Afghanistan e i soldi per fare la guerra

Reduce dal “discorso alla nazione” di Joe Biden finito qualche ora fa, e trasmesso in diretta anche alla nostra di nazione, ascolto, basito, la cifra che è costata ai soli Stati Uniti questa guerra ventennale: 300 milioni di dollari al giorno, tutti i giorni, per 20 anni. In un anno sono 109,5 miliardi di dollari che, moltiplicati per 20 anni, fanno 2109 miliardi di dollari o, nell’uso statunitense, 2,1 trilioni di dollari (approssimando per difetto).

Quante altre cose si possono fare con tutti questi soldi, con uno sforzo economico così ingente? Fatico a scegliere, ma essendo diciamo “sensibile” alla questione energetica e quindi alla sua auspicata e auspicabile transizione, per non far bollire noi stessi di effetto serra e per offrire un po’ di giustizia e di equità sociale (che, ce lo dimentichiamo troppo in fretta, passa soprattutto dall’energia – perché le guerre si fanno soprattutto per questo…), scelgo questo: la transizione energetica.

Allora faccio due conti della serva, basandomi sulla mia modesta esperienza personale. Nel 2019 ho installato un impianto fotovoltaico sul tetto di casa mia della potenza (di picco) di 6 kW, con delle batterie (con capacità di accumulo di 7,2 kWh) per essere – a queste latitudini – quasi indipendente dal gestore dei servizi elettrici (GSE) per quasi tutto l’anno (certo: d’inverno, con giornate corte e magari piovose, un po’ di corrente la chiediamo, per carità… ma è proprio poca e le mie bollette in sostanza consistono di fatto in oneri fissi di allaccio alla rete, senza contare quella che in rete ributtiamo e che quasi regaliamo, visto che viene ripagata praticamente nulla).

Da utente finale, grazie agli incentivi che c’erano all’epoca (sostanzialmente fiscali), la detrazione, anziché essere fatta nei 10 anni a venire sulla dichiarazione dei redditi, poteva essere ceduta tutta e subito alla ditta che ha eseguito l’impianto, così per un impianto “chiavi in mano” dal costo nominale di 15mila euro, ne ho spesi esattamente la metà, 7,5 e lo sgravio fiscale che mi sarebbe toccato nei 10 anni successivi l’ho, appunto, ceduto all’azienda (si chiama “cessione del credito”, appunto). Non ho crediti da vantare, ma ho avuto un formidabile sconto subito.

Continuiamo col conto: diciamo quindi, per approssimare e farla semplice, che anziché 7mila e 500 euro ne ho spesi 6mila (magari i costi si sono ulteriormente abbattuti in questi due anni e io sto parlando sempre da utente finale…) e quindi posso fare una equivalenza del tipo mille euro per kW installato, “chiavi in mano” (cioè a impianto funzionante). La ditta inoltre mi garantisce, da contratto a queste latitudini (vale a dire “circa” centro Italia), una produzione annua di 7.200 kWh (per i primi 5 anni, poi ci sarà senz’altro una flessione nel rendimento dei pannelli, ma queste flessioni sono molto contenute). Il cambio euro/dollaro di oggi è 1:1,18 ovvero 1 € = 1,18 $. Compensiamo la stima per difetto di prima (1 kW installato = 1000 € e quindi per installare 1 watt ci vuole 1 €) con quella in eccesso di adesso, dicendo che il dollaro è uguale all’euro, in un rapporto 1:1, così la cifra dei 2,1 trilioni di $ diventa di 2,1 trilioni di €. Ma solo per fare i conti pari e “spannometrici” (e, per carità, teorici: a queste “scale” ovviamente gli investimenti dovrebbero essere strutturali – e i costi si abbasserebbero ulteriormente…).

Insomma con questi soldi la potenza installata potrebbe essere quindi di 2,1 trilioni (2,1 * 10^12) di watt che, ipotizzando Pisa (dove vivo) caput mundi con una produzione annua minima come quella garantitami (7.200 kWh/anno che risulta sicuramente più elevata anche solo spostandosi in sud Italia) significa 2.530.800.000.000.000 (1) (due miliardi e cinquecentotrenta milioni e ottocentomila… miliardi di) Wh, ovvero 2.531 TWh (terawatt/ora – il prefisso “tera” = 10^12) all’anno.

Sapete qual è stata la domanda di elettricità nazionale per il 2019 (il 2020 non l’ho preso in considerazione essendo un anno comunque anomalo per il lockdown pandemico)? 316,6 TWh (a questo link la fonte del dato), ovvero un ottavo di quello che – ipotizzando di poter investire tutti i soldi della ventennale guerra in Afghanistan in qualcosa di utile come la messa in opera massiva di pannelli solari – questa potenza installata avrebbe potuto produrre. L’avremmo fatta la transizione energetica in Italia? No, ne avremmo fatte 8!!!

Ma vediamo questo dato per gli Stati Uniti che, sempre nel 2019, ha avuto un consumo di 3.955 miliardi di kWh (a questo link la fonte del dato), quindi 3.955 di TWh. Ecco, qui non ce l’avremmo fatta a coprire il fabbisogno complessivo, visto che 3.955 è superiore a 2.531, ma una bella mano se la sarebbero data pure loro e stiamo pur sempre parlando di una delle prime potenze mondiali (diciamo la prima insieme alla Cina)!

Questo solo per citare la prima cosa che mi è venuta in mente – ma che sarebbe una cosa di vitale importanza per sfuggire alla trappola energetica nella quale ci siamo cacciati, visto che dipendiamo ancora oggi per oltre l’80% da fonti fossili e atmosfera, mari, oceani e terra non ce la fanno più ad assorbire anidride carbonica.

