste, qualcosa che è anche negli occhi degli animali. Specie delle donne e dei bambini: la cui sola difesa è nello sguardo. E ti guardano anche quando credi che nessuno ti veda: di dietro le persiane, le porte socchiuse, dal fondo dei vicoli deserti. In Italia anche i ciechi ti guardano.

Questo brano fa quasi da premessa a quel che segue: ancora piuttosto vivido nella memoria – ancorché a distanza di anni ormai – lo sbarco alleato, Malaparte dice che gli italiani soprattutto guardavano questi soldati non già per vedere “com’erano, e di che colore: ma per una ragione più profonda. Per veder se erano uomini anch’essi, per saggiare con gli occhi la loro qualità umana”.

Ecco sono queste frasi che mi riportano alla mia infanzia “borgatara”: un posto piccolo dove mia nonna teneva ancora la chiave sulla toppa all’esterno e dove “l’antifurto” era la rete di persone che si avevano intorno. Una convivenza che si cercava (e non sempre si riusciva) di rendere civile, negli spazi stretti della borgata, dove tutti sapevano tutto di tutti. Poi c’è chi lo sapeva per malizia, chi per il morboso non farsi i fatti propri (il meccanismo che secondo me decretò il successo delle telenovelas fu il trasferimento della curiosità – non troppo autorizzata – sulla vita dei vicini di casa a quella, non solo autorizzata ma caldeggiata, sulla vita dei protagonisti di Dallas, Dynasty fino ad arrivare alla nostrana Un posto al sole…), chi per semplice senso della civile convivenza e del sentirsi parte di un gruppo o di un destino umano che accomuna gioie e dolori di ognuno. Insomma: vantaggi e svantaggi degli sguardi altrui.

In pochi anni la rivoluzione è stata copernicana: tutto questo non esiste più – meno che mai lo sguardo mite degli italiani di cui parla Malaparte (quando va bene il prossimo tuo, in Italia, adesso ti ignora, a meno che non sia anziano, in coda alla posta e ben disposto alla chiacchiera) – per lasciare posto all’indifferenza (quando va bene) o a quello sguardo ipnotizzato che punta ai pochi centimetri quadrati dello schermo del proprio smartphone. Peccato perché alzando gli occhi si potrebbe ancora vedere un pezzo di mondo e rischiare di incontrare qualche anima in carne ed ossa con la quale condividere le proprie gioie e i propri dolori per sentirsi un po’ meno soli e forse, soprattutto, avere una percezione meno individualista di se stessi.

Statistica, probabilità e “mistero” bayesiano

Di certo in molti avranno pensato quello che ho pensato io sulla vicenda a tinte fosche dell’affondamento del “Bayesian”, lo yacht di Mike Lynch, omonimo, per cognome, di quel regista, David, che potrebbe essere l’autore della storia o il soggetto di un suo film.

La questione ha uno sfondo un po’ inquietante per le cose che sappiamo (la coincidenza con la morte del socio di Lynch, Stephen Chamberlain; il presunto contatto con i servizi segreti di mezzo mondo e altre quisquilie di questo genere) e forse più che la sceneggiatura di un film di David Lynch, potrebbe essere quella di un film di Christopher Nolan (penso espressamente alla cupa ambientazione di “Tenet“): un magnate/oligarca cattivo (guarda caso dell’Est, notoriamente terra di cattivi: Andrei Sator) è in possesso di una tecnologia attorno alla quale ruota l’intero film.

Immagine del "Bayesian"

Una immagine del “Bayesian”

Quando stavo scrivendo la tesi di laurea, mi sono imbattuto in più di un’occasione nella statistica bayesiana – che ha fatto la fortuna di Lynch e a cui il veliero sul quale ha trovato la morte era dedicato – che mi aveva affascinato: senza procurarsi manuali di statistica, anche solo nell’incipit della voce Wikipedia si legge:

La statistica bayesiana è un sottocampo della statistica in cui l’evidenza su uno stato vero del mondo è espressa in termini di gradi di credibilità o più specificamente di probabilità bayesiana.

Verità, credibilità, probabilità, “stato del mondo”. Mi sembra di tornare indietro nel tempo, al tempo in cui era per me fondamentale avere le basi della teoria della conoscenza (o “gnoseologia” o anche, con uno slittamento di significato spostato verso la filosofia della scienza, epistemologia); un tempo in cui la conoscenza proposizionale – un soggetto S conosce una proposizione p se: (1) p è vera; (2) S crede che p (S crede che la proposizione sia vera); (3) S è giustificato nella sua credenza – era una specie di stele di Rosetta, con cui confrontare le varie teorie che incontravo nella mia ricerca; un tempo in cui questa conoscenza proposizionale veniva messa in crisi da controesempi ineluttabili, come quello di Gettier (noto appunto come “il problema di Gettier“).

Ancora, sempre per citare una definizione (sempre su Wikipedia), quella di probabilità bayesiana recita:

La probabilità bayesiana è un’interpretazione del concetto di probabilità, in cui, anziché la frequenza o la propensione di qualche fenomeno, la probabilità viene interpretata come aspettazione razionale rappresentante uno stato di conoscenza o come quantificazione di una convinzione personale.

L’interpretazione bayesiana della probabilità può essere vista come coestensiva della logica proposizionale con l’inclusione del ragionamento tramite ipotesi, vale a dire, con proposizioni la cui verità o falsità è sconosciuta. Nella visione bayesiana, una probabilità viene assegnata a un’ipotesi, mentre nell’approccio frequentista alle inferenze, un’ipotesi viene tipicamente verificata senza che venga ad essa assegnata una probabilità.

