La sensazione di essere in trappola

Chi mi conosce mi sa ottimista. Ho avuto una vita per certi aspetti complicata e “disperante” in certi frangenti del passato, in occasione di cose che mi sono accadute, ma per le quali non è il caso di annoiare il lettore che arriverà a leggere queste righe. Non ho la vita che avrei voluto o che ancora vorrei, per “addrizzare il tiro” quel minimo necessario a uscire di scena dignitosamente ma, se mi guardo intorno un po’ attentamente, mi viene da chiedermi: chi ha la vita che vorrebbe? Non mi pare siano molti – e non parlo della vita che facciamo vedere agli altri, ma di quella che per noi stessi avevamo immaginato, forse sognato.

Da diversi anni mi occupo tra lo “scientifico” e il “divulgativo” di energia e, più in generale, di risorse. Ho letto abbastanza ma, come sempre, moltissimo resta da studiare e leggere e la sensazione, qui come altrove, è quella che una vita non basti a essere minimamente competenti. Diciamo che almeno mi sono fatto le basi. Occuparmi di questi argomenti ha avuto il preciso significato di popolare la mia piccola attività editoriale di libri che di questi argomenti parlino, con un approccio il più possibile scientifico-divulgativo (si cerca di trattare questi argomenti semplificando certi concetti, ma restando aderenti al rigore scientifico con cui devono essere trattati), ma soprattutto sempre con un’occhio a quella che è la natura umana.

Già, la natura umana. Proprio quella che ci ha condotto fino qui, sul baratro del collasso ecosistemico globale. Ieri mattina in una mail raccontavo a un amico della mia partecipazione (come piccolissimo editore) al Pisa Book Festival. Ci sarebbe stato da mettere una webcam dietro il mio banchetto/stand che, pur presentandosi bene e molto colorato, in certi casi, quando la gente si avvicinava per leggere i titoli, prima sbarrava un po’ gli occhi come avesse visto uno scarafaggio sulle copertine e poi, cercando di dissimulare, girava i tacchi verso approdi più tranquilli – magari letterari e magari di evasione. Comprensibile. Già siamo presi dai mille problemi del quotidiano, mica possiamo pensare di metterci a leggere cose impegnative che parlano di energia e risorse e del nostro modo, più o meno “volontario”, di stare su questo pianeta, anche se questo ci riguarda molto molto da vicino! Eppure sento che ha senso (cercare di) informare le persone su questi temi, che arrivano alle luci della ribalta mediatica solo quando la bolletta del gas o della luce rincara. O la benzina alla pompa ha cominciato una ascesa apparentemente inarrestabile, della quale però il mondo che ho intorno sembra continuare a non accorgersi.

Già, la natura umana. Come scrivevo tempo addietro, l’aspetto più lungimirante di quella pietra miliare che ho avuto l’onore di ripubblicare con Lu::Ce edizioni – I limiti alla crescita “ex” I limiti dello sviluppo – è costituto dal primo grafico. In un volume densissimo di grafici e proiezioni il primo, guarda caso, non riguarda nessun dato scientifico, ma ha a che fare proprio con la natura umana e credo non abbia bisogno di commenti. E’ come se gli autori, consapevoli di quello che stavano scrivendo, dicessero anche: “Attenzione! Possiamo fare tutte le proiezioni e gli scenari che vogliamo, ma di una cosa “ingovernabile” dobbiamo senz’altro tenere conto: la natura umana, che è fatta così – pensieri che nello spazio arrivano al quartiere, quando va bene, e nel tempo, alla prossima settimana…”. Il grafico è questo qui di seguito e credo non abbia bisogno di spiegazioni:

primo grafico del libro "I limiti alla crescita"

primo grafico del libro “I limiti alla crescita”