E tutto questo senza contare le vite umane. Perse. Per sempre. Valore? Non monetizzabile, infinito, fuori scala. Siamo veramente animali di una stupidità formidabile!

(1) per ottenere questo numero ho diviso i 2,1 TW per 6 kW – la dimensione del mio impianto – a cui però equivale la “produzione garantita” di 7.200 kWh/anno.

La nostra Twingo elettrica in ricarica, a casa (in una bella giornata di sole…)

Buttarla in politica (e sdoganare ciò che non si può sdoganare)

In un momento drammatico sulla scena internazionale, come quello che stiamo vivendo – in televisione… – sulla situazione afgana, sembrerà quasi fuori luogo parlare della politica nostrana, anzi della nostra “storia politica”, ma sono reduce dalla lettura de Il fasciocomunista di Antonio Pennacchi (Mondadori) e immerso nella lettura di Canale Mussolini (sempre suo, sempre Mondadori). Libri ben scritti, scritti “dalla parte” del popolino e quindi con semplificazioni utili a comprendere i meccanismi che stanno dietro le scelte politiche, gli eventi storici e quant’altro. Cose che, chi ha un minimo di letture e di interesse alle spalle, in realtà sa (sa che Mussolini “nasce” socialista, per esempio, ma poi prende la deriva che sappiamo, molto ben motivata in questi libri che sono scritti dalla parte dei fascisti), ma che rischiano di rendere poca giustizia a quel che stare da una parte o dall’altra ha comportato negli anni che vanno dalla nascita, appunto, del fascismo, a tutto il dopoguerra per arrivare a noi. Ne Il fasciocomunista, per esempio, ci sono momenti anche “divertenti”, quando il protagonista, Accio Benassi, da ragazzino convinto fascista, attivo politicamente – e il libro mette ben in evidenza cosa significhi questa espressione per la Destra cui lui appartiene, vale a dire: menare il prossimo di parte avversaria o comunque scontrarsi sul piano fisico, evidentemente non potendolo/riuscendolo a fare su quello verbale/argomentativo – viene attratto in realtà dal Comunismo, o almeno dalle ragazze che fanno attività politica dall’altra parte. Vale la pena riportare il pezzo:

Lui puntava la sorella più grande di Francesca, una battaglia persa. Quella faceva tutta la saputa. lo sono marxiana atea esistenzialista dichiarò al Cordusio (pare che adesso tutti dicano «a» Condusio, ma noi allora dicevamo «al»), all’angolo della banca dove c’era il fioraio, sopra il marciapiede. Me lo ricordo come fosse adesso, poiché per poco non cado per terra. È una frase che m’ha estasiato. M’ha cambiato la vita e per un attimo mi sono innamorato, anch’io, più di lei che di Francesca.

Erano mesi oramai che leggevo “Urania” – tutti quelli di Serse, che li comprava settimana per settimana – ed ero diventato un patito di fantascienza. Li ho letti tutti quanti e quando quella ha detto «marxiana» – che io non lo avevo mai sentito prima in vita mia; solo «marxista», anche da Violetta e il marito – quella lo ha declamato in milanese, con la «x» che sembrava una «s»: «marsiana». Ma loro anche la «z» la pronunciano come la «s» e io ho quindi capito «marziana», cittadina di Marte, ed era tutta seria – convinta – e avevo pensato: «Questa è meglio di noi», perché pure noi credevamo agli extraterrestri, ma solo tra di noi, non è che fossimo così convinti da farne un manifesto politico. E invece questa che arriva e dice seria seria: «Io sono filo-marziana, li sto ad aspettare e sto dalla parte loro» a me m’era sembrata meglio di Anita Garibaldi.

Poi s’era capito l’equivoco e io non ho nemmeno insistito, per non fare la figura dell’allocco. Serse invece era scoppiato a ridere – ma per «atea esistenzialista» – e aveva fatto la faccia: «Mi sa che non è aria». A me invece quel «marsiano» m’è rimasto impresso in mente e anche adesso, che è caduto il muro di Berlino, io continuo a dichiarare irriducibile: «Sono marxiano»; ma sempre più per Marte che per Marx. Ateo-esistenzialista no, viene da ridere anche a me.

Ecco, oggi si sorride insieme al protagonista dei sofismi legati alle definizioni (soprattutto di una certa sinistra intellettualoide anni ’70) e alle appartenenze delle mille correnti indecifrabili che furono, ma quella sinistra a me personalmente ha “regalato” persone come il mio ex professore di Italiano, Luciano Ferrari verso cui il debito per la mia formazione umana, personale (e perché no, anche di orientamento politico) è inestinguibile. La sua vicenda è narrata qui, dal genero Luca Soldati, in un libro per me toccante, perché ho conosciuto Luciano anche fuori dall’ambito strettamente scolastico.

Il rischio è quindi quello di far finire – come spesso accade in questo paese – tutto a “tarallucci e vino”: fascisti e comunisti alla fin fine erano “uguali” perché volevano le stesse cose ma con mezzi diversi e hanno quindi scelto strade diverse (tesi dei romanzi di Pennacchi) e altre amenità di questo genere.