Quale probabilità bayesiana (quindi: aspettazione razionale, stato di conoscenza, quantificazione di una convinzione personale!) aveva quindi il “Bayesian” di inabissarsi nelle acque di fronte a Palermo? Gli ingredienti per la spy-story sono serviti su un piatto d’argento…

30 anni senza Ayrton Senna – il prototipo del mito

Qualche sera fa ho guardato – per poi scoprire in realtà che ho riguardato, visto che a un certo punto mi sono reso conto di averlo già visto… (che brutta roba la vecchiaia!) – il documentario su Senna disponibile su Netflix.

Non so se è la storia ad essere ideale in sé o la costruzione che ne fa il documentario, ma questo giovane uomo, morto sul lavoro (guidando su un circuito un’auto di Formula 1), sembra aver avuto la vita perfetta. Di buona famiglia (nel senso di: facoltosa), si avvia – incoraggiato e non osteggiato – al mondo delle corse sin da ragazzino (come spesso accade), con i kart. E’ talentuoso e presto viene fuori per quello che è ed è stato: un campione. E’ molto credente e non ne fa mistero – e lo è al punto da essere quasi preso per i fondelli dagli altri colleghi piloti e dal suo entourage – ed è quindi un buono. Condizione necessaria per trasformarsi da semplice campione di una disciplina in un eroe a tutto tondo perché essere campione significa guadagnare molti soldi e i molti soldi, se arrivi da un paese complesso e tutto sommato povero (soprattutto negli anni ’70-’90 del secolo scorso) come il Brasile e quei soldi li usi per far del bene alla gente, allora diventi un eroe nazional-popolare.

Ayrton Senna

Ayrton Senna (copyright: Instituto Ayrton Senna – immagine tratta da Wikipedia)

Ma non basta: anche professionalmente la storia è perfetta. Ha un deuteragonista – l’antipatico francesissimo Alain Prost, pilota navigato e ben insediato nella “politica dello sport” – che gli dà filo da torcere e lo costringere a crescere umanamente e professionalmente, evidenziandone ancor di più le caratteristiche del fuoriclasse (che in tempi più recenti ricordano, per certi aspetti, un altro campione, stavolta nostrano e sulle due ruote, Valentino Rossi, che spesso partiva in svantaggio per fare delle rimonte pazzesche e superare tutti arrivando primo…) e poiché il nostro, non solo vuole essere un pilota migliore, ma un uomo migliore, si spende attivamente anche per la sicurezza dei colleghi, durante i brainstorming che si tengono prima di ogni corsa, come dimostra l’episodio accaduto appena un paio di anni prima della sua morte.

intervento per salvare la vita del collega Erik Comas

Senna interviene per salvare la vita del collega Erik Comas

Infine c’è quell’alone di presentimento: diversi incidenti accadono poco prima di quello che gli sarà fatale. Come fossero moniti. Presentimento tanto forte che finanche il medico ufficiale dei Gran Premi di Formula 1, Sid Watkins, che di Senna era amico, arriva a dire al pilota brasiliano, a commento della morte di Roland Ratzenberger – pilota austriaco coetaneo (di Senna) – avvenuta il giorno prima (30 aprile) durante le prove della gara di Imola (Gran Premio di San Marino), che se avesse voluto non gareggiare e ritirarsi, lo avrebbe potuto fare. Anzi: avrebbe pure potuto dire addio alle gare e sarebbero potuti andare a pesca insieme. Il giorno precedente la morte di Ratzenberger ebbe un incidente molto grave e spettacolare, ma per fortuna senza danni, il connazionale Rubens Barrichello e Ayrton si precipitò all’ospedale per vedere come stava il suo giovane pupillo. Insomma se Senna fosse stato superstizioso anziché religioso, quel 1° maggio di 30 anni fa non avrebbe corso. Ma così non fu e anzi, proprio nella sua fede cercò il conforto, un messaggio, un segnale: la mattina del 1º maggio 1994, poche ore prima del tragico incidente, lesse un passo della Bibbia che diceva: “Oggi Dio ti farà il suo dono più grande, Dio stesso” (la frase pare sia in realtà: “Oggi ti darò la ricompensa più grande che posso. Ti darò me stesso”, tratta dal libro della Genesi). Messaggio sibillino e potenzialmente suscettibile di molte interpretazioni possibili.

Se gli eventi sono guidati, molto prosaicamente, dalla tecnologia, gli aspetti nefasti partono proprio da lì: le Williams-Renault dopo la giravolta normativa che tornava a bandire le sospensioni elettroniche fece un salto indietro e non di poco: tra la versione a sospensioni attive dell’anno precedente (1993) che permise la vittoria a mani basse dell’antipatico Prost (la FW15C) e quella di quell’anno, la FW16, guidata da Senna, c’era un abisso. Quest’ultima era praticamente inguidabile, regolata malissimo, nonostante le messe a punto e i brainstorming nei quali Senna coinvolgeva i tecnici. La posizione di guida orribile, l’abitacolo strettissimo (alla voce Wikipedia su Senna si legge: “La monoposto progettata da Adrian Newey è anche troppo stretta nella zona dell’abitacolo, aspetto che influisce negativamente sulla guida (lo stesso Senna, dopo le prime prove con la vettura, afferma: «Se mangio un panino non entro più in questa macchina»); il mezzo inoltre è instabile e difficile da guidare a causa dell’eliminazione dei dispositivi elettronici”), insomma anche qui, anzi: a partire da qui, non ci siamo proprio. Nonostante questo Senna – che fino a quel momento ha fatto miracoli (l’anno precedente, ancora con la McLaren, in qualche occasione ha dato del filo da torcere a Prost che viaggiava con le sospensioni automatiche; quell’anno, nonostante l’auto che faceva i fatti suoi, aveva ottenuto ben tre pole position, compreso il gran premio di Imola…) – corre ed è primo quando accade quel che gli è fatale.

