L’altra sera, in assenza di meglio (Sanremo giammai! Preferisco andare a letto senza cena…), mi sono (ri)visto – ebbene sì, credevo di NON averlo visto, ma poi invece qualche ricordo è tornato e con esso qualche preoccupazione sulla tenuta della mia memoria… – The Midnight Sky, un film di e con George Clooney.
Un film che faccio fatica a definire: è una fantascienza molto sui generis, nel senso che sì il film è ambientato nel futuro, ma è un futuro talmente vicino (2049) che potrebbe alla fine essere anche oggi. O meglio: no, oggi no. Nel senso: da qui a 30 anni (anche scarsi) le previsioni di come andrà il mondo sono tendenzialmente piuttosto catastrofiche, al punto che tra le ipotesi c’è anche un completo scioglimento dei ghiacciai artici (metto qui il link a un articolo de Il Sole 24 Ore), soprattutto per un deleterio effetto autorinforzante (ma negativo) dell’albedo – spiegato comunque nell’articolo.
Clooney invece, nonostante questa ipotesi se ne sta relativamente tranquillo in una base artica non meglio specificata dove ghiaccio e tormente imperversano ancora abbastanza serenamente, e vabbè. Siamo già tornati in piena era di viaggi spaziali, almeno per ciò che concerne il nostro sistema solare, alla ricerca di un esopianeta (un pianeta cioè che per caratteristiche possa essere simile alla Terra e quindi abitabile e colonizzabile da noi umani, così tanto per vedere in quanto tempo riusciamo a disintegrare anche quello) che pare sia un fantomatico satellite di Giove di cui non ci siamo accorti fino ad ora (ovviamente nella finzione della pellicola), chiamato K23 forse in assonanza con un reale esopianeta, K2-3 d, che però ha solo il difettuccio, tra molti altri che non ne garantiscono una “vera abitabilità”, di trovarsi a 137 anni luce da qui. Insomma se si viaggia per tutto il tempo a 300mila chilometri al secondo lo si raggiunge in 137 anni. E’ vero che nell’intorno di quelle velocità il tempo trascorre molto più lentamente (relatività einsteiniana), ma sempre 137 anni sono!
Comunque: il film si fa presto introspettivo. Lui è solo in questa base, è malato terminale (cancro?), è (stato) uno scienziato di fama, incapace di una relazione sentimentale stabile (pure questo un po’ un cliché…) che in sostanza fa i conti o meglio: fa lo spettatore di quello che a tutta prima sembra un conflitto nucleare mondiale, mentre una missione spaziale tenta di rientrare dal fantomatico K23… C’è quindi una vicenda personale innestata sull’onda dell’apocalisse di fronte alla quale i pochi umani che interagiscono [lui, dentro la base, con fuori un tempo perennemente ostile e il rischio che da un momento all’altro l’area venga contaminata dalle radiazioni nucleare; gli altri, dentro un’astronave che, appena fanno una passeggiata fuori, vengono letteralmente presi a sassate dai frammenti di un asteroide (supponiamo) esploso chissà dove e chissà quando (scena che riprende abbastanza da vicino – e mostra molto bene quanto sia ostile lo spazio al di là del sottile guscio che preserva la vita – le scene di un altro film – che ho trovato francamente migliore di questo – Gravity, del 2013) e una del già sparuto gruppetto dell’equipaggio ci lascia le penne…] non possono che constatare la loro impotenza insieme alla loro idiozia collettiva.
Così la Terra diventa “fionda gravitazionale” per l’astronave che fa una inversione a U e torna su K23, mentre il mondo muore tra radiazioni, stenti e patimenti (immaginiamo, visto che il film già così dura 2 ore…). Bah, che dire? Bello il paesaggio, bella la fotografia, ma la storia, a parte il pessimismo cosmico e personale di cui è intrisa (di cui francamente non sentivamo un gran bisogno…), non sembra avere grande consistenza (ma devo essere in minoranza perché il film pare abbia preso un certo numero di premi).
PS: per avere un’idea anche semplice di quanto sia pericoloso “stare là fuori” leggete questo articolo…