Nell’ambito di questa voluta confusione – volta sempre un po’ a una forma sottile e subdola di revisionismo storico – entra anche l’episodio narratomi dall’amica Maria Del Giudice, figlia del Comandante partigiano Pietro Del Giudice, intervenuta pubblicamente, in polemica con l’amministrazione di Massa (nel 2019), per un monumento da realizzare per Ubaldo Bellugi (di cui scopro esistere anche un profilo Wikipedia nel quale si tessono le lodi del buon amministratore oltre che del poeta dialettale, originario per altro della frazione, Borgo del Ponte, di cui mio padre è originario e io stesso ho vissuto gran parte della mia adolescenza e gioventù). L’intervento di Maria, con la replica di Franco Frediani – lo storico che fu promotore di questo monumento commemorativo – si può leggere ancora qui e l’aspetto che ho trovato più interessante non è tanto l’intervento di Maria, di cui conosco il pensiero, quanto quello dell’altro che, colto nella flagranza dello sdoganamento del fascista che Bellugi fu, devia l’attenzione sui suoi meriti poetici: insomma, non si celebra il Bellugi podestà, ma il poeta, tacciando Maria di essere, in tal senso, scarsamente democratica (“La poesia viene regolarmente studiata in molte scuole cittadine e che a lei piaccia o no, è nel cuore di tanti massesi. Ma lei è liberissima di non apprezzarla, lasci però, visto che siamo in democrazia, che possano apprezzarla chi come lei non la pensa“). Insomma la tecnica è consolidata: io provo a sdoganare la qualunque facendo attenzione che la qualunque abbia in ogni caso un merito che non sia attacabile politicamente: se nessuno dice niente ho vinto – un punto a me – e se qualcuno dice qualcosa allora mi appello alla democrazia, agli inalienabili diritti della cultura e suono la fanfara dell’oscurantismo (di sinistra). Fin troppo facile, ma la domanda resta: ma, mi scusi, signor Frediani, ma il Bellugi fascista convinto e poeta non erano una sola persona o siamo davanti a un caso di conclamata schizofrenia?

Allora, mi si dirà, non si deve più studiare Heidegger perché era colluso o quanto meno simpatizzante del nazismo? Non ho detto questo: studiare sì – per carità, altrimenti non sarebbe democrazia (forse il discorso di Frediani è da intendere in questo senso, per salvarlo in extremis) – ma magari cercare di fargli dei monumenti no, forse, per favore, se possibile. Ma il monumento, la stele o quel che è, è alla poesia. Ah! Ma l’autore della poesia è sempre quello di cui sopra, o no? E, come dicono a Roma, “stiamo da capo a dodici”.

Chiudo: la damnatio memoriae è sempre sbagliata – perché la memoria è un “esercizio” che va coltivato sempre – ma elogiare complessivamente un personaggio di dubbia fama che questi meriti li ha avuti solo “parzialmente” – e magari in un ambito culturale, lontano dalla prassi quotidiana – sarebbe quanto meno da evitare e da evitare soprattutto nello “spirito del tempo”, nello zeitgeist, che ci è proprio: quello della facile dimenticanza di ciò che fu.

Il Comandante Pietro Del Giudice, primo prefetto di Massa, nel dopoguerra in abiti civili

Il Comandante Pietro Del Giudice, primo prefetto di Massa, nel dopoguerra in abiti civili

 

Andarsene

Scrivo da questo ferragosto rovente, in “auto-confino” (e i motivi del confinamento autoimposto sono sempre gli stessi: la non voglia di prendere ulteriori caldi; la non voglia di condividere spazi sempre più angusti perché sempre più affollati – come spiagge e altro – con i miei consimili e via, giù da questa china…), dopo un breve giro di mattina presto, sul Monte Serra.

Motivo di questa scrittura è la dipartita di persone la cui assenza peggiora la qualità del mondo in cui viviamo: penso a Gino Strada ma, più da vicino, alla scomparsa improvvisa di una collega di lavoro del CNR, Laura, pochi giorni fa. Una di quelle persone che migliorano la qualità di un gruppo – insieme facevamo parte di quello che si occupa delle iniziative di divulgazione scientifica all’interno dell’Area della ricerca di Pisa – che mediano, che smussano, che cercano soluzioni, che si “sbattono” per dare qualità alle cose.

Ecco Laura se n’è andata, senza dire niente a nessuno. Complice la maledetta pandemia, che ha diradato i rapporti di tutti con tutti, ci eravamo persi un po’ di vista e le conferenze che organizzavamo, che pure si erano fatte online, avevano un altro sapore e un’altra natura. Scopro, dalla chat che con lei avevo su WhatsApp, che il nostro ultimo dialogo risale al 10 marzo. Non so se già a quell’epoca ci fossero avvisaglie di ciò che ce l’avrebbe portata via, ma il suo messaggio esordisce con un: “Ciao Luciano. E’ da tanto che non ci sentiamo. Ma vedo dai tuoi messaggi che stai bene e che hai in corso progetti interessanti.”

Sarà una suggestione, ma col senno di poi questo esordio suona tanto come un addio dissimulato (nel seguito del messaggio parla della sua impossibilità a partecipare a una riunione online). E allora vengono i dubbi che sempre ci attanagliano in questi frangenti: e se fossi stato più “attento”? E se fossi stato capace di leggere meno superficialmente quelle parole? E se… se… se…

L’amica (Antonella) di una mia antica fidanzata, Isabella, decise di darsi la morte – i due casi ovviamente non sono neppure confrontabili, ma la sensazione che “l’ultimo messaggio” lascia invece un po’ sì – e decise di salutare un’ultima volta tutti gli amici e le amiche. Sapevamo che in passato aveva sofferto periodi di depressione, ma nessuno sembrava capace di immaginare una cosa simile: Antonella aveva salutato tutti perché aveva deciso di lasciarci. E nessuno capì, purtroppo, nessuno fu capace di percepire quello che invece percepì il figlio del contadino protagonista di uno dei più bei racconti di Beppe Fenoglio, Il gorgo (che potete ascoltare dalla voce di Giovanni Lindo Ferretti, a questo link).

