“Io capitano” e il ruolo della responsabilità

Finalmente venerdì sera scorso sono riuscito ad andare a vedere, al cinema estivo, “Io capitano“, il film di Matteo Garrone. La storia, le storie, assurde e tormentate di questi esseri umani – che dovremmo considerare in quanto tali, nostri fratelli – le conosciamo. Le conosciamo non da ieri, ma da un bel po’, anche se le abbiamo dimenticate o meglio: lasciate collettivamente a prendere polvere nei recessi più remoti delle nostre coscienze. Qui mi fermo per evitare di sembrare (o essere) retorico – cosa nella quale è facile cadere quando si trattano questi argomenti.

Locandina del film

La locandina del film

Però il film è importante. Ed è importante perché intanto toglie un po’ di quella polvere e ci fa vedere quello che solo nella stragrande maggioranza dei casi possiamo immaginare per averne letto qualche reportage (o meglio: quelli che di noi hanno coltivato questa sensibilità magari hanno fatto). Il film è importante perché inscena le reali odissee di generazioni anche di giovanissimi (i protagonisti del film hanno 16 anni) che tentano miglior sorte, per sé e la propria famiglia. La parola “odissea” non è scelta a caso: secondo me la narrazione cinematografica si fa a tratti epica: all’anabasi interna al continente africano, in cui chi decide di intraprendere il viaggio deve resistere a prove psichiche e fisiche letteralmente infernali, segue il percorso opposto che dall’interno conduce verso nord, verso l’ultima – anzi la penultima – forca caudina: la Libia… (l’ultima, prima dell’accesso nella “Fortezza Europa”, è costituita dalle placide, ma al contempo insidiosissime, acque del Mediterraneo). Solo lì, dove il film si conclude, c’è il punto di congiunzione tra le cronache che distrattamente vediamo e ascoltiamo e la fine di quella storia che il film ha il merito di mettere in luce a partire da dove ha origine.

Il protagonista Seydou Sarr diventa – dopo le mille rocambolesche peripezie del caso e l’inquietante scorcio sui centri di detenzione (vere e proprie prigioni) libici – realmente il capitano di una di queste bagnarole. Costretto dalle contingenze (ormai “il peggio è passato”, forse, e il cugino bisognoso di cure che paradossalmente sono più vicine di là dal mare che non in Libia…), nonostante tenti di ribellarsi ai trafficanti che lo sottopongono a quel carico di responsabilità, alla fine di un corso accelerato di 10 minuti – in cui gli spiegano come usare la manetta dell’acceleratore e la leva di fianco di “avanti” e “indietro”, mantenendo il timone in direzione nord, segnato dalla bussola di bordo – queste responsabilità se le assume, per sé, per il cugino, per tutti coloro (come sempre: tanti e oltre ogni immaginabile capienza) che saliranno sull’imbarcazione. E, viene da aggiungere, il ragazzo ha spalle talmente capaci, nella sua gioventù, nella sua incoscienza, da assumersi implicitamente anche le responsabilità di tutti coloro che, a partire dalla politica, scendendo fino all’ultimo dei trafficanti, questo gioco lo permettono (e ne sono i veri responsabili).

Guardando le ultime scene del film non ho potuto non pensare che la prima telefonata di SOS, inoltrata alla guardia costiera maltese (buoni quelli!) – visto che in quelle acque territoriali si trovavano – avesse come esito, non la fine dell’odissea, ma solo la penultima tappa: i maltesi se ne fregano e quelli stanno lì a giornate ad aspettare che qualcuno gli presti soccorso. Ma il ragazzo è pronto di spirito: ha giurato a se stesso che nessuno sarebbe morto per causa sua e capisce che questi non arriveranno mai. Allora decide di continuare – la “benevola” finzione cinematografica fa sì che il carburante non finisca, cosa che invece nella realtà spesso succede – fino a quando non approda alle acque territoriali italiane. Non sappiamo quale sia il periodo in cui la pellicola è ambientata, ma non dimentichiamo che, fuori dalla finzione cinematografica, abbiamo avuto un bell’intervallo il cui titolare del nostro ministero dell’interno (le maiuscole e le minuscole in questo caso indicano la variabilità: come in ogni sottoinsieme arbitrariamente deciso, c’è chi alza la media e chi l’abbassa…) è stato Matteo Salvini. Salvini di cui leggevo, in un recente libro (La lingua della neopolitica) non sa neppure cosa significhi il termine frugale (in relazione a quei Paesi nordeuropei – Austria, Svezia, Danimarca e Paesi Bassi – che sono a favore di un rigore fiscale senza deroghe):