Qualche dettaglio su una storia comunque molto conosciuta lo si trova qui e qui. Dettagli da cui anche gli “amici” inglesi della Williams non è che ne escano proprio benissimo.

 

“Io capitano” e il ruolo della responsabilità

Finalmente venerdì sera scorso sono riuscito ad andare a vedere, al cinema estivo, “Io capitano“, il film di Matteo Garrone. La storia, le storie, assurde e tormentate di questi esseri umani – che dovremmo considerare in quanto tali, nostri fratelli – le conosciamo. Le conosciamo non da ieri, ma da un bel po’, anche se le abbiamo dimenticate o meglio: lasciate collettivamente a prendere polvere nei recessi più remoti delle nostre coscienze. Qui mi fermo per evitare di sembrare (o essere) retorico – cosa nella quale è facile cadere quando si trattano questi argomenti.

Locandina del film

La locandina del film

Però il film è importante. Ed è importante perché intanto toglie un po’ di quella polvere e ci fa vedere quello che solo nella stragrande maggioranza dei casi possiamo immaginare per averne letto qualche reportage (o meglio: quelli che di noi hanno coltivato questa sensibilità magari hanno fatto). Il film è importante perché inscena le reali odissee di generazioni anche di giovanissimi (i protagonisti del film hanno 16 anni) che tentano miglior sorte, per sé e la propria famiglia. La parola “odissea” non è scelta a caso: secondo me la narrazione cinematografica si fa a tratti epica: all’anabasi interna al continente africano, in cui chi decide di intraprendere il viaggio deve resistere a prove psichiche e fisiche letteralmente infernali, segue il percorso opposto che dall’interno conduce verso nord, verso l’ultima – anzi la penultima – forca caudina: la Libia… (l’ultima, prima dell’accesso nella “Fortezza Europa”, è costituita dalle placide, ma al contempo insidiosissime, acque del Mediterraneo). Solo lì, dove il film si conclude, c’è il punto di congiunzione tra le cronache che distrattamente vediamo e ascoltiamo e la fine di quella storia che il film ha il merito di mettere in luce a partire da dove ha origine.

Il protagonista Seydou Sarr diventa – dopo le mille rocambolesche peripezie del caso e l’inquietante scorcio sui centri di detenzione (vere e proprie prigioni) libici – realmente il capitano di una di queste bagnarole. Costretto dalle contingenze (ormai “il peggio è passato”, forse, e il cugino bisognoso di cure che paradossalmente sono più vicine di là dal mare che non in Libia…), nonostante tenti di ribellarsi ai trafficanti che lo sottopongono a quel carico di responsabilità, alla fine di un corso accelerato di 10 minuti – in cui gli spiegano come usare la manetta dell’acceleratore e la leva di fianco di “avanti” e “indietro”, mantenendo il timone in direzione nord, segnato dalla bussola di bordo – queste responsabilità se le assume, per sé, per il cugino, per tutti coloro (come sempre: tanti e oltre ogni immaginabile capienza) che saliranno sull’imbarcazione. E, viene da aggiungere, il ragazzo ha spalle talmente capaci, nella sua gioventù, nella sua incoscienza, da assumersi implicitamente anche le responsabilità di tutti coloro che, a partire dalla politica, scendendo fino all’ultimo dei trafficanti, questo gioco lo permettono (e ne sono i veri responsabili).

Guardando le ultime scene del film non ho potuto non pensare che la prima telefonata di SOS, inoltrata alla guardia costiera maltese (buoni quelli!) – visto che in quelle acque territoriali si trovavano – avesse come esito, non la fine dell’odissea, ma solo la penultima tappa: i maltesi se ne fregano e quelli stanno lì a giornate ad aspettare che qualcuno gli presti soccorso. Ma il ragazzo è pronto di spirito: ha giurato a se stesso che nessuno sarebbe morto per causa sua e capisce che questi non arriveranno mai. Allora decide di continuare – la “benevola” finzione cinematografica fa sì che il carburante non finisca, cosa che invece nella realtà spesso succede – fino a quando non approda alle acque territoriali italiane. Non sappiamo quale sia il periodo in cui la pellicola è ambientata, ma non dimentichiamo che, fuori dalla finzione cinematografica, abbiamo avuto un bell’intervallo il cui titolare del nostro ministero dell’interno (le maiuscole e le minuscole in questo caso indicano la variabilità: come in ogni sottoinsieme arbitrariamente deciso, c’è chi alza la media e chi l’abbassa…) è stato Matteo Salvini. Salvini di cui leggevo, in un recente libro (La lingua della neopolitica) non sa neppure cosa significhi il termine frugale (in relazione a quei Paesi nordeuropei – Austria, Svezia, Danimarca e Paesi Bassi – che sono a favore di un rigore fiscale senza deroghe):

L’aggettivo è stato anche sostantivizzato, come ha fatto Matteo Salvini in un tweet del 19 luglio: «Ma che ne sanno i “frugali”? Mozzarella e panzerotti pugliesi, olio buono, frutti di una terra stupenda che tutto il mondo ci invidia. Orgoglio italiano, sempre!» (op. cit., p. 123)

Di certo con l’orgoglione (pardon: orgoglioso) Salvini al comando, la cui demagogia va oltre il professionismo, la paradigmatica storia di Seydou Sarr e dei suoi sodali possiamo immaginare non avrebbe avuto un lieto fine.