Sui motivi per cui la natura umana si sia storicamente configurata in questo modo, fior di psicologi cognitivisti, evoluzionisti, ecc. hanno tentato delle spiegazioni. Molte delle quali, sufficientemente semplici e convincenti, rimandano a un concetto che sta alla base della questione: il nostro cervello è “cablato” in modo da percepire pericoli immediati e vicini non lontani nello spazio e nel tempo, perché da pericoli immediati e vicini l’uomo si doveva difendere quando era nella savana o nel bush. Tutto il resto poteva aspettare. Questo “cablaggio” – e uso questo termine perché la questione sembra avere a che fare molto più con “l’hardware” del nostro cervello che con il “software” dei nostri pensieri – proprio perché tale, non si smantella nell’arco di un paio di generazioni e questo potrebbe essere in sostanza all’origine della nostra rovina futura. Si tratta di una incapacità strutturale, che dobbiamo fronteggiare e alla quale dobbiamo cercare di sopperire se vogliamo avere qualche chance di restare su questo pianeta in modo decente.

Un articolo che, in tempi recenti, mi ha dato molto da pensare sull’imminenza delle cose che accadono e che più o meno consciamente tendiamo a “rimandare” nel nostro cervello, è questo, sul blog di «Le Monde» che lo stesso autore – che si autodefinisce “Mr. Oil Man” – tiene su quella testata. Un articolo un po’ tecnico, ma sufficientemente comprensibile a chi mastichi un po’ di francese. Gli scenari che Matthieu Auzanneau delinea sono abbastanza inquietanti e non è che le cose vadano meglio a casa nostra, dove il PNRR (Piano Nazionale di ripresa e resilienza), grazie all’avvento del Ministero della transizione ecologica, capeggiato dal cigolante Cingolani, rischia di trasformarsi nel “piatto ricco” (piatto ricco / mi ci ficco – recitava un vecchio adagio dei giocatori di poker, e qui l’azzardo è ben più che una giocata al tavolo verde, visto che si tratta del futuro di tutti noi) delle multinazionali – anzi DELLA multinazionale – “Oil & Gas” nostrana, ENI (accompagnata dalla “sorella” Snam).

Già, la natura delle multinazionali. Se la natura umana è quella che abbiamo brevemente delineato – e per conoscerla, volendo tirare fuori un vecchio classico della filosofia, basta guardare dentro se stessi – sulla natura delle multinazionali si fa presto a delinearne la natura (e lo posso, in questo caso, fare anche con cognizione di causa, visto che ci sono stato dentro per un paio d’anni): sono strutture fatte per fare soldi. Per fare soldi il più possibile, con tutti i mezzi possibili (anche al limite e oltre la legalità, come racconta il libro di Marco Grasso e Stefano Vergine, Tutte le colpe dei petrolieri), tutto il resto piò aspettare e comunque è accessorio e di facciata. Ma anche questo non lo sappiamo? Certo che lo sappiamo. Nessuno di noi è tanto ingenuo da pensare che siano lì per fare beneficienza. E quindi cosa possiamo aspettarci da loro? Che nel piatto ricco dei soldi stanziati per cercare di darci (dare a tutti noi) la remota possibilità di un futuro migliore – soprattutto per chi dopo di noi verrà – ci si buttino a rotta di collo e in tutti i modi possibili, al punto che, come racconta questa infografica qui sotto, tratta da questa pubblicazione scaricabile gratuitamente che invito tutti a leggere (sono poche pagine), le attività di lobbying del colosso energetico italiano ha prodotto qualcosa come 102 incontri tra il Ministero della transizione ecologica di cui sopra e i funzionari di ENI/Snam nei mesi che vanno dal 20 luglio 2020 al giugno 2021.

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L’infografica sul Recovery Plan e le ingerenze dell’industria fossile nell’analisi fatta da ReCommon

Da tutto questo la sensazione di essere in trappola. Una trappola che sta per scattare nel presente, ma soprattutto che non si tenta di disinnescare per il futuro.

Allegri, verso la catastrofe

Ieri ho voluto far compagnia a un amico che deve cambiare auto. Mi sono preso un paio d’ore nel pomeriggio e mi sono dedicato all’esotica attività di andar per concessionari e tastare quindi con mano, la follia insita nel nostro modo di procedere.
Di auto siamo saturi – penso che molti di noi ne convengano. Forse è da quando ho coscienza di me che lo sento dire, ma nel frattempo i mezzi in circolazione sono n-uplicati (non so quali siano i numeri esattamente, ma dal web ho ricavato dei dati con i quali ho realizzato il grafico qui sotto).

