La mente, soprattutto quando si tratta di ricordi (che, dicono gli specialisti, sono in realtà ricordi di ricordi), fa strani percorsi. Stamattina, domenica mattina, leggevo il Diario degli errori di Ennio Flaiano, un insieme di pensieri sparsi su viaggi, impressioni che da questi viaggi sono scaturite, ecc. Tutte riflessioni molto brevi, spesso meno di una paginetta e quasi sempre pochi, fulminanti, righe – questa, in generale e senza ombra di dubbio, tra le grandi qualità di un grande scrittore. Vale la pena riportare quella numerata con il [103] dell’edizione Adelphi in mio possesso:
Freddo e vento sul Boulevard de Clichy. Le baracche dei giochi sono deserte. Una soltanto mi sembra affollata e un tiro alla carabina, senza premi, acconciato come un palcoscenico. Con cinquanta franchi si sparano dieci colpi e si possono mettere in moto, colpendo il bersaglio (un puntino rosso), varie scene di burattini. Sono scene di supplizi. C’è il capestro, la decollazione, lo squartamento, la fucilazione. Basta colpire il centro di ogni quadretto e la scena si anima per qualche istante in un balletto macabro e legnoso. Il condannato viene preso, impiccato, i frati levano le croci al cielo, il boia toglie lo sgabello, ecco il burattino che precipita in un sacco. […]
La descrizione della scena va avanti con dovizia di particolari e le conclusioni che Flaiano ne trae sono interessanti: «La morte in Francia è una cosa che può essere data dallo Stato, è quindi nella mitologia popolare, forma il fondo della serietà dei giovani, che ci scherzano sopra, ma vogliono vedere come funziona».
Questo pezzetto mi riporta alla mente quel me stesso bambino che ha visto – o crede di aver veduto, chi lo sa – durante la propria infanzia, a qualche fiera, di quelle di paese, di quelle con le giostre e lo zucchero filato di quando ancora stavo a Pinerolo, una di queste “macchine” in cui si mette alla prova la propria mira. Una delle tante, tantissime cose che dal passato sono state inghiottite nel silenzio. Chi adesso spara non lo fa più per scherzo o per mettersi alla prova, ma forse va ad allenarsi in un poligono. Non so se ci siano motivi precisi per questo, ma sta di fatto che questa storia della carabina che, se si centra il puntino rosso, mette in moto “qualcosa” mi ha riportato prepotente alla mente un tipo speciale di questo “gioco” per cui, centrando il bersaglio (puntino rosso o altro che sia) al protagonista, in premio, veniva scattata un’istantanea. Questa è esattamente l’immagine di un copertina di un libro molto bello, Piove all’insù di Luca Rastello – qui di seguito la copertina del libro.
Luca mi disse – ma tra gli amici, anche quelli meno intimi, come lo ero io, questo non era un mistero – che il tizio nella foto, con la carabina in mano, che aveva appena fatto centro, era suo padre. Gli anni erano quelli: Flaiano scrive quell’appunto di diario nel 1958 e la foto del padre di Luca è, anno più anno meno, credo di quel periodo, almeno a giudicare dall’eleganza nel vestire. Così ho chiuso il libro di Flaiano e ho pensato a quanto Luca mi manca. Non avevamo rapporti continuativi, ma il tempo che ci siamo frequentati di persona, quasi sempre a casa sua in via Nizza, è stato un tempo intenso, forte, di confronto. Ancora una volta un fratello maggiore che, seppure con le intermittenze del caso, sapeva essere “stella polare”, sapeva dire da che parte era preferibile andare lungo i sentieri accidentati che la vita ci pone continuamente di fronte. Chissà se fosse ancora qui quanto ancora avrebbe detto e scritto, quanto ancora avrebbe “distillato” per noi – suoi lettori, ma in qualche caso speciale anche suoi amici – il sapere che faceva da bussola in primo luogo per lui. Senza però dimenticare l’ironia con la quale vedeva se stesso, il gusto della narrazione, grazie alla quale veniva naturale abbandonare orologi e telefoni cellulari da qualche parte, per dimenticarsene volutamente e poi ritrovarli meravigliati di essere stati così tanto assenti, assorbiti, come solo una volta – quando i cellulari non c’erano – si poteva essere. E con Luca era sempre tutto tempo guadagnato, si aveva sempre l’impressione di portare a casa qualcosa, spesso un regalo in forma di narrazione.
Mi manchi Luca e se manchi a me, che pure sono passato di sfuggita nella tua vita, non oso pensare a quanto manchi a persone con le quali hai condiviso di più. Un abbraccio, a te che hai promesso l’ultima volta – te lo ricordi? – che saresti andato solo dietro l’angolo, forse memore di quel Pessoa che diceva: «La morte è la curva della strada, morire è solo non essere visto».