Consolante che l’arena fosse gremita. Segno che questo è un tema da cui le persone sono (ancora) toccate. Per altro l’emigrazione africana è in qualche modo un “classico” che non esclude altre migrazioni dall’Est del mondo – afgani, pakistani, curdi, bengalesi… tutta un’umanità che fugge da condizioni sempre più proibitive.

Il ruolo sociale dei meccanici (delle motociclette)

Personalmente ho una lunga storia con i mezzi a due ruote, come molti che, a latitudini che lo permettono, hanno cominciato preso ad armeggiare con motorini, vespe, scooter, ecc. Scrivo “armeggiare” perché di solito, almeno nella zona da cui provengo, il “motorino” non era un semplice strumento di cui si disponeva, che si usava, ma un oggetto con il quale interagire, quasi, in certi casi, da “riprogettare”. Il “clima favorevole” non era solo quello atmosferico, ma anche quello sociale: a una sessantina di km da dove abitavo da ragazzino c’è Pontedera, storica sede della più importante azienda italiana produttrice di scooter di tutti i tipi, la Piaggio, primo tra tutti la osannata e universalmente nota “vespa”. Il clima favorevole era dettato anche dal “livello di accesso” di questi mezzi: poco costosi, estremamente semplici nella loro realizzazione, era quanto di meglio si potesse immaginare – anche per, chiamiamole così, le “personalizzazioni”.

Ebbene sì: sono stato tra quelli che hanno avuto il motorino (rigorosamente “Ciao”) truccato. Acquistai una “elaborazione Polini” e trasformai quell’innocente “bicicletta col motore” (o poco di più, soprattutto con gli occhi di oggi), in un oggetto piuttosto bizzarro e… rumoroso (se devo pensare a quanto sono invecchiato e a qual è la misura di questo invecchiamento, è quanto maledico i moderni scooter con marmitte che non perdono occasione per violentare i timpani altrui – perché alla fine io cosa facevo, se non quello?). Non entro nei dettagli: sarebbe inutile e sono comunque parte di una storia personale che poco interessa. Mi interessa invece l’aspetto che accompagnava questa “esigenza”: passare ore a socializzare – tra ragazzi e col meccanico, che nel mio caso si chiamava semplicemente Pino (diminutivo quasi sicuro di Giuseppe).

Pino aveva l’officina (veramente un fondo che sembrava poco più che un antro del drago: buio, quindi costantemente illuminato da luce artificiale, con il classico bancone degli attrezzi e… con un gran casino) a meno di 50 metri da casa mia. Capite che era impossibile non passare mezze giornate sane (o anche intere) da Pino, a rompergli le scatole mentre lui lavorava. Un bravo ragazzo, mi viene da dire più cosciente del suo ruolo sociale di quanto desse a vedere.

A un certo punto, forse un certo giorno – data la rapidità con cui la cosa avvenne – Pino chiuse e noi diventammo adulti. Trovò lavoro come meccanico, sempre delle motociclette, per una concessionaria – Kawasaki, se non ricordo male. Ma è come se davvero la cosa fosse accaduta di colpo. Una delle tante stagioni della vita – ed era comunque una stagione importante – si chiudeva. Il “Ciao” me lo rubarono a Marina di Massa, poco prima o poco dopo questo evento luttuoso, quasi a sancire la definitiva fine di quel periodo. Non un grande acquisto per i rapinatori che, sono convinto, devono essersi mezzi ammazzati dopo la seconda curva: le vibrazioni che avevano sollecitato il telaio non progettato per sopportarle, stavano facendo il loro lavoro e il telaio si stava crepando. Solo da un lato però, con il risultato che le curve da un lato erano “normali”, mentre dall’altro, beh, metà motorino si piegava e l’altra rimaneva dov’era. Insomma, bisognava saperlo, come bisognava sapere che il freno davanti era inesistente… Non credo se la siano passata bene, ma tant’è: il motorino a quel punto, dopo anni gloriosi di servizio, non c’era più.

Iniziò la stagione delle “vespe” sulle quali però non misi mano: era cresciuto e basta esperimenti. Il rapporto con i meccanici per anni delle due ruote si fece asettico come quello delle auto da portare a tagliandare: ormai sembra d’essere a un centro convegni anziché in un autosalone e tutta la gentilezza e la cordialità sa di estremamente finto, basato solo sulla capienza del tuo portafoglio.

Questo è coinciso con le mie parentesi piemontesi e forse nell’elenco delle cose favorevoli al ruolo sociale che i meccanici delle due ruote hanno nelle vite dei loro clienti, c’è da indicare anche la geografia, perché quando nel 2011 tornai a Pisa ed ero orfano di un meccanico che mi seguisse la vespa, un collega mi indicò un’officina che mi ha ricordato mutatis mutandis quella di Pino – come “attitudine”: piccolo paesino, grande competenza, anche se questa officina è anche visivamente molto meglio… Allora non dico che i clienti diventano amici perché non è così. Ma il rapporto si fa decisamente più personale. Ci si racconta. Perché raccontare “cosa è successo” a un mezzo, perché si è lì a ripararlo o altro, alla fine significa raccontare di se stessi. Parliamo di una piccola officinetta “autorizzata” Piaggio, ma indipendente. Ci sta che le cose vadano così. Soprattutto dopo anni di frequentazione. Ma quando poi la stessa dinamica avviene presso il concessionario ufficiale Honda di Lucca (perché i mezzi a due ruote abbondano, nonostante i trascorsi…) allora capisci che è un insieme di cose a creare questa fortunata coincidenza.

