Il miracolo di Valby

La premessa è: ci sono questioni che ci rimangono appiccicate addosso. Magari, come in questo caso, si tratta di dettagli e magari dettagli legati alle contingenze. Va bene esplicito meglio: le contingenze sono quelle che tutti noi abbiamo provato almeno una volta, quelle della malattia – non grave: influenza, febbre, magari in quella fase di miglioramento in cui si è ancora giustificati nello stare a casa in pigiama, ma ormai è andata, non si sta più male e si tratta solo di aspettare un altro po’ per ributtarsi nel mondo. Malattia che ci giustifica – proprio come a scuola – e ci dispensa dalle “questioni del mondo” perché ancora siamo ragazzi e la nostra presenza, se mai un giorno lo sarà, in quel momento non è determinante in nessuna circostanza.

Quindi: ero malato. Diciannovenne, ventenne, non ricordo, ma non è importante. Importante è che stando a casa potevo godermi il mio pomeriggio da convalescente e feci una cosa che non facevo mai (e meno che mai di pomeriggio): accesi la tv, “zappando” (facendo cioè zapping). Mi imbattei nelle scene di un film appena iniziato (ancora scorrevano i titoli di testa) e decisi di dargli una possibilità. La storia era intrigante perché in primo luogo riguardava quel filone “immenso” che sono i viaggi nel tempo che, almeno a partire da H. G. Wells in poi (La macchina del tempo), intriga molti di noi (alcuni per niente, ma non tutti abbiamo gli stessi gusti…) e, in secondo luogo, aveva a che fare non propriamente con la fantascienza in senso stretto, ma con una realtà normale, che di colpo, nella finzione cinematografica, ci proietta nell’inatteso, nell’evento imponederabile che fa essere il/i protagonista/i altrove nel tempo (ma non nello spazio, perché il salto è solo temporale).

Queste le contingenze. Quindi passo al dettaglio, uno solo: ho cercato a momenti alterni, per anni, di rintracciare almeno il titolo di quel film, almeno una traccia. Non l’ho fatto sistematicamente, ma nei momenti in cui i ricordi, a tratti un po’ struggenti (magari dovuti ai postumi della malattia), di quel film “perso” si sono fatti più acuti. Questo è di nuovo uno di quei periodi e del film non sapevo nulla (regista, protagonisti) ma ricordavo che era una produzione “nordica” (sì ma: norvegese? danese? svedese?…) e soprattutto ricordavo che la macchina del tempo era costituita da una roulotte abbandonata in un campo, dentro la quale il protagonista stava in contatto col padre via radio, durante le lunghe assenze di quest’ultimo, imbarcato come ufficiale telegrafista su una nave della Marina. Poteva essere sufficiente?

Stamattina ho riprovato e… ci sono riuscito. Non era possibile che non trovassi più nulla di questo film! E infatti mettendo sul motore di ricerca per eccellenza (Google) “macchina del tempo/time machine roulotte film” ho addirittura trovato una voce Wikipedia in italiano che ne parla, questa, segno che il film, lungi dall’essere un “B movie” e quindi caduto nel dimenticatoio della messa in onda sulla tv pubblica italiana in un’unica occasione di un giorno X di un anno Y, ha un certo valore (sulla voce Wikipedia sono indicati anche alcuni premi – magari piccoli – che la pellicola ha vinto).

Insomma: una piccola soddisfazione (bastava forse cercare nel modo giusto…), a cui come prossimo passo sarebbe da aggiungere la possibilità di recuperare il film, ma dove? Sul web non ve n’è traccia e davvero in questo caso non saprei da che parte cominciare. Intanto per oggi, dopo anni, mi accontento di essermi levato il periodico assillo e la periodica nostalgia per qualcosa che era andata persa nei meandri della giovinezza e di un tempo definitivamente passato, per tacere della possibilità di ogni “macchina del tempo” presunta o reale.

La trama, che tanto mi intrigò in quel pomeriggio di moltissimi anni fa, adesso, raccontata su Wikipedia, mi pare anche un po’ “sempliciotta”, ma forse alla fine quello è un film per ragazzi, visto che protagonisti sono dei ragazzi che nel tempo fanno avanti e indietro.