Così quello che mi rimane in questa giornata agostana, in un mondo arroventato e appiattito da questo sole implacabile, è la sensazione di non aver capito. Mi si dirà: ma non potevi capirlo, nessuno avrebbe potuto. Certo: ma la sensazione rimane. E se anche avessi potuto capire, cosa avrei potuto fare? Forse niente. Le sensazioni, le percezioni però non rispondono al cervello ma al cuore e nessun argomento razionale vale ad attenuare questa sensazione. Tutto questo passerà, certo. Ma il messaggio di Laura del 10 marzo rimane lì, nella chat, ultimo contatto, ultima battuta di un dialogo, ultimo contatto.

Vaccinarsi

Vorrei spendere due parole su alcuni fatti di cronaca che periodicamente tornano alla ribalta e riguardano la spinosa questione dei cosiddetti “no vax”, una galassia in realtà molto eterogenea, fatta di molte “anime” (molte delle quali diremmo insospettabili…) che vanno da quella moderata dello scettico impenitente, fino al complottista con il quale viene difficile instaurare un qualsiasi tipo di discorso, perché di sicuro ne usciremmo perdenti (e questo accade invariabilmente perché il confronto è impari: il tuo interlocutore ha verità “in tasca”, rivelate, che tu di sicuro non hai e quindi hai perso).

Sulle vaccinazioni si è sentito di tutto e di più: in “tempi non sospetti” mi accadde di avere a che fare con un avvocato (… se dico insospettabili …) che aveva preso a cuore la (inesistente) relazione tra vaccini e autismo e a spada tratta, per quanto la scienza avesse a più riprese confermato che non c’è nessun tipo di legame tra le due, nelle aule dei tribunali andava difendendo le famiglie che si sono ritrovate ad avere un figlio (o una figlia) autistico/a dopo la somministrazione di un vaccino di quelli che normalmente si fanno (il Covid aveva ancora da venire).

Lo stigma dei vaccini è dunque precedente al Covid e non è bastato né bastano le morti di medici e infermieri che si sommano ai degenti per raggiungere la ragguardevole cifra di quasi 130mila individui nell’anno e mezzo pandemico che abbiamo vissuto. Non basta che questa cura sia gratuita, così come nel nostro Paese lo è, in generale, la sanità. Non bastano queste “fortune” invisibili ai più, sempre disposti a criticare il sistema (in questo noi italiani siamo dei campioni), ma mai capaci di fare una fila ordinata e sempre pronti a vedere lesa la propria libertà individuale anche se il bene in gioco è in primis la salute propria e dei propri cari.

Sono cose che si vedono e si sentono: basta accendere la tv, una tv pietosamente costretta a dirigere l’informazione sui casi esemplari, come quello del ragazzo a cui è morto il padre, medico di medicina generale, e trovandosi in mezzo a un corteo di “no vax”, ha tentato di difenderlo, a cercare di raccontare la sua storia tra i fischi e gli sberleffi di questi idioti patentati, convinti di avere la verità in tasca perché l’han letta su internet (qui la notizia). Questo fa il paio con una notizia che sempre mi stupisce, ma che alla fine è sempre un po’ la stessa: in questo Paese, nell’anno domini 2021 (non nel 1861) su 10 italiani 4 NON leggono MAI neanche un libro (uno, uno qualunque) in un anno – e questo pare essere vero, anno dopo anno.

Ora, un dato interessante sembra emergere da questa ultima ondata che dobbiamo principalmente dalla “variante delta”: secondo l’Istituto Superiore di Sanità, ovvero: «Quasi 99 deceduti per Covid su 100 dallo scorso febbraio non avevano terminato il ciclo vaccinale, e fra quelli che invece lo avevano completato si riscontra un’età media più alta e un numero medio di patologie pregresse maggiori rispetto alla media». (cito letteralmente da qui)

La premessa è che in democrazia c’è posto per tutti (magari in certi casi non ci dovrebbe essere, ma di fatto c’è e questa alla fine vediamola come una conquista): per quelli che si vaccinano, per quelli che non si vaccinano, per quelli che… ecc. ecc. La parte con risvolto socio-politico più interessante sta nel fatto che, alla luce del dato appena enunciato se fossi – come dico sempre tra il faceto e il faceto – “eletto democraticamente dittatore” emetterei una legge con valore immediato per la quale le persone che decidono (per motivi che alla fine non voglio sindacare e getterebbero quasi invariabilmente ai miei occhi loro stessi in grande discredito) di NON vaccinarsi MA si ammalano e vanno a finire in terapia intensiva, PAGANO di tasca propria le cure mediche.

Diversi anni fa – parliamo della prima decade degli anni 2000 – sapevo abbastanza esattamente quanto costava un posto letto in terapia intensiva (comprensivo di farmaci, personale, strutture, strumentazioni…): 3.500 euro al giorno. Una cara amica che si occupa di Health Technology Assessment (questa roba qui) per la Regione Piemonte, mi diceva che oggi siamo sui 4.500/5.000 (dipende poi anche dalle politiche regionali).