Ieri avevo appuntamento per la sostituzione dei paraoli della forca anteriore della VFR: una vecchietta in ottima forma, ma che, come tutti, ha qualche acciacco dovuto all’età da sistemare. Ieri l’abbiamo sistemato. Mi ero portato da leggere: la lavorazione avrebbe richiesto almeno un paio di ore e di andare a passeggio della pur sempre meravigliosa Lucca con 30 gradi anche alle 7 di sera non ne avevo gran voglia. Mi sarei messo in sala d’attesa al fresco e amen. Invece sono rimasto in officina. Ho chiacchierato con Fabio, mentre lo vedevo operare sugli ammortizzatori della moto con grande perizia. Quel che si dice appunto il ruolo sociale dei meccanici dei mezzi a due ruote.

Non mi arrendo, una vecchia storia

La storia di Hiroo Onoda è molto nota, anzi: notissima. Quest’anno sono i 50 anni da quando si arrese, dopo averne passati 30 nel folto della giungla di un’isola delle Filippine, Lubang, nella incrollabile convinzione che la seconda guerra mondiale non fosse ancora finita e, soprattutto, che l’Impero giapponese non si sarebbe mai arreso, anche in caso di sconfitta, preferendo la morte, il suicidio collettivo di massa.

Onoda nel 1944 (fonte: Wikipedia)

Onoda nel 1944 (fonte: Wikipedia)

Quest’anno ricorrono anche i 10 anni dalla morte di Onoda e io ho appena finito di leggere la sua autobiografia di guerrigliero dell’esercito giapponese, Non mi arrendo, pubblicata da Mondadori nel 1975, un anno dopo il suo ritorno al “mondo civilizzato”. Sgomberiamo subito il campo da equivoci: in questa autobiografia Onoda mitiga – pare: anche molto – gli episodi di cui lui e il suo “commando” si sono resi protagonisti: saccheggi, minacce, piccole (o grandi, dipende sempre dai punti di vista) estorsioni, dice lui, sempre ai fini della sopravvivenza. A lungo, per quasi tutti i 30 anni di lotta, ha considerato gli abitanti dell’isola alla stregua di nemici. I suoi compagni sono stati via via uccisi (l’ultimo, Kozuka, nel 1972, un paio d’anni prima della sua resa) ma nella stessa biografia, nelle ultime pagine, arriva a dire che se lo avessero ucciso, lo avrebbe meritato. Insomma, verso l’intera vicenda e il personaggio non si può che avere – soprattutto a distanza di così tanti anni – un sentimento ambivalente: da un lato la follia della guerra che si coniuga a codici d’onore e a comportamenti che a noi occidentali sembrano totalmente fuori misura (l’estrema fedeltà a un’idea, o a un ordine militare ricevuto decenni prima; il culto della morte e della “buona morte”, quella in battaglia, per la quale venire osannati come semidivinità e cose così, del tutto aliene al nostro codice di valori – soprattutto a quello attuale). Poi l’idea di sopportare una vita indicibile per un trentennio – di cui Onoda ci mette a parte nelle sue pagine – abituandosi, adattando e disciplinando corpo e mente a quel cammino in tondo, all’interno dell’isola, lungo 30 anni esatti. Quindi da un lato verrebbe quasi da ridere, oggi e oggi penseremmo alla follia di un invasato, ma poi arriva anche il sentimento di grande rispetto per costui che di fatto ha rinunciato alla sua vita per tener fede a quell’ordine. E ha interpretato più o meno scientemente, ma sempre con questa idea di fedeltà e lealtà, tutta la realtà circostante, immaginando come falsi e come “propaganda” tutti i volantini, i giornali, financo le trasmissioni radiofoniche che a un certo punto della storia riesce ad ascoltare grazie a una radio trafugata. Insomma: tutte le comunicazioni che lo sparuto gruppetto riceveva da queste “squadre di ricerca” (composte anche da familiari stretti che inizialmente lui scambiò per controfigure!) erano un sotterfugio per indurli alla resa, ma poiché la guerra stava continuando, inizialmente loro e poi lui solo non si sarebbe(ro) mai potuti arrendere. Se ci si pensa la cosa ha dell’incredibile, eppure è successa e molto ci dice sul “carattere nipponico” e sui motivi che indussero le forze alleate a sganciare le atomiche sul Giappone: fu, paradossalmente, un modo per salvare vite. Un modo brutale per indurre una resa che forse non sarebbe avvenuta altrimenti, data la granitica caparbietà di quel popolo, di quelle persone. E se fosse avvenuta, la si avrebbe avuta a un prezzo ancora più alto di vittime e magari ancora dopo lunghi anni di guerra guerreggiata. Il mondo intero non ne poteva più: dopo 6 anni di conflitto le stime ci dicono oggi che ci sono stati tra i 60 e i 68 milioni di morti. Ma tra questi non vi fu Onoda che, insieme ad altri (lui è forse il caso più celebre, ma non certo l’unico), tenne duro e sopravvisse fino ad arrivare a oggi. Chiudo con qualche spunto di lettura. Oltre al già citato libro (introvabile, se non in biblioteca), vale la pena vedere:

Brutti monumenti per “Monumenti brutti”

Si sa, il Natale è un momento un po’ così: si va dai parenti, ma è anche – e per fortuna sempre – un momento di vacanza e, nel senso quasi etimogico del termine, ogni tanto si “vaga” per la città. Ma il vagare di questa mattina, complice (sempre) il troppo cibo, aveva anche un preciso scopo che consiste nell’alimentare il gruppo Facebook realizzato dall’amico Pietro Cambi dal programmatico titolo “Monumenti brutti“.