Probabilmente forti dei risultati, del martellamento pubblicitario incessante (almeno nel nostro paese), anziché essere un settore in crisi, come dovrebbe esserlo ogni settore merceologico arrivato alla saturazione, aprendo le porte dei saloni, quel che ci appare è una inattesa floridità: numeri bassi alla Peugeot, medi alla Volkswagen e decisamente al limite dell’affollamento alla Fiat (la fortuna è che a Pisa sono tutti vicini l’uno all’altro, a Ospedaletto).
Da questo ne consegue che anziché stenderti un tappeto rosso ed esserti grato per aver manifestato anche solo il proposito di cambiare auto investendo in questa operazione qualche migliaio di euro che notoriamente non cresce sotto il cuscino di notte, l’atteggiamento, in molti casi è di sufficienza. Quando non è di sufficienza risulta peggiore perché la netta sensazione, senza mezzi termini (e mi scuserete per la brutalità degli stessi) è quella di essere presi per il culo.
Prendiamo per esempio la “auto aziendali” o “a km zero”. Stratagemma adottato in tempo di carestia per continuare a tenere alti i numeri delle vendite, benchmark atto da sempre a valutare la bontà del venditore (bontà direttamente proporzionale al numero delle vendite realizzate in un determinato intervallo di tempo). L’autosalone si intestava l’auto, scaricava l’IVA (avendo la partita IVA) e la rivendeva all’acquirente “di seconda mano” (in realtà solo immatricolata) facendogli risparmiare almeno quella (non poco su un oggetto che costa svariate migliaia di euro e in paese come il nostro con l’IVA al 22%). Strategia “win-win”: il concessionario vende un’auto in più, l’acquirente è contento perché prende una macchina nuova, ancorché, in molti casi, senza la possibilità di sceglierne gli accessori, il colore, ecc. (sebbene in alcuni casi si poteva addirittura combinare la cosa: il cliente sceglieva e poi l’auto veniva richiesta per l’immatricolazione, esattamente con le specifiche descritte dal cliente).
Invece ieri ci siamo sentiti dire, col sorriso sulle labbra, in un salone diviso in due – da una parte il nuovo e dall’altra l’usato – che il “km zero” a conti fatti costava di più (ma la famosa IVA che voi avete bellamente scaricato intestandovi l’auto perché me la volete fare pagare di nuovo?) a causa del fatto che l’auto che l’amico avrebbe dovuto dare indietro (una piccola utilitaria con 10 anni di vita) per l’usato valeva 1.000 euro, mentre, se avesse acquistato il nuovo, la valutazione andava oltre 3.000 (ma com’è che lo stesso oggetto a pochi passi di distanza da una parte è valutato così tanto e dall’altra così poco?). L’aspetto che agli occhi del comune mortale appare folle è che il nuovo costa meno dell’usato. Da un punto di vista strettamente economico ha molto senso: vendere vendere vendere e quindi produrre produrre produrre per vendere di nuovo, soprattutto il nuovo.
Questo “giochino” ce lo siamo sentiti raccontare anche alla Fiat. Ha un altro nome e lì lo chiamano “premio targa” (“Ah, ne ho proprio una del colore che vuole lei e la posso fare arrivare, però si deve sbrigare…” – perché metter fretta all’acquirente lasciandogli l’illusione di aver appena colto l’occasione (ovviamente unica…) è un’altra strategia abbastanza idiota, ma che evidentemente in molti casi continua a funzionare e a pagare molto bene). Il “premio targa” è: mi intesto l’auto e te la rivendo?
Insomma, una vera tristezza. Soprattutto perché ci sono video come questo che raccontano una storia molto diversa. E ancora, non più tardi di oggi, mi è arrivato l’annuncio della presentazione di un nuovo libro di un collega Cnr appena uscito: Effetto serra, effetto guerra, Due fenomeni che pare siano sempre più connessi l’uno all’altro.