Uno sguardo a Est

Aljaksandr Ryhoravič Lukašėnko


In più di un’occasione, soprattutto in tempi recenti, la percezione dell’inutilità del corso di studio in cui ho conseguito la laurea (Filosofia) si è acutizzato, per motivi che sono in qualche modo ovvi: in questo mondo “senza memoria” vincono le professioni che “danno il pane” – dalla più classica ingegneria, con corsi di studi più o meno azzeccati, alle altrettanto classiche discipline come medicina: quest’ultima onerosa in termini di tempo e risorse spesi, ma di sicura utilità umana e professionale. Tutto il resto sembra essere opzionale: le “scienze umane” (ma magari se smettessimo di chiamarle “scienze”, cercando una nobilitazione terminologica tutta moderna e, per quel che mi riguarda inconsistente) a poco servivano (per campare) e sempre meno servono, mi pare – a meno di non specializzarsi in qualcos’altro.
Poi però ogni tanto mi ricredo, e lo faccio quando alla memoria mi tornano libri (che per fortuna possiedo), usati in qualcuno dei corsi che avevo seguito a suo tempo e messi come testi obbligatori d’esame da qualche professore in gamba (e posso dire di averne avuti). Tra questi, in relazione alle cronache di questi giorni per quel paese “quasi europeo” che è la Bielorussia, c’è un vecchio testo, A Est, la memoria ritrovata, un vecchio libro (pubblicato nel 1991 da Einaudi su traduzione dall’originale francese, pubblicato a sua volta all’indomani della caduta del muro di Berlino) collettaneo (gli autori sono diversi storici, dell’Est e dell’Ovest: Alain Brossat, Sonia Combe, Susan Greenberg, Denis Paillard, Marta Piwinska, Jean-Yves Potel, Michail Rozanskij, Véronque Soulé e Jean-Charles Szurek), per il quale vale la pena riportare la sinossi della quarta di copertina e l’indice:

Ritrovare una memoria storica è momento decisivo del processo di liberazione nell’Est europeo. È insieme una sfida e uno dei principali terreni di scontro nell’ambito delle trasformazioni quotidianamente in atto. Un’autorevole équipe di studiosi, dell’Est come dell’Ovest, ricostruisce la frastagliata mappa dei simboli del passato politico intorno ai quali si sono fissate nel tempo linee differenti di memoria e oblio: il lager di Auschwitz divenuto museo dell’Olocausto e le commemorazioni del passato nazista1; i luoghi dell’esilio siberiano dall’epoca degli zar a Stalin e l’archivio della polizia di Praga; il culto delle statue di Lenin e i funerali del premier ungherese Imre Nagy; il dwor (la dimora dei nobili) nella storia del patriottismo polacco e la retorica comunista nei nomi delle vie di Mosca.

Ci sono libri che sono delle bussole, e questo è uno di quelli. Per capirlo, dicevo, basta scorrere l’indice (e che il libro sia datato lo dimostrano, a loro volta, i nomi dei paesi che sono ancora Urss, Cecoslovacchia e Repubblica Democratica Tedesca e… il prezzo – in lire):

  • La memoria cancellata
    • Caricyn, Stalingrad o Volgograd? L’eterna questione dei toponimi
    • La dimora signorile, elemento di conservazione dell’idea di nazione
    • I funerali nazionali di Imre Nagy
  • La memoria manipolata
    • Il culto di Lenin: il mausoleo e le statue
    • Il museo della polizia di Praga
    • Le commemorazioni per superare il passato nazista
    • Figure della memoria: Memorial e Pamiat’
  • La memoria disputata
    • Irkutsk, porta dell’esilio siberiano
    • Il campo di concentramento museo di Auschwitz