Mi sono sempre ripromesso di dare il contributo non banale che la cittadina da cui provengo può offrire in tal senso. Un contributo capitalizzato in anni di bruttezza, i cui primi “sintomi” risalgono a molti anni fa (certe “vocazioni” si vedono in filigrana…) e allora mi sono fatto un tour e semplicemente mi sono limitato a scattare qualche immagine di tali trionfi.

Si parte, arbitrariamente, dalla Piazzetta del Mercato, in cui a distanza di pochi metri l’una dall’altra si trovano questi due pezzi incomparabili (in tutti i sensi):

immagine della scultura

“Anubi” di Novello Finotti

che merita anche una visione “di profilo”:

immagine della scultura

“Anubi” di Novello Finotti, vista di profilo

Credo che il nome popolare di questa statua sia “Alien” o qualcosa del genere… Però, dicevamo, a breve distanza abbiamo non una scultura, ma una fontana dedicata ad Afrodite, nella personale interpretazione dell’artista Vito Tongiani:

immagine della fontana

Il “Trionfo di Afrodite” di Vito Tongiani

Ecco, anche su questa non commento perché… non sono un critico d’arte, diciamo così. Quando ero ragazzino però era in voga il detto «impara l’arte e mettila da parte», ovviamente l’arte era quella di imparare a far qualcosa (magari di manuale – quanto ce ne sarebbe bisogno!) e “conservare” questa sapienza nel caso in cui un giorno servisse, ma ovviamente il motto cascava a fagiolo interpretando l’arte nel senso più proprio del termine (scultura, pittura ecc.) per, appunto, metterla da parte. E in effetti forse qualche amministratore cittadino deve aver pensato un po’ questa stessa cosa, se “Anubi” (per gli amici “Alien”) e “Afrodite” (per gli amici “Shiva danzante”) sono state messe in questa piazzettina defilata del centro storico… Ma non è necessario fare molti passi per arrivare all’opera antesignana di tutto ciò, “costruita” (le virgolette sono d’obbligo e guardando si capirà il perché) negli anni ’80 del secolo scorso (ah, che anni, gli ’80!), per commemorare la Resistenza, anche se più che un monumento alla Resistenza sembra un insulto:

immagine della scultura

“Bella ciao”, monumento alla Resistenza di Pietro Cascella

Il monumento è da sempre noto alla cittadinanza come “il carciofo”. Ma è bene esplicitare quello che il lettore vagamente intuisce: non si tratta solo dei singoli monumenti che, pur brutti, potrebbero essere “centellinati” sul territorio (un po’ di brutto qua, un po’ di brutto là…), ma quel che dà il maggiore sconforto è la concentrazione dei medesimi nell’arco di poche centinaia di metri quadrati. Perché adesso vicino al “carciofo” ci hanno messo anche “il culturista”…

immagine della scultura

“Il culturista” – si suppone sia un monumento al cavatore, ma non ne abbiamo la certezza e non sappiamo neppure chi ne è l’autore. Da notare che sulla sinistra compare un pezzo del “carciofo”.

Su Google Maps la statua la li può vedere anche da dietro, in modo da mettere in evidenza anche l’orribile struttura che costituisce gli uffici del Comune della città, edificata, credo, nei meravigliosi anni ’60, con questo bell’effetto fisarmonica…

panoramica statua e comune della città

Una panoramica del “culturista” visto da dietro e dell’edificio del Comune della città. L’immagine è tratta da Google Maps.

Mi fermo qui. Ma solo perché la “chicca” – nel summenzionato fazzoletto di terra del centro cittadino – che campeggiava in Piazza Bastione, in realtà è stata spostata ormai diversi anni fa nel Parco della Rinchiostra. Si tratta di una statua dello scultore (sempre locale) Gigi Guadagnucci, detta “La lavandaia”. Nella sua versione “originale” (ovvero: appena inaugurata) dai seni della procace lavandaia zampillava acqua (era in effetti una fontana) e questo lo ricordo distintamente anch’io. Evidentemente però anche per i massesi quando è troppo è troppo e il monumento/scultura/fontana tra il porno-trash, il pessimo gusto (sempre vincitore) e qualcos’altro di indefinibile, è stata a più riprese oggetto di atti vandalici (soprattutto imbrattature). Qui di seguito due articoli, ancora online (corredati di foto della suddetta “lavandaia”, così vi fate un’idea…): il primo sulla testata online «Qui News Massa Carrara» risalente al 20 agosto 2016 e il secondo comparso in tempi più recenti (22 febbraio 2022) sulla testata online «Diari toscani» in cui si narrano un po’ di vicende e retroscena di questa brutta statua (di cui compare qui una rara immagine frontale), anch’essa ormai confinata in un parco a metà strada tra la città e la marina…

 

Una mostra per i 40 anni dalla nascita dei CCCP

Avrei voluto scrivere nel titolo: «per la nascita, la dissoluzione, la trasformazione» dei CCCP. Insomma: panta rei, tutto scorre, e nulla è immutevole, nonostante la “potenza del pesante” che trasuda dagli stilemi e dalla grafica di quella (ex) Unione Sovietica di cui molti hanno subito, pur tardivamente, il fascino.

