L’evento che scatena queste riflessioni è accaduto ieri mattina, ma se ne sono, nel frattempo, concatenati altri. Si tratta di una tazza. Una normalissima tazza da colazione che mi accompagna, anzi: ci accompagna – con mia moglie – da minimo una decina d’anni. Non sappiamo come e non ricordiamo neppure le circostanze, ma un giorno – di una decina d’anni fa, o forse più – ci accorgemmo che dietro l’intenso blu della tazza si era formata una impercettibile crepa, quella che sembrava essere più che altro una cavillatura, ma che a un attento esame, si capiva proseguire come minacciosa incrinatura che sembrava dover sentenziare una vita breve per questo oggetto (per altro, proprio in corrispondenza di questa linea sottile, a un certo punto il bordo si è sbeccato, rendendo evidente il fenomeno di deterioramento).
Ho/abbiamo continuato a usarla, senza pensarci, per tutti questi anni, immaginando che prima o poi, lavaggio dopo lavaggio (a mano, in lavastoviglie…) si sarebbe rotta e amen. Invece è stato molto poi che prima, visto che la tazza mi si è rotta ieri mattina dopo (almeno) un trasloco da una casa all’altra. Sono “morte” prima stoviglie molto più “sane” rispetto a questa che, appunto, solo ieri mattina, scivolatami di mano a un centimentro dall’appoggio sul cestello della lavastoviglie ha “toccato” un’altra stoviglia e si è definitivamente infranta…
Perché raccontare questa storia, con tale dovizia di dettagli? Perché nell’era dell’usa e getta in cui (ancora) viviamo, questa è, come tante altre, una storia paradigmatica di quanto gli oggetti possono durare e come molti di questi possono sopravvivere anche alla nostra stessa esistenza (pensiamo banalmente agli orologi del nonno…).
Gli altri eventi che si sono concatenati per dar seguito a questa riflessione sono vari. Il primo e più banale, è contenuto in quel film – ormai un cult – in cui a un giovanissimo Dustin Hoffman veniva detta una sola parola, la parola dell’avvenire: plastica! (La godibilissima clip video si trova come sempre su YouTube) – La direzione che ha preso il mondo è stata quella e mai parole furono più profetiche…
Della plastica sappiamo tutto e oggi, soprattutto, sappiamo quanti danni fa, a partire da questo recente incidente avvenuto negli Stati Uniti, su cui Ugo Bardi riporta nel suo blog su Il fatto quotidiano. E della plastica, e della sua degradazione “naturale”, parla proprio uno speranzoso post di Claudio Della Volpe sul blog della Società di Chimica Italiana.
Ultimo riscontro “pop” che mi ha fatto pensare a questa storia è un vecchio “rimedio” – tanto vecchio quanto dimenticato – del vuoto a rendere. L’aspetto “pop” deriva dalla notizia legata all’uscita di una nuova versione di una vecchia canzone(tta) di Gianni Morandi, Fatti mandare dalla mamma. La nuova versione – rivista e corretta secondo i canoni estetici di oggi – è di fatto molto simile all’originale, ma soprattutto, similmente all’originale, la coreografia mette in mano ai ballerini e ballerine una bottiglia che nell’originale verosimilmente sarà stata di vetro, mentre oggi sarà di un vetro simulato (quindi ancora una volta plastica). Il rimedio, lo avete capito, sarebbe quello di tornare a usare il vetro o materiali infrangibili – magari la stessa plastica, ma in una formulazione fatta per durare – che diano uno stop all’usa e getta e rallentino il processo di consumo indiscriminato. Molti oggetti ci sopravvivono, ma non dovremmo soccombere a causa degli effetti inquinanti che questi oggetti producono.