L’aggettivo è stato anche sostantivizzato, come ha fatto Matteo Salvini in un tweet del 19 luglio: «Ma che ne sanno i “frugali”? Mozzarella e panzerotti pugliesi, olio buono, frutti di una terra stupenda che tutto il mondo ci invidia. Orgoglio italiano, sempre!» (op. cit., p. 123)

Di certo con l’orgoglione (pardon: orgoglioso) Salvini al comando, la cui demagogia va oltre il professionismo, la paradigmatica storia di Seydou Sarr e dei suoi sodali possiamo immaginare non avrebbe avuto un lieto fine.

Consolante che l’arena fosse gremita. Segno che questo è un tema da cui le persone sono (ancora) toccate. Per altro l’emigrazione africana è in qualche modo un “classico” che non esclude altre migrazioni dall’Est del mondo – afgani, pakistani, curdi, bengalesi… tutta un’umanità che fugge da condizioni sempre più proibitive.

Bianco, rosso e verdone

Ieri sera, stanco della proposta dei “soliti canali” – tra i quali comincio purtroppo ad annoverare anche Netflix – ho tirato fuori dalla cineteca, ormai tutta virtuale, un vecchio film: Bianco, rosso e verdone.

Confesso di non amare particolarmente la comicità di Carlo Verdone, né quella della “prima ora” (come in questo film) né quella successiva, ma debbo riconoscergli delle grandi qualità di attore e soprattutto, in questo film, la capacità di aver colto nel segno alcuni degli stereotipi nostrani.

La storia – anzi: le storie, visto che sono tre – le sappiamo e sono tutte accomunate dalla questione di esercitare quel diritto-dovere che è il voto elettorale. Una cosa che, almeno una volta, non moltissimi anni fa per altro, era presa con grande serietà dalla grande maggioranza delle persone, come dimostra l’infografica qui di seguito (che si ferma al 2013).

Questo film mi è particolarmente caro perché, mutatis mutandis, mi sono trovato, in momenti diversi della vita, in alcune delle situazioni descritte. Questa dell’importanza del voto, per esempio – con l’epico viaggio dell’emigrato Pasquale Amitrano che da Monaco di Baviera arriva a Matera con la sua Alfasud per andare a votare – mi ricorda l’occasione di molti anni fa (facevo ancora l’università ed era una di quelle domeniche dedicate allo studio…) in cui, assente un anziano amico, feci da “cavaliere”, andandola ad accompagnare al seggio, alla ancor più anziana madre che davvero sarebbe potuta essere, sicuramente per lo spirito anche se non per il fisico, la Nonna Teresa (Elena Fabrizi, una delle sorelle del mitico Aldo) del giovane Mimmo. Ebbene, trovai ad aspettarmi sulla porta questa novantenne minuta e coriacea vestita di tutto punto, come se dovesse recarsi a una cerimonia, a un evento importante. E aveva ragione, perché quello del voto, pur così bistrattato nella nostra modernità e nelle nostre “democrazie mature”, “democrature”, “democrazie-dittature”, sembra aver davvero perso ogni forza, dovuta alla delusione che spesso c’è tra la promessa di cambiamenti e i cambiamenti che non arrivano. Ma non voglio prendere questa china…

Il povero Amitrano poi – l’emigrante “express” che scende in Italia in un climax poco gradevole, al punto di vedersi sottrarre letteralmente sotto il naso, pezzo dopo pezzo, la preziosa Alfa Romeo (status symbol tutto italico e sinonimo “dell’avercela fatta” all’estero, magari male, ma di avercela fatta…) – mi ricorda da vicino uno zio ormai non più tra noi, il marito della sorella più anziana di mia madre. Pure loro costretti dalle vicende della vita ad emigrare dalla Sicilia a Mons, in Belgio, lui era solito “spararsi” senza soste Mons-Messina con un’auto “da pazzi” (almeno pari a quanto lo era lui…): una Renault 5 turbo, un oggetto sì “di serie”, ma che aveva le caratteristiche di una specie di proiettile su quattro ruote, di cui, io ragazzino, ero ovviamente ammaliato sebbene i ricordi siano piuttosto vaghi. Un altro dettaglio che avevo dimenticato vedendo il film è proprio la “doppia colazione” che Amitrano fa: la prima a casa con la moglie mangiando quei wurstel pallidi che ci fanno ancora oggi un po’ inorridire. La seconda al bar (con un caffè), dove, per un attimo sembra di essere in Italia (ma siamo sempre a Monaco) perché le scritte sono in italiano e si parla italiano – e se possibile dialettale. Ecco: questa ricostruzione non è frutto di fantasia. Accompagnai in più di un’occasione lo zio trasferito in Belgio, quando fummo suoi ospiti e mia zia si stava aggravando per una malattia che poi la portò alla morte: passare la porta del bar era come varcare una soglia spazio-temporale, dove le persone parla(va)no un dialetto che, nel caso specifico, riconoscevo come un generico siciliano (ma nella stessa Sicilia ci sono molte, moltissime inflessioni) per altro “cristallizzato” e stratificato secondo le regole di una lingua che lì non è più viva, se non “in serra”, in quell’ambiente artificiale e un po’ strano che era l’interno di quella piccola enclave di pochi metri quadri; gli arredi e le scritte italiane erano quelle di anni prima, ma tutto si era un po’ fermato e rallentato (parlo degli anni ’80, dove le comunicazioni erano più difficili, l’Europa aveva da venire così come la globalizzazione e internet non esisteva se non come “settore di ricerca”).

Infine c’è Furio. Beh, potete pure non crederci, ma pure io ho avuto, a mio modo, il “mio” Furio. Nella mia rocambolesca vita lavorativa, sono stato manager, responsabile macroregionale per l’ufficio stampa della più grande azienda farmaceutica del mondo. La macroregione comprende Val d’Aosta, Piemonte, Liguria e Sardegna. Avevo casa a Torino e non lontano da me stava il manager che coordinava il nostro gruppo sul territorio. Un “bravo ragazzo” torinese, ma con accenni alle caratteristiche esasperate che caratterizzano il personaggio del film – ed esasperanti al punto che, sempre nel film, si esplicitano con la necessaria “fuga per la sopravvivenza” della povera Magda. Ebbene, un giorno – per citare l’episodio più innocuo (ma posso assicurare che ce ne furono di non innocui e anche piuttosto antipatici) – in una delle pause durante le “riunioni strategiche” che tenevamo, il buon Francesco (nome di fantasia) aprì un foglio excel del suo portatile per mostrarci (con orgoglio ovviamente) dove avrebbe portato in vacanza la sua famiglia (composta da moglie e due figli, esattamente come quella di Furio) per i prossimi 10 anni. Ricordo che sorridemmo… preoccupati.

Perché alla fine Verdone, descrivendo e volutamente esagerando i tre archetipi delle sue storie, ci ha visto giusto: esistono i Mimmo, esistono i poveri Pasquale Amitrano che non dicono una parola in tutto il film (arrivando da un luogo in cui non parlano la lingua) e sproloquiano solo alla fine in un grammelot degno di Dario Fo, ma soprattutto esistono i Furio Zoccano da cui è necessario, come ci insegna l’attore-regista, diffidare e stare alla larga.