D’altra parte nel secondo dopoguerra abbiamo avuto il Partito Comunista più forte (come rappresentanza e forse anche in assoluto) dei Paesi occidentali e, ancor prima, durante la guerra di resistenza, i “rossi” erano tra gli schieramenti più nutriti. Ma questo discorso ci porterebbe lontano da quello che qui vorrei – per quanto possibile: brevemente – raccontare.

Un racconto per il quale l’altro giorno ho deciso unilateralmente di lasciare tutto (lavoro, famiglia, Lu::Ce edizioni, ASPO Italia) e prendermi il tempo per andare a vedere questa mostra annunciatami da un paio di amici, visitabile fino all’11 febbraio 2024, in una delle sedi dello splendido Palazzo Magnani (gli altrettanto notevoli Chiostri di San Pietro) in una delle gemme dell’Emilia, Reggio.

Dunque: i CCCP – Fedeli alla linea. Nascono come gruppo musicale punk-rock (Wikipedia dice nel 1982, anziché 1984 – ma alla fine poco importa, visto che «la vita umana non dura che un istante», come recita uno dei “manifesti” appesi alla mostra…). Nel 1984 avevo 14 anni e NON ascoltavo i CCCP, che però ho ascoltato un po’ dopo. Oddio: “ascoltato” è una parola grossa, visto che erano sostanzialmente inascoltabili (o almeno: lo erano per me all’epoca e hanno poi continuato a esserlo). Sonorità fatte per scrollare dal torpore, soliloqui/sproloqui borderline del frontman Giovanni Lindo Ferretti, ma forse non capivo o non capivo abbastanza. Perché alla fine, un po’ come per i libri che si leggono, le canzoni e lo stile musicale è “figlio” del suo tempo – “stile” che entra in consonanza con il tuo sentire di quel momento, con quello che provi. Cose belle, sembrano brutte dopo pochi anni e viceversa. Insomma: di nuovo panta rei, tutto scorre. Una canzone è una foto sonora di un “momento” e di un momento all’interno di uno “stile” e noi possiamo trovare interessante quel momento e quello stile (in quel momento o in altri successivi), anche se noi scorriamo sostanzialmente sempre. Sia come sia: le cose si (ri)valutano (anche) a posteriori e questa era una di quelle da rivalutare. La valutazione di un percorso alternativo, dell’affrontare la vita con un altro cipiglio, quello dell’irriverenza, con il rischio di essere condannati all’irrilevanza.

Così non è stato. I CCCP – certo erano altri tempi – qualche comparsata l’hanno fatta anche sulle TV nazionali e, oltre che sulla RAI, anche su Canale 5, con un Ferretti ancora giovane e capelluto, con una cresta che sfidava il cielo… fino a toccare “l’apoteosi” della “celebrità mainstream” con Amanda Lear – il tutto ben documentato nella mostra. Ma così non è stato per la qualità di almeno due delle colonne portanti del gruppo: lo stesso Ferretti e, per la chitarra, Massimo Zamboni. Se il “vino è buono” poi si sente e alla fine il giudizio, spesso severo, di ciò che resta e ciò che semplicemente cade nell’oblio, spetta al tempo.

volantino della mostra

Volantino della mostra

Così il tempo passa e dissoltosi ciò che sembrava indissolubile nei primissimi anni ’90 (l’Unione Sovietica diviene “ex” e dà luogo alla Comunità degli Stati Indipendenti – CSI) i CCCP, che continuano a essere fedeli alla linea, diventano CSI, Consorzio Suonatori Indipendenti. E, per quel poco che mi riguarda (ma io conto per me), “il bruco diventa farfalla”: le sonorità, che pure sempre da quel mondo rock-punk arrivano, si smussano, lasciano spazio al virtuosismo degli strumenti e della voce di Ferretti, che smette i ritmi concitati e sincopati del punk più intransigente in favore di testi e musiche di grandissima poesia (sempre opinione personale). Allora ciò che fino al giorno prima era simbolo di una realtà – o dell’immagine di quella realtà proiettata di qua dalla Cortina di Ferro – con tutto il suo portato di retorica e di “stile sovietico”, diventa, il giorno dopo, poco più che nostalgica paccottiglia. Paccottiglia centellinata negli spazi piuttosto grandi, quelli del Chiostro di San Pietro, con grande parsimonia – chissà, forse certe cimeli con le scritte CCCP adesso potrebbero avere anche un valore. In mezzo al chiostro: un pezzo originale del muro di Berlino, dei cavalli di Frisia e un simbolo, o forse “il” simbolo dell’ex DDR (o Repubblica Democratica Tedesca), di quel “sovietismo” così vicino a (e così lontano da) noi, appena oltre il confine: la Trabant (un esemplare per altro in ottima forma, station wagon…).