Bene, bene tutto, anche l’irresponsabilità di non vaccinarsi perché ti sei – nel mia modestissima opinione – fatto riempire il cervello di cazzate complottiste/negazioniste, ma fino a un certo punto: ogni pazienza ha un limite e questo limite dovrebbe essere, guarda caso, economico. Decidi pure di non vaccinarti ma augurati che ti vada sempre bene, perché se all’ospedale ci finisci – e “io Stato” sono comunque costretto a curarti – beh, allora davvero paghi. Paghi perché il vaccino è gratis e perché la sanità nazionale (finché c’è e tiene duro) è gratis e (mediamente) funziona, ma “nessun pasto è (veramente) gratis” e io contribuente alla fine mi sarei anche un po’ rotto le scatole di pagare anche per i cretini che non si vaccinano. Questo, alla fine quello che penso e che decido, come sempre, di scrivere in questo mio piccolo spazio personale.

Riflessioni a caldo su un gatto disperso

Avevamo un gatto. Può sembrare esagerato dire che era una gioia averlo in casa e ci faceva compagnia. Sembrano frasi fatte che forse, neppure troppo tempo fa, avrei bollato io stesso come patetiche. Forse. Perché il retropensiero che ho sempre avuto per chi si sperticasse troppo in lode dei propri animali domestici, è sempre stato di etichettare queste persone come “rinunciatarie”, perché in fin dei conti con i “pet” i rapporti sono semplici e non c’è contraddittorio… e poi con tutti i poveri cristi che ci sono in giro mi è sempre sembrato anche egoistico riversare energie solo per il benessere di queste bestiole, mentre magari non si riesce a vedere il vicino di casa che ha un problema…

Insomma andava così fino a quando poi un animale timidamente arrivò prima nella vecchia asa di Zambra (sempre un gatto, con una somiglianza straordinaria con quello che abbiamo poi preso quando ci siamo trasferiti un paio di anni fa in questa casa…) e poi, appunto, quando deliberatamente decidemmo di adottare un gatto che era randagio, aveva subito un incidente pauroso, ma che, come tutti i gatti che si rispettino, nonostante gli “ammaccamenti” era tornato bello vispo e pimpante qui a casa nostra. Ce ne siamo presi cura e lui – “manipolatore” come solo i gatti sanno esserlo – ha ricambiato con affetto e riconoscenza. Il lungo periodo di lockdown ha fatto il resto, cementando questo rapporto che sembrava non dovesse finire mai.

Siamo partiti per qualche giorno di ferie e, come è accaduto per altre partenze, ci siamo avvalsi negli anni scorsi di una cat sitter che però quest’anno non ha potuto prenderlo perché doveva fare delle ristrutturazioni a casa. Abbiamo cercato in lungo e in largo (non è facilissimo trovare persone che tengano “a pensione” il gatto…), ma alla fine ci siamo decisi per uno che a tutta prima ci è sembrato sapesse il fatto suo, salvo il fatto… di telefonarci 3 giorni dopo avergli lasciato il gatto, per dirci che lo aveva perso: il gatto è scappato e si è volatilizzato. Eravamo in Sicilia, in aereo e quindi vi lascio immaginare il senso di frustrazione e di impotenza di fronte a questa faccenda. Sono passati altri 12 giorni prima che potessimo essere di nuovo qui a Pisa, domenica mattina appena passata, e già da subito ci siamo messi alla sua ricerca, così come avevano fatto nei giorni precedenti molti nostri amici che si sono mobilitati con volantinaggio e richiesta di informazioni.

L’aspetto più deprimente e nello stesso tempo che mi ha letteralmente reso furibondo è stato l’atteggiamento di questo “professionista” della cura dei gatti (persona consigliata da una associazione che qui a Pisa si occupa dei gatti randagi e non solo…) che in sostanza non ha fatto nulla per tutto il tempo e, di fronte alle nostre reiterate telefonate per avere notizie e per sapere “come si sarebbe mosso”, si è anche dimostrato “scocciato”. Chi mi conosce sa che sono una persona dall’indole abbastanza mite, ma di fronte all’ennesima (sua!!!) lamentela ho alzato la voce al telefono urlandogli che era un imbecille, sancendo così la fine dei rapporti.

Perché può anche succedere che il gatto ti sfugga (anche se non dovrebbe, visto che sei un “professionista”…), ma che, DOPO che questo è accaduto, di fatto non fai niente dopo averci tolto un pezzo della nostra vita, questo no! Così, come due cretini ieri a pranzo, ieri sera dopo cena e stasera di nuovo dopo cena, battiamo strada per strada, androne per androne, ci affacciamo quando si può nelle corti interne chiamando a gran voce il nostro gatto che non c’è più. Può sembrare patetico ma non lo è. Gli animali sono davvero lo specchio dell’innocenza e stanno prima del peccato originale che riguarda solo noi esseri umani. Ed è questo che fa più male: io l’ho preso per metterlo nel trasportino e lui si è affidato a me, si è fidato di me, perché quando lo prendevo in un certo modo girandolo con le zampe in su, si abbandonava come un cucciolo e l’ho portato io con le mie mani da quella testa di cazzo (questo è il mio blog e non mi censuro) che stasera, visto che siamo passati sotto casa sua (il gatto lo cerchiamo dove si è perso e quindi anche lì) mia moglie vedeva una luce accesa e sentiva il rumore della televisione uscire dalla finestra di casa di questo testa di cazzo che per un attimo molto lungo sarei andato a prendere salendo le rampe delle scale a 4 a 4 per suonargliele di santa ragione… ma sarebbe servito? Questo mi fa ritrovare il mio gatto? No. Non serve prendersela con un coglione di questa risma (e assicuro che non gli conviene incrociarmi per strada perché finché non mi sarà sbollita sono davvero pronto a menarlo, ‘sto stronzo).