Ah: sul web ho ritrovato anche la locandina…

locandina del film "Il miracolo di Valby"

Locandina del film “Il miracolo di Valby”

 

Die Zeit

La macchina del tempo pubblicata in "Amazing Stories"

“La macchina del tempo” di H. G. Wells, pubblicata in «Amazing Stories»


Sempre in omaggio alle divagazioni nei tempi della quarantena posso dire che uno dei poli di attrazione – e di divagazione, appunto – di questo lungo periodo è stato il tempo, anzi: il Tempo, die Zeit, in omaggio all’ebreo tedesco, Albert Einstein, che ne riscrisse le leggi.
Complice la visione nel periodo prenatalizio – una premonizione per quel che sarebbe accaduto appena dopo? – del (bel) film Interstellar, il cui consulente scientifico principale, lo ricordo, è stato Kip Thorne, Nobel per la Fisica nel 2017 e l’altrettanto bel libro, letto sempre nel periodo natalizio, Viaggiare nello spaziotempo (di cui è autore), pubblicato da Bompiani.
Il libro prende a pretesto il backstage del film per descrivere un po’ di teoria fisica (teorica) da Einstein in poi. La gravitazione è uno degli elementi centrali, perché grazie ad essa lo scienziato più famoso del mondo ha “capito” per primo come stavano le cose, immaginando quella che sarebbe poi diventata l’efficace vulgata delle 4 dimensioni (3 spaziali e una temporale) connesse come una trama, letteralmente come un lenzuolo, normalmente teso, ma che “curva” e “piega” in presenza di masse gravitazionali – anche non enormi, come la Terra (ma ci tornerò). Effetto visibile e notissimo agli astronomi sotto il nome di lente gravitazionale: ci si aspetta che un oggetto sia in un punto nella volta celeste e invece lo si trova poco più in là o poco più in qua perché i fotoni che arrivano dentro al telescopio e poi ai nostri occhi non sono riusciti a compiere un viaggio in linea retta, ma hanno subito una deflessione a seguito delle masse che hanno incontrato nel loro percorso. Ecco perché scoprire la particella di Higgs, quella che conferisce massa alle cose che stanno intorno a noi, è stato così importante; ecco perché il Cern è così importante (in realtà non lo è solo per questo) ecco perché mi piacerebbe possedere una copia di quella specie di bibbia della gravitazione, Gravitation (un longseller – pubblicato dal 1973 al 2017 – di cui uno degli autori è, guarda caso, proprio lo stesso Thorne) pur consapevole che si tratti di un testo da iniziati. Ma, religiosamente parlando, le bibbie, si sa, sono utili per avere il conforto di sapere che, qualora ve ne sia il bisogno, lì è contenuto il “codice” per capire come stanno le cose nella realtà. Uno di quei libri, nella sezione “Fisica”, da accostare alle Feyman lectures, altro tassello fondamentale (ma quelle sono riuscito a procurarmele nella versione italiana edita dalla benemerita Zanichelli). Poi vabbè, per diventare “iniziati” davvero bisognerebbe prendersi la una laurea in Fisica (magari teorica, in maniera da usare gli aguzzi strumenti della Matematica per capire meglio la Fisica…) ma il tutto richiederebbe una forza di volontà, un tempo, delle risorse mentali che, francamente, credo di non avere più… Magari nella prossima vita, chissà.
Tutto questo per dire che, mentre la Fisica appunto compiva passi memorabili per la comprensione del modo in cui stanno le cose (“A bella! Vatt’a vede’ le equazioni!”, diceva il cinico e iper-realista Don Pizzarro, interpretato dall’inossidabile Corrado Guzzanti…), le discipline umanistiche arrancavano e rimanevano irretite in questioni “ottocentesche”. Bergson con il suo “tempo soggettivo” era “indietro”, così come lo era la letteratura, che faticava a dare dignità a un genere emergente, quello della “scientification”, “scientificazione” solo dopo noto come “finzione scientifica”, “science fiction”, insomma, lo stesso H. G. Wells – considerato un antesignano e un “profeta” per aver scritto il suo romanzo La macchina del tempo 10 anni prima dell’enunciazione della Relatività ristretta – per tutta la vita mostrò di essere invece una specie di conservatore che guardava, per altro, con enorme sospetto ogni progresso tecnologico e scientifico, soprattutto per l’uso che l’uomo ne faceva.
Solo qualche anno dopo le cose cambiarono e la Filosofia si “mise al passo” cominciando a considerare seriamente la cosa. I viaggi nel tempo diventarono plausibili in linea teorica e certamente possibili in letteratura e successivamente nel cinema, mentre, al giorno d’oggi, noi tutti possiamo sperimentare – per quanto inconsapevolmente – l’effetto relativistico come costituente reale delle nostre azioni quotidiane, ogni volta che chiediamo aiuto al navigatore che abbiamo sul telefono cellulare per andare in un posto. La teoria di Einstein ovviamente fu testata ben prima della tecnologia che permette a ognuno di noi di non sbagliare la svolta a un incrocio: nel 1959 Bob Pound e Glen Rebca (o Rebka) sperimentarono – attraverso l’effetto Mössbauer – la velocità dello scorrere del tempo alla base di una torre dell’Università di Harvard (alta 22,3 metri) e quella alla sua sommità. L’esperimento vantava un’accuratezza straordinaria, ma necessaria per verificare la teoria, perché era in grado di rilevare differenze di 1,6 picosecondi, ovvero 1,6 x 10^-12 secondi. La differenza riscontrata nell’esperimento superava di 130 volte questa accuratezza ed era in totale accordo con quanto previsto da Einstein: il tempo scorre più lentamente alla base della torre, rispetto a quanto avvenga in cima, di 210 picosecondi al giorno. Capite da soli che se bastano 22 e spiccioli metri e un pianeta alla fine nemmeno troppo massivo come la Terra per riscontrare questo effetto, è facile immaginare cosa possa accadere quando abbiamo a che fare con stelle con masse di ordini di grandezza superiori alla Terra e distanze di km, fino ad arrivare ai… buchi neri che sono le vere macchine del tempo plausibili (in linea teorica). Aumentando la distanza dal pianeta infatti aumenta l’effetto: Vessot nel 1976 fece posizionare su un satellite della Nasa un orologio atomico e, a 10mila km di distanza dalla Terra, osservò che sulla superficie del nostro pianeta il tempo scorre più lentamente di 30 microsecondi al giorno.
Sappiate quindi che, quando attivate il GPS del vostro smartphone, il segnale che dispositivo e satelliti (sono necessariamente più di uno e come minimo tre per sapere dove siete…) si scambiano compie un viaggio di 20mila km. Ogni segnale radio proveniente da un satellite visibile che comunica al nostro smartphone la posizione del satellite stesso e l’ora in cui il segnale è stato trasmesso. Il telefono misura l’orario di arrivo del segnale e lo confronta con quello della sua trasmissione, calcolando così la distanza da esso percorsa (ossia: la propria distanza dal satellite). Da questo segue che – conoscendo le posizioni e le distanze dei diversi satelliti – lo smartphone può ricavare tramite triangolazione la propria posizione. Il sistema però non funzionerebbe se gli orari di trasmissione dei segnali fossero quelli effettivamente misurati dai satelliti. A una distanza di 20mila km, infatti il tempo scorre più rapidamente rispetto alla Terra di 40 microsecondi al giorno e i satelliti devono quindi apportare le necessarie correzioni: misurano l’orario con i propri orologi ma, prima di trasmetterlo al nostro smartphone, lo correggono tenendo conto del rallentamento del tempo sulla Terra. In una parola (tedesca, usata da Einstein): Zeitdilatation, dilatazione del tempo (o anche dilatazione temporale gravitazionale). Non proprio un viaggio nel tempo, ma un assaggio di quel che è la sua legge.
Quindi se avete la precisione che avete sul vostro smartphone, quella che vi permette di non sbagliare la svolta, sappiate che Einstein e la sua teoria è con voi.
