Talvolta per spiegare dei concetti sfuggenti, come questo, piuttosto impegnativo, su cosa sia l’immortalità, è necessario ricorrere a degli esempi.
A Carlo Verdone, non so in quale programma né quanto tempo fa, chiesero un po’ a bruciapelo: «ma per te Carlo, cos’è la vecchiaia?». Per il celebre attore, notoriamente affetto da ipocondria, mai domanda fu più azzeccata di questa. Allora, non avendo parole per definirla – anche perché, qui come altrove, sembra non esserci nulla di più soggettivo: c’è chi si sente “vecchio” a vent’anni e chi “giovane” a settanta, senza considerare che parliamo di un concetto che contempla un misto di condizione mentale e condizione fisica – la mimò.
Sì giro spalle al pubblico/alla telecamera seduto su una sedia e disse qualcosa del tipo: la gioventù è quella cosa per cui quando qualcuno, chiamandoti da dietro: «Mario!», in una frazione di secondo ti giri per vedere chi è (e fa il gesto rapido di voltare la testa verso il pubblico); la vecchiaia è quella condizione per la quale, di fronte allo stesso richiamo: «A Mario!», c’hai il collo talmente incriccato che ti ci vuole un quarto d’ora per compiere la stessa rotazione. Ecco, quella è la vecchiaia. Risate e applausi.
Cercherò quindi di mostrare con un esempio, magari non così ilare, ma forse capace di suscitare qualche sentimento nel lettore, cos’è l’immortalità e come la si raggiunga. Se si legge la biografia – anche quella breve che si trova su Wikipedia – di Antonio Vivaldi, si scopre che la sua vita «è scarsamente documentata, poiché prima del XX secolo nessun biografo si è mai occupato di ricostruirla. Numerose lacune e inesattezze falsano ancora la sua biografia; alcuni periodi della sua vita rimangono completamente oscuri, come i molti viaggi supposti, o realmente intrapresi, in Italia e in Europa. Si è fatto riferimento dunque alle rare testimonianze dirette dell’epoca, in particolare quelle di Charles de Brosses, di Carlo Goldoni e dell’architetto tedesco Johann Friedrich Armand von Uffenbach, che incontrarono il compositore. Altre notizie provengono da alcuni manoscritti e documenti di altra natura, ritrovati in diversi archivi in Italia e all’estero. Per dare due esempi concreti: è soltanto nel 1938 che si è potuta determinare con esattezza la data della sua morte, sull’atto ritrovato a Vienna, e nel 1963 quella della sua nascita, identificando il suo atto di battesimo (prima, l’anno di nascita, il 1678, era soltanto una stima dedotta dalle tappe conosciute della sua carriera ecclesiastica)».
Una condanna all’oblio in sostanza legata alla fisiologia del tempo che passa e su cui noi, singoli, tranne rarissime eccezioni, non lasciamo traccia (pur illudendoci costantemente di farlo). Un oblio da cui Vivaldi sembra salvarsi un po’ in extremis grazie alla meritoria opera di alcuni musicologi. Poco sopra infatto lo sketch biografico, recita: «Come per molti compositori barocchi, dopo la sua morte il suo nome e la sua musica caddero nell’oblio. Solo grazie alla ricerca di alcuni musicologi del XX secolo, come Arnold Schering, Marc Pincherle, Alberto Gentili e Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero, il suo nome e le sue opere tornarono celebri, diventando uno dei compositori più noti ed eseguiti».
Quindi Vivaldi è salvo, è parte della storia della musica mondiale, è conosciuto, ha pure qualche citazione pop un po’ provocatoria (ricordate una delle frasi di Bandiera bianca cantata da un giovanissimo Franco Battiato? «A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata / a Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie») ma… pur sempre rimane lì, nell’olimpo un po’ polveroso della musica classica.
Poi però succede che un giovane compositore tedesco (ah ‘sti crucchi quando incontrano gli italiani…) di cui invece sappiamo tutto, Max Richter, che se ne innamora e decide di “ricomporre” le sue Quattro stagioni per dar vita a qualcosa che personalmente ho trovato e trovo letteralmente folgorante, specialmente per la sua “intro”, Spring 1. Ecco l’immortalità è questa cosa qui: “sopravvivere” e poi sconfiggere il tempo, con un po’ di fortuna, la fortuna che ha voluto che la propria opera fosse riscoperta nel secolo scorso e che incrociasse, in questo secolo, qualcuno che se ne innamorasse, dando vita a una rivisitazione che parla alle nostre anime, così che quegli archi le facciano vibrare, almeno un po’, sulle note di quell’ignoto sacerdote del ‘600 il cui dato biografico scompare nelle nebbie del tempo.