C’è poi, sotto traccia, tutta l’evoluzione hegeliana di Ferretti, che si spreca in tesi (il comunismo, la “fedeltà alla linea” come “antidoto” – come dargli torto, in quei tempi? – alla “balena bianca” della DC imperante in un’Italietta con cittadini al di sopra di ogni sospetto, con le logge massoniche, che faticava a uscire dal bozzolo – ma ci è mai veramente uscita? – sempre in bilico, tra “cattolico decoro / a modo e per bene”, moti rivoluzionari e molto molto molto altro), antitesi (il cattolicesimo osservante e piuttosto ortodosso) e una sintesi – che francamente non mi è chiara, ma che si riassume nella giustapposizione tra contenuto (la mostra stessa) e contenitore (i chiostri di San Pietro che, in quanto santo, lascia supporre l’origine ecclesiastica di tutto il complesso…). Il tutto in una ancora più grande, se possibile, contraddizione, che però è del tutto radicata e connaturata al nostro tempo: Reggio Emilia.

Una città bella (ma dell’Emilia Romagna io sono segretamente innamorato, forse perché proprio da quelle parti ho avuto i miei primi amori ragazzini…), in gran spolvero (poi sotto Natale, quale città non lo è?), dove, a giudicare dal tasso di automobili di lusso e dalle gioiellerie, si immagina una grande, se non grandissima, ricchezza (economica), al punto che si fatica a immaginarla “popolare”, sebbene uno dei cartelli, sempre della mostra, la citi come la città più “filosovietica” della già “filosovietica” Emilia. Non mi stupisco in Occidente quanto mi sono stupito in Oriente: l’unica volta in cui passai da Mosca, nella lontana estate del 2005, una gigantesca gigantografia (quindi una sorta di “gigantesco al quadrato”) della Rolex – simbolo per antonomasia del lusso occidentale, tutto sommato abbastanza inutile (stiamo parlando comunque di un orologio, per altro nemmeno tra i più precisi, che alla fine ci dice che ore sono…) – campeggiava sulla Piazza Rossa a dirci, se mai ce ne fosse il bisogno, che il comunismo era finito anche lì da un po’. Insomma: è un po’ la vecchia storia della Volkswagen, letteralmente “l’auto per il popolo”. Magari una volta: adesso, se vuoi comprarti non una Passat, ma anche solo una Golf o una Polo vediamo subito a che fetta di popolo ci stiamo riferendo.

Chiudo: i CCCP sono (stati) certamente importanti, per quel che mi riguarda per l’irriverenza e anche, perché no, una certa goliardia nel prendere per i fondelli il nostro modo di vivere, quello di tutti noi “borghesi” (fatti, finiti o aspiranti tali), con tutte le nostre convenzioni, con i nostri convincimenti, con le nostre, alla fine, “piccole vite”, poco coraggiosi non solo a provarne delle altre – mentre almeno un po’ questi musicisti e altri ancora, come “Dome La Muerte” che ho avuto il piacere di conoscere, questa prova almeno l’hanno fatta – ma anche solo a immaginarle (parlo sempre per me).

Almeno mio padre, che ha fatto l’operaio tutta la vita, ma metà di quella stessa vita l’ha giocata a pallone, quando “era ora” giocò con le maglie che si fecero fare apposta: rosso (che più non posso), falce e martello sul cuore e la scritta CCCP. Una foto li ritrae in formazione (devo cercarla accidenti a me, sono sicuro che è conservarta in qualche cassetto di casa dei miei). Abitavamo a Pinerolo e la scritta erano le iniziali dello sponsor calcistico: Caffè Club Centrale Pinerolo, CCCP. Tra il serio e il faceto almeno ci si provava e mio padre portava dei baffi alla Frank Zappa.

Ma i CCCP per me sono stati importanti proprio perché sono diventati CSI e poi, in una certa misura, quando ancora si sono trasformati in PGR. L’importanza è la misura di quanto ci si riconosce in quei testi e quelle musiche o, ancora, in quanto si è “distanti” nel proprio modo di vivere da tutto ciò. Non mi si fraintenda: non voglio vedere nel gruppo in generale e in Ferretti in particolare un “guru” (la tentazione in molti è forte…), ma senz’altro hanno detto e hanno continuato a dire per molti anni cose interessanti, a proporre testi e visioni della realtà che mi sono sentito, in molti casi, di sottoscrivere.

Chiudo (davvero stavolta) con un esempio: stiamo terminando un 2023 all’insegna di un paio di guerre che hanno affollato le nostre “notizie di cronaca”. Proprio Ultime notizie di cronaca si intitolava un album dei PGR del 2009, quindi ormai quasi un quindicennio fa. In quell’album una canzone, tra le altre, che mette insieme un po’ dei “temi” delle nostre vite e del nostro modo di vivere. Si può ascoltare su YouTube a questo link, (ancora una volta trovo le sonorità molto “azzeccate”…) mentre il testo lo riporto qui di seguito:

Boom economici risorse energetiche
guai finanziari spot pubblicitari
high-tech bio-tech igiene genetica
bolle fondi sovrani

nel sol dell’Avvenire che avviene
nel sol dell’Avvenire che è

l’uomo s’assottiglia dimensione catodica
immagine dislocabile monodimensionale

porno-maniacale reality e virtuale

già consumatore l’uomo si vuole clone
una merce qualsiasi lo era da schiavo
lo sarà da padrone
armate schierate ambo i lati del fronte
così che il fuoco amico è tanto il primo che l’ultimo

tecnologie obsolete congegni scaduti scorie rifiuti
a tessere l’ordito d’un sudario calvario

novantanove guerre nel sol dell’Avvenire novantanove
novantanove e una come nessuna

mai dire mai col senno di poi

la carne s’è fatta vendetta il corpo è la bomba perfetta
pacco esplosivo sigillato in provetta
bomba intelligente sporca asettica
il corpo è la bomba perfetta la carne s’è fatta vendetta