Pisa, nel centro (per chi la conosce: di fatto in Piazza Santa Caterina) è un dedalo: il gatto potrebbe davvero essere ovunque. Qualche giorno dopo la scomparsa era stato visto in una di queste corti interne e una nostra amica, dietro segnalazione di una signora, era quasi riuscito a prenderlo: mia moglie l’aveva chiamata e col telefono in viva voce chiamava il gatto che ha sentito la voce di mia moglie e ha miagolato forte, ma non si è fatto prendere. Viviamo troppo distanti da quella zona perché possa tornare qui da solo e poi ha una fifa blu delle auto (per fortuna), dopo quello che gli è successo. La tempesta perfetta. Quanto ancora andremo avanti? Io esco da queste sessioni di ricerca distrutto nell’animo ed è solo il secondo giorno. Dove sarà questo gatto e cosa penserà di noi che l’abbiamo abbandonato, tradito? Forse sto “umanizzando” troppo e i gatti non pensano e non provano ciò che noi umani proviamo e pensiamo, ma come si fa a non umanizzare il rapporto con una bestiola che non chiedeva nulla, se non compagnia e un po’ di cibo?

Mi si dirà: era “solo” un gatto. Sì ma era il “nostro” gatto e tutto ciò che di speciale poteva ancora esserci nel nostro rapporto con lui se n’è andato, forse per sempre.

Basta, forse sono solo stanco, ma un’esperienza così non ci voleva davvero.

 

The Father, ovvero: la disintegrazione dell’individuo

Siamo stati ieri sera al cinema all’aperto – una cara vecchia bella usanza di cui abbiamo sentito molto la mancanza (pure in rima!) – per vedere il premio Oscar (preso anche con questo film) Anthony Hopkins interpretare il ruolo del protagonista: un uomo, un ingegnere, che “scompare” per una demenza non meglio identificata (semplice demenza senile o, più probabilmente, Alzheimer? Nel film, nonostante la scenda del consulto con la specialista, non viene detto).

Faccio un paio di passi indietro: il primo riguarda l’essere venuto “a contatto” – in via del tutto teorica – con la malattia quando ho lavorato per un biennio in una grande multinazionale farmaceutica (di cui non dirò il nome, ma che è tra quelle che ha realizzato un vaccino tra i più efficaci…) che produce(va) un farmaco considerato una promessa per il rallentamento della degenerazione tipica di queste malattie. Ci avevano “formato” su questo e posso assicurare che già lì veniva un po’ da piangere. Per “esorcizzare” ci avevo scritto un paio di articoli di divulgazione scientifica che credo si trovino ancora in rete da qualche parte (gli umani dimenticano, la rete quasi mai…).

Il secondo passo indietro è quella fantascienza che – sempre specchio delle umane paure, tribolazioni e distopie – tocca da vicino le corde di questo tema così delicato e devastante per gli esseri umani. Due episodi: il primo è un vecchio corto della strabiliante serie di Ai confini della realtà – ma nelle versioni più vicine a noi e non in quelle in cui Rod Serling annunciava gli episodi aspirando ampie boccate dalla sua immancabile sigaretta… Tra le versioni più datate e quelle più recenti infatti correva quasi un fattore 10 per la durata degli episodi: mentre i più vecchi erano quasi dei minifilm, quelli recenti erano letteralmente folgoranti – in tre, quattro minuti precipitavano lo spettatore in situazioni paradossali, misteriose, in quella Twilight zone che tanto riscosse successo. In uno di questi brevissimi episodi, un padre di famiglia torna a casa dal lavoro e interagisce normalmente con i propri familiari: moglie e figli. Poi si mette a leggere e certe parole cominciano a sembrargli essere stampate male, con lettere invertite oppure quasi che nella composizione la macchina da stampa fosse impazzita scrivendo “dhdweifg” mentre il resto del discorso continuava a rimanere comprensibile. Poi però questo “difetto” si aggravava fino ad arrivare a interi paragrafi del tutto incomprensibili. In contemporanea anche l’interazione con i propri cari si fa via via sempre più difficoltosa: lui letteralmente non capisce più cosa questi gli dicono e gli sembra che parlino una lingua vieppiù incomprensibile, secondo lo stesso andamento che aveva trovato nella lettura: all’inizio le parole che non recepisce sono poche, ma poi intere frasi pronunciate sono incomprensibili a lui (e a noi spettatori che continuiamo ad avere il suo punto di vista). Ecco: la drammaticità potente ed “educativa” del film di ieri sta proprio in questo, nel punto di vista che rimane strettamente quello del protagonista il cui mondo sembra letteralmente impazzire intorno a lui – al punto che, a un bel momento del film, ho pensato proprio quello che Hopkins dice, ovvero che ci sia una specie di “congiura” della figlia e del compagno per farlo passare per pazzo e avere così accesso ai suoi beni…

la locandina del film

La locandina del film

Insomma, di film sulla malattia di Alzheimer ne sono stati fatti e se ne sono visti, ma diventa straniante e terrificante “essere Hopkins” (per altro sembra non esserci “mediazione” tra il protagonista e l’attore: entrambi si chiamano Anthony e quando la psichiatra nel film gli chiede la data di nascita lui risponde repentino, quasi a dimostrare la sua memoria: “venerdì 31 dicembre 1937”, che è esattamente la data di nascita di Hopkins nella realtà) e vedere come la sua condizione muta e si aggrava di momento in momento, con tutti i risvolti drammatici del caso. Vivi una vita, magari anche bella e intensa e poi te ne vai così, sconquassato nella psiche, senza neppure più sapere chi sei. Perché si è qualcuno solo grazie a quel prodigio che chiamiamo memoria che è l’insieme del nostro vissuto, “l’accumulazione” dei nostri ricordi, che dimentichiamo per ricordare diversamente in un processo continuo di “costruzione dell’identità”.

Senza memoria, lo sappiamo, nessuna identità.

E qui arrivo al secondo episodio di fantascienza che volevo citare: ricordate l’osannatissimo Blade runner, tratto dal romanzo di Philip K. Dick Cacciatore di androidi (titolo meno sibillino dell’originale Do Androids Dream of Electric Sheep?)? Bene, se lo ricordate, allora ricorderete anche che il gruppo di androidi capeggiati dal temibile Rutger Hauer cerca non solo di vivere più a lungo di quanto i costruttori/programmatori avessero concesso loro come vita, ma anche di avere dei “ricordi artificiali”, impiantati che, pur nella follia di questa idea, diventavano funzionali a questo concetto di identità, dell’individuo: io sono diverso da te perché ho ricordi diversi dai tuoi, perché ho fatto una vita diversa dalla tua.

L’uomo perde se stesso, la propria identità (Anthony alla fine regredisce fino al punto di chiedere all’infermiera “chi sono io?”…), regredisce e il tempo – quello su cui i ricordi poggiano – impazzisce: non c’è più un oggi un ieri e un domani e il ricordo dei cari si fa sincronico: ci si aspetta, a oltre 80 anni, che la mamma ti venga a trovare; la figlia diventa la mamma o la moglie, magari morta e via così sulla china del delirio e di uno sconforto che ti attanaglia ben oltre l’accensione delle luci che sanciscono la fine del film e il deflusso di noi spettatori, tutti ammutoliti da tanta realtà, da tanto dolore, da ciò che, alla fine, potrebbe essere uno degli esiti delle nostre esistenze. Un film durissimo però bellissimo perché Hopkins ha dato, ancora una volta, a 84 anni, grandissima prova di sé.

PS: Dimenticavo: sempre perché alla fine la modernità non ha mai veramente “inventato” nulla, qualcuno senz’altro avrà reminiscenze liceali sul fatto che Platone nella Repubblica narra il mito di Er che, disceso nell’oltretomba per conoscere i misteri della reincarnazione delle anime, scopre che condizione necessaria per questo “passaggio” della reincarnazione è l’abbeverarsi al fiume Lete. Solo in questo modo le anime possono arrivare a nuova vita “pure”, ovvero senza ricordi di quelle precedenti e, in definitiva, senza sapere chi si era nella vita passata.

Il senso di una Cinquecento (del 1972) nel 2021

la mia nuova 500

La mia “nuova” 500

Da tempo mi ronza per la testa di scrivere questa riflessione sull’acquisto di una Cinquecento che ho realizzato qualche tempo fa.

Le ragioni che mi hanno spinto all’acquisto sono davvero molte (alcune più personali di altre…), ma cercherò di dipanare per quanto possibile la ridda dei pensieri che mi hanno spinto in questa direzione.

Prima tra le “spinte” è senz’altro l’idea del downsizing: nell’era del gigantismo automobilistico, dove la Volkswagen ‘Polo’ di oggi è più grande di una ‘Golf’ di 15-20 anni fa(*) l’idea è quella di andare in controtendenza e di farlo con un oggetto che ricorda le intelligenze (e le resilienze) di un tempo: le moderne case che fanno auto piccole oggi (penso alla ‘Smart’, ma non solo) non hanno inventato nulla e anzi: credo avrebbero da imparare se solo andassero a riguardarsi gli schemi, le schede tecniche con cui Dante Giacosa progettò quel capolavoro assoluto della mobilità che è questa auto – che ricordo, tra le altre cose, è esposta al Museo di Arte Moderna (MoMA) di New York. L’essenzialità che costituì, insieme alla ‘vespa’ Piaggio, la letterale ripartenza dell’Italia dopo il secondo conflitto mondiale.

Da sempre sensibile al fascino automobilistico, mi sono occupato incidentalmente, in tempi recenti, anche della eventuale transizione nella propulsione dei veicoli verso altre fonti energetiche che non siano i derivati del petrolio (benzina, gasolio, GPL, metano. Il volumetto in cui, con altri, ho raccolto queste considerazioni è questo qui). Anche qui la soluzione sembra venire da quel passato un po’ geniale: bisognerebbe tutti “condividere” in primo luogo la mobilità per disintasare le strade dal traffico(**) e, se proprio abbiamo bisogno di un’auto, condividerla con strutture di car sharing. E se proprio vogliamo un’auto personale, beh, comprarsi un’auto piccola e, aggiungo, bella. Perché la Cinquecento è anche bella! È un bell’oggetto che, nel caso specifico – e qui c’è un altro dei tanti motivi che mi hanno spinto all’acquisto – è un vero e proprio regressus ad originem: tra i ricordi di bambino ci sono quelli della Cinquecento di uno zio che era proprio come quella che possiedo adesso: la chiave si inserisce sul cruscotto “a sinistra” (come nella… Porsche 911) si gira il quadro per alimentare l’impianto elettrico ma l’avviamento è una delle due piccole leve vicino al freno a mano, tra i due sedili (l’altra è l’aria – altro regressus ad originem dell’adolescenza: al ‘Ciao’ Piaggio bisognava “tirare l’aria” quando faceva freddo, per cambiare il rapporto stechiometrico in camera di combustione…). Poi… poi ha uno schema classico “tutto dietro” (motore e trazione) che è stato adottato con successo per decine di anni da auto ben più performanti e sportive (penso espressamente a quella nobile erede del ‘Maggiolino’ che è stata la Porsche 356 (un ‘Maggiolino’ allungato – il progettista è sempre lui, Ferdinand Porsche) a sua volta “nonna” della celebre e celebratissima (e inavvicinabile come prezzo) Porsche 911 che, fino a tempi relativamente recenti conservava tutte le caratteristiche tecniche dei primi modelli e quindi: il raffreddamento ad aria (come la Cinquecento!), il motore “a sbalzo” (quindi al di fuori dell’asse posteriore delle ruote, (quasi) come la Cinquecento! – e questo accorgimento tecnico semplicemente serviva a incrementare il peso laddove il momento angolare (la “coppia”) della trazione agiva…). Insomma: tanti amarcord e tanta “mitologia automobilistica” a poco prezzo! E poi ancora: l’idea di una cosa che non fanno più e di un oggetto (idealmente – ma in questo caso anche praticamente!) fatto per durare nel tempo.

Alla “ripartenza” – e forse all’avvio della moderna società industriale quale oggi siamo – l’Italia è arrivata, l’abbiamo accennato, solo dopo il secondo conflitto mondiale. Ma questa ripartenza è stata foriera anche di altro, come descrive Marco D’Eramo ne Il maiale e il grattacielo. Infatti (pp. 96-97):

L’automobile di massa, il modello T lanciato da Henry Ford nel 1908 fu […] molto di più di una rivoluzione industriale: ti concedeva di accedere all’individualità pur senza essere diventato ricco. Con l’automobile, ci si poteva permettere di essere individui anche da operai, da commessi, da spazzini: “Il rapido consenso popolare per il nuovo veicolo è dovuto in gran parte al fatto che esso ha dato al suo proprietario un controllo sui propri movimenti che gli era negato dai mezzi precedenti. A portata di mano e pronto per un uso istantaneo, esso porta il suo proprietario dall’uscio di casa a destinazione secondo itinerari che egli stesso ha scelto e su tempi e programmi che egli stesso ha stabilito,” diceva un rapporto presentato nel 1933 al presidente Herbert Hoover. […] In ottant’anni, l’accessibilità delle auto è prima cresciuta, poi però è scemata. Nel 1909 negli Stati Uniti erano necessari 25 mesi di paga media (lorda) di un operaio per comprare una modello T della Ford. Nel 1925, perché le auto costavano molto meno e perché i salari erano molto più alti, per una T erano necessari solo 3 mesi di paga. Oggi né negli Usa, né in Europa bastano tre mesi di salario per comprare la macchina (servono 5 e 6 mesi, un regresso rispetto a 70 anni fa).

Così, quando il 5 gennaio 1914 Henry Ford raddoppiò il salario operaio da 2,3 a 5 dollari giornalieri non lo fece solo per allargare il mercato (pagare agli operai che fabbricano un’auto un salario abbastanza alto da permettere loro di comprarsi quella stessa auto). Questo salario è il tassello di una visione sociale più ampia, in cui i dipendenti sono esortati a fare ogni sforzo per accedere allo statuto di individui, a guadagnarselo e, a questo scopo, è offerto loro un salario tale che l’individualità diventi alla loro portata: non si è individui in teoria, ma nella pratica, nell’abitare, nel muoversi, nell’“avere il controllo sui propri movimenti”. Mettere l’individualità alla portata di tutti significa rendere accessibile a tutte le tasche un veicolo personale, l’automobile, un’abitazione unifamiliare come lo è la casa balloon frame(***). Henry Ford spingeva gli operai a “conquistarsi la propria individualità” proprio mentre in fabbrica introduceva la catena di montaggio, un processo che segmentava la loro personalità lavorativa e finiva di renderli anonimi, intercambiabili. Ma quella di essere una persona è forse l’unica illusione cui non si può abdicare.

Forse la Cinquecento, trent’anni dopo e di qua dall’oceano, ha significato (anche) questo anche per noi, fatto sta che possederne una nel 2021 significa conservare simbolicamente al suo interno quanto scritto fin qui e molto altro.

Chiudo solo con un’altra suggestione che arriva sempre dalle pagine del libro di D’Eramo. Poco oltre il pezzo appena citato, in un curioso capovolgimento prospettico l’autore parla delle auto come oggetti “al centro dell’attenzione” che modificano gli assetti delle città, che fanno costruire quei giganteschi spazi desolati che chiamiamo parcheggi, che “schiavizzano” in realtà i loro proprietari che, a loro volta, ne hanno fatto dei feticci da adorare. Proseguendo nel suo discorso D’Eramo dice infatti (p. 101):

Una certa antipatia le auto la nutrono anche per gli alberi, e infatti negli Stati Uniti sono rare le arterie cittadine dotate di alberi, Commonwealth Avenue a Boston, Broadway a New York per un breve tratto sopra la 60a e poche altre. Però la sera, ormai stanche, anche le macchine cercano requie in un ambiente più aggraziato e allora migrano nei loro suburbi dove le attendono garage accoglienti, tutti per loro che, nelle regioni fredde, d’inverno sono riscaldati. Qui finalmente permettono ai loro servitori bipedi di ristorarsi per essere pronti, l’indomani mattina, col corