Ci sono episodi che sono sassate. Sassate che ci risvegliano di colpo da un torpore nel quale eravamo caduti, pur consapevoli di tutto e, soprattutto, del tempo che passa. Per chi ha figli la misura del tempo che passa sono loro. Per chi non li ha (avuti o ancora avuti…) la questione si fa più vaga, perché i riferimenti lo sono. Poi può sempre succedere che un genitore o un caro venga meno e quello diventa un’altra tacca su cui misurare questo tempo che scorre, ineluttabile.
Oggi per me la “tacca” – non drammatica per fortuna, ma non meno traumatica – è stato il congedo dal mio barbiere storico, Domenico o anche, per gli amici, diminuito con la classica troncatura: “Domè”. Non sono in grado di fare i conti precisi, ma credo di essere andato da lui sin dalla mia (im)maturità di giovane adulto, intorno ai vent’anni. Se anche fossero 22, oggi sarebbero 30 anni che vado da Domè a “farmi i capelli”, come si dice dalle parti di Massa, in una espressione curiosa e forse più comprensiva e benevola di un riduttivo taglio (“mi sono tagliato i capelli”, ma dal barbiere non si va solo per quello, soprattutto quando ne hai pochi, sempre meno, e c’è poco da tagliare…).
Così, mentre ero alla poltrona alla domanda di rito (ma non retorica, dopo trent’anni) “come va?”, la risposta è stata semplice e secca: “non benissimo, qualche acciacco fisico che mi affatica: a fine anno chiudo”. Non sapevo cosa dire, ma ho realizzato che era l’ultima volta che Domè mi tagliava, anzi: mi “faceva”, i capelli. Mi ha visto, con costanza, nelle stagioni più importanti della mia vita; mi ha visto con venti chili in meno, dopo il grave incidente in moto che ho avuto; mi ha visto a poche ore dal matrimonio, per la sistemazione di capelli e barba – quest’ultima non me la sono mai fatta fare da nessuno, prima di allora (e mio padre mi raccontò una volta che anche lui fece lo stesso). E adesso è tutto finito. Così come iniziò un giorno di molti anni fa, dentro quella bottega che è rimasta sempre la stessa.
Tale e tanta era la confindenza che ci sono andato anche quando abitavo a Torino e coglievo l’occasione dei miei rientri a casa dei miei, per una “sforbiciata”. So che tutto questo può sembrare di scarsa rilevanza e forse anche assurdo, soprattutto in un mondo come il nostro, in cui tutto cambia, e cambia alla svelta. Ma oggi mi sento orfano. Orfano di barbiere. Orfano di quel testimone (e forse “custode”) involontario che Domenico è stato della mia vita.
Così per ricordarmi di questo momento di congedo, gli ho chiesto a bruciapelo una foto, questa, al suo “posto di combattimento”. Ciao Domenico, buona vita, e grazie delle chiacchiere – e non meno dei prezzi, che hai sempre voluto tenere popolari.