Ieri sera ho visto l’ultima puntata della seconda serie di un anomalo serial televisivo inglese (molto british english) dal titolo Sherlock. A questo link la genesi e sinossi della serie che è anomala perché ne vengono prodotti solo 3 episodi all’anno e della durata di 90 minuti ciascuno (praticamente dei film).
La “scienza della deduzione”, cui si ispira l’opera originale di Conan Doyle, è qui portata all’estremo: Sherlock ragiona (e deduce) a una velocità ennesima rispetto a una persona normale e, basandosi su particolari apparentemente insignificanti, giunge a conclusioni (sempre) corrette. Certo: lo Sherlock Holmes di Doyle è di epoca vittoriana: da un punto di vista scientifico siamo in pieno positivismo e determinismo. Sono gli anni in cui, mentre Doyle dà alla luce il suo detective, Lombroso dà credibilità alla frenologia, alla misura dei crani, a quell’ineluttabile determinazione del destino legata a una precisa conformazione fisica del cranio: se ce l’hai sei un criminale. La cui logica conseguenza è che non c’è più redenzione: se sei criminale lo sei per genetica e genìa: le strutture carcerarie e detentive non hanno più lo scopo di correggere, ma di separare definitivamente le mele marce della società. E mentre questo accade, Zola, uno dei grandi scrittori di Francia, dà vita al ciclo dei Rougon-Macquart dove le tare ereditarie si passano da una generazione all’altra: se tuo padre è stato alcolista e ubriacone, non potrai che diventare tu stesso alcolista e ubriacone.
Un mondo terribile, insomma, in cui non c’è spazio per il caso, per il dettaglio insignificante. L’acume di Sherlock infatti a un certo punto si infrange contro l’intelligenza di Moriarty, il suo alter ego e la sua nemesi: quest’ultimo infatti si finge per ciò che non è e si presenta a Sherlock – eccezionale segugio – mostrandogli una serie di “tracce” che volutamente porteranno il detective a conclusioni completamente sbagliate. La pista c’è, ma in questo caso è falsa.
Questo serial è stato trasmesso sulla BBC e se un popolo si vede (anche) dalla televisione che guarda, beh, allora ognuno ha la televisione che si merita.
Non esiste nulla di paragonabile in Italia, sebbene mi pare che non ci manchino opere letterarie alle quali ispirarci.
Ah, ovviamente gli episodi – di cui non possiedo la versione italiana – li ho visti sottotitolati: pensavo di conoscere un inglese minimo, ma dopo aver visto – e soprattutto: udito – a quale velocità e come parlano, la frequenza con cui capisco una parola all’interno di una frase è di gran lunga inferiore a quella che pensassi. La maggior parte del tempo gli occhi puntano ai sottotitoli che per altro vanno velocissimi quando Sherlock pensa a voce alta. Gasp, l’inglese è una lingua che non conosco!