Curiosamente invece, tornando per un attimo alle discipline umanistiche, l’Antropologia Culturale ha custodito storie a dir poco interessanti e intriganti: secondo una certa visione noi non procediamo metafisicamente andando “in avanti” nel tempo ma esattamente nel verso opposto, visto che con gli occhi (della memoria) possiamo vedere il nostro passato – ciò che normalmente consideriamo come qualcosa che sta alle nostre spalle – mentre il futuro ci è ignoto e quindi non lo “vediamo”: da qui l’idea, suggestiva, di procedere all’indietro verso il futuro. Per i Romani la personificazione dell’Occasione aveva la nuca calva: incrociandola, la sua elusiva presenza si manifesta spesso all’improvviso, quando ormai è tardi – passandoci di fianco vorremmo afferrarla, magari per i capelli, ma avendo la nuca calva non è più possibile: occasione “mancata” o “persa” (nel senso metafisicamente “vero” del termine). Nel Mahābhārata, Kakudmi ascende al cielo, incontra Brahma e scopre, al suo ritorno, che sono passati secoli e che tutti quelli che conosceva sono morti.
Sorte identica tocca al pescatore giapponese Urashima Tarō mentre, per rimanere più vicini a noi, la mitologia greca ci racconta del Titano Crono che divora i suoi figli temendo di venire spodestato da uno di essi. L’atto cruento diviene quindi metafora di un Tempo che tutto divora e cambia.
Ancora, e per finire questa divagazione a cavallo tra scienza letteratura e altro ancora, un racconto che sembra preso di peso da un plot di Rod Serling e la sua immancabile sigaretta per Ai confini della realtà (di cui io però ricordo con grande nostalgia la seconda stagione, quella di quando ero adolescente): Max Beerbohm pubblica nel 1916 il racconto Enoch Soames (Enoch, ricordiamo incidentalmente, è un nome “importante”…). Questi è un uomo spento, curvo e dinoccolato, uno scrittore fallito della Londra degli anni ’90 del 1800. Come molti autori si preoccupa di come i posteri lo ricorderanno – se lo ricorderanno: il tempo è un “divoratore” che ha la caratteristica di essere impietoso – “tra cent’anni!”. Ebbene sulla scena compare niente meno che il diavolo fatto in persona che, ricalcando il più celebre tra i patti tra il signore del male e un essere umano, quello faustiano, offre i suoi servigi al passo con i tempi: «Il tempo è un’illusione – dice – passato e futuro sono presenti quanto il presente, o comunque sono quello che tu chiami “dietro l’angolo”. Ti posso spostare in ogni data». Il diavolo sembra aver letto La macchina del tempo di Wells e in uno schioccar di dita viene trasportato nel 1997, materializzandosi nella sala lettura del British Museum. Ovviamente, senza colpo ferire, va immediatamente allo schedario e nel catalogo cerca gli autori con la lettera “S” (quale modo migliore per verificare la propria reputazione letteraria?), ma lì viene a conoscenza del proprio destino: Enoch Soames, legge, è il personaggio immaginario di un racconto del 1916, scritto dallo scrittore satirico e caricaturista Max Beerbohm.
Niente male, no?
PS1: dimenticavo di dire che la metà delle narrazioni sui viaggi nel tempo, sempre ammesso che il patto implicito tra il lettore e il narratore della storia funzioni, non sono plausibili secondo la scienza: in particolare mi riferisco ai viaggi indietro nel tempo. Un po’ perché anche il più distratto dei lettori capisce subito che il rischio di incappare in paradossi, come quello del nonno o quello di incontrare se stesso – nonostante le “pezze” che si è cercato di metterci (come il principio di autoconsistenza di Novikov nella serie televisiva Dark, solo per citare uno degli ultimi esempi in ordine di tempo) – sono difficili da superare, un po’ perché altre branche della Fisica (come la Termodinamica) ci suggeriscono che il tempo abbia una sua “freccia” o direzione irreversibile e, in tempi più recenti, uno studio pubblicato su Scientific Reports ne offra ulteriore conferma. Insomma: “chi ha dato ha dato, chi ha avuto ha avuto, scurdammuce u passat”, come osservava un vecchio motto popolare.
PS2: tutta questa ridda di osservazioni e pensieri sono stati scatenati da un libro che sto leggendo adesso: Viaggi nel tempo, di James Gleick. Il problema è che sono arrivato a pagina 52. Speriamo bene…
Tre teorie sui viaggi nel tempo e i film dove sono presenti

Tre teorie sui viaggi nel tempo e i film dove sono presenti