Insomma, se da un lato verrebbe da dire che nel 2020 sarebbe il caso di smetterla con le dittature, l’Est, secondo la breve prospettiva storica delineata nel libro, sembra incapace di fare a meno dell’“uomo solo al comando”, per prendere a prestito una frase tratta dal ciclismo (ma che, come racconta l’articolo del Post, sullo sfondo trova anche la questione politica…), e se da un lato il deprecabilissimo caso Lukashenko balza sacrosantamente sotto i riflettori delle cronache (ci pensate? Dal 1994… Avevo 24 anni e adesso ne ho 50: più della metà della mia vita…) lui sembra solo essere un po’ maldestro (se proprio vuoi fare i brogli cerca di vincere non con oltre l’80% dei voti, magari: in questo modo ti sgamano subito, no?), visto che (dall’altro lato) le superpotenze dell’Est (mi riferisco a Russia e Cina) non pare brillino per turnover e avvicendamento democratico, visto che (per tacere di quel “signore” che sta alla guida della Corea del Nord, tal Kim Jong-un):

  1. Xi Jinping ha proposto nel non lontano 2018 una riforma che abolisce la soglia dei due mandati presidenziali e i membri dell’Assemblea Nazionale del Popolo l’hanno accettata all’unanimità e
  2. lo zar di tutte le russie, al secolo Vladimir Vladimirovič Putin, nell’ancor più recente anno in corso, è riuscito a far passare una riforma costituzionale che azzera i mandati precedenti del presidente, potendosi ricandidare fino al 2036 (è stato linkato solo l’articolo de Il Sole 24 Ore, ma altri se ne trovano su web, qui, per esempio e qui).

Per carità: non che le democrazie occidentali siano messe benissimo – molti parlano di “democrature occidentali”, amalgama di democrazie e dittature – ma davvero mi pare che si sia lontani e formalmente e sostanzialmente da esiti di questo genere.
Non resta che sperare che l’imperizia mostrata da Lukashenko nel gestire il popolo bielorusso sia di stimolo a quest’ultimo per una definitiva sovversione dell’ordine.
1 Mi permetto di aggiungere a questo, l’oblio sistematico rintracciato nella visita – avvenuta diversi anni or sono – ai campi di concentramento e annientamento di Mauthausen e Gusen, in Austria, di cui ho lasciato traccia qui.

Come rovesciare una dittatura (possibilmente ridendo)

Venerdì sera scorso, al Circolo dei lettori di Torino, ho assistito a una conferenza di Srdja Popović che aveva per titolo proprio questo: come rovesciare una dittatura. Ora: a questo argomento interessantissimo – e a questa conferenza in particolare – ci sono arrivato perché in realtà avevo un abboccamento con il suo moderatore/presentatore Luca Rastello. L’evento, finché lasciano questo palinsesto online è a questo indirizzo: http://www.circololettori.it/come-rovesciare-una-dittatura/
Con una buona dose di pregiudizio ho sempre pensato – sbagliando – che sarebbe stato (assai) difficile trovare dei sistemi alternativi alla violenza per combattere la violenza. Questo, in linea teorica e di principio, perché mi è sempre sembrato che fosse necessario l’uso “dello stesso linguaggio”: se si vogliono dividere due litiganti che si stanno picchiando, andare lì alzando il dito indice e chiedendo se per piacere possono smettere mi è sempre sembrato un atto più votato al suicidio che un modo concreto per mettere fine a una violenta contesa.
Ma l’esempio è fuorviante. E lo è perché spesso quando le forze in gioco sono estremamente sbilanciate – come nel caso delle dittature appunto, ma anche in casi specifici come quello di cittadini riuniti in movimenti che si oppongono (pacificamente) a un’opera “di interesse comune” (?!?) – giocare sullo stesso terreno (quello dello scontro violento) significa condannarsi a perdere (se si è cittadini ovviamente e non la forza di polizia o militare che sta dall’altra parte): ci possono essere azioni di logoramento, di boicottaggio (anche estremo) nella vita e nelle attività di queste persone che sono lì, pagate per sorvegliare, presidiare, reprimere, ma essere violenti è il loro mestiere, fa parte della loro “professionalità”, soprattutto in un paese come questo, nel quale – rispetto alla Serbia – ancora siamo indietro, per esempio, sull’identificazione dei poliziotti.
Sì perché in Serbia, raccontava Popović, nella Serbia di Milošević, i poliziotti avevano comunque un numero di matricola che li identificava, ben visibile sui giubbotti o sulle divise. Qui in Italia questo ancora non accade. Come non accade che dopo aver accertato dei fatti e delle precise responsabilità, come avvenne a Genova nel 2001, i responsabili in galera non ci vadano (ma in Italia davvero sembrano andarci, in galera, solo i poveri disgraziati).
Allora altre devono essere le tecniche. La prima ha a che fare col coinvolgimento: scendere in piazza – soprattutto se si ha una certa età – può essere pericoloso. Allora all’inizio di questa protesta che lui e il suo gruppo condussero nel proprio paese, ci fu l’idea di far affacciare tutti alle finestre e ai terrazzi e, in momenti convenuti, cominciare a battere casseruole. Idea che ai serbi forse arriva dall’America Latina e le cacerolas, le casseruole, regolarmente usate in Argentina per protestare pubblicamente. Pratica tanto diffusa da avere un suo preciso nome: cacerolazo la cui rispettiva voce wikipedia recita:

Il cacerolazo è un termine colloquiale della lingua spagnola con il quale si indica una forma di manifestazione pacifica e rumorosa, in spazi privati o pubblici, in cui l’espressione pubblica di protesta, o dissenso, si realizza attraverso il rumore ottenuto percuotendo coralmente degli oggetti adatti allo scopo, come casseruole (da cui il nome), tegami, pentole, coperchi, mestoli, e altri utensili simili.
È conosciuto anche come cacerolada (argentino), caceroleada, caceroleo o casserole.
L’obiettivo di un cacerolazo è generalmente una manifestazione di contrarietà al governo o a sue determinate iniziative politico-economiche.
Tuttavia, anche se più di rado, avviene che un cacerolazo sia indetto a sostegno di una determinata istanza (politica, sociale, economica,…) o in favore di una determinata causa politica.

Srdja però racconta anche che un bel giorno, nella via più centrale di Belgrado, quella dello shopping, hanno piazzato un fusto d’olio precedentemente ripulito. Su un lato ci hanno messo la foto di Milošević e sopra hanno praticato una fessura per le monetine: chi, passando, voleva sfogare la propria rabbia e manifestare il proprio dissenso contro il governo, poteva inserire una monetina, afferrare la mazza da baseball appositamente fornita e tirare una mazzata contro il bidone in corrispondenza della foto del dittatore.
Una sorta di self service dell’incazzatura insomma, per il quale fu ovviamente allertata la polizia che però ne fu molto disorientata: chi arrestare? Le persone in coda per dare una mazzata a un bidone? Gli (irrintracciabili, a quel punto, e ben mimetizzati) autori dello scherzo? Alla fine l’unico ad essere arrestato fu i pesante bidone, tra lo scherno e l’ilarità dei passanti…
La serata è stata ricca di questi aneddoti, accompagnati da un powerpoint nel quale comparivano le foto più rappresentative di questi (tutto sommato) esilaranti momenti. Un altro che cito furono le non proprio trasparenti elezioni in Russia nel 2012. Questa volta la protesta contro questa mancata trasparenza fu inscenata da pupazzetti delle Kinder sorpresa (ebbene sì, è la globalizzazione baby!) e l’idea partì da una regione remota (Barnaul, Siberia). Si chiamò la stampa e la notizia, che (anche) questa volta passò attraverso una “risata”, arrivò in tutto il mondo (il «Guardian» la dà a questo indirizzo: http://www.theguardian.com/world/2012/feb/15/toys-protest-not-citizens-russia), anche se zar Putin rimane comunque solidamente in sella…

Toy protest in Barnaul

Protesta dei giocattoli a Barnaul, Siberia. La foto è tratta dal sito del giornale «The Guardian» che ne diede notizia il 15 febbraio 2012.


La prima domanda dopo la ricca presentazione di questi case history fu di un ragazzo che volle sapere se, secondo Srdja, in Italia era in atto una dittatura  e quali fossero secondo lui, nel caso, i metodi per contrastarla. Srdja ci ha pensato un attimo e poi ha diplomaticamente risposto nel suo ottimo inglese che non sa esattamente quale sia il livello di democrazia in Italia. Avrei voluto dirgli di consolarsi: neppure noi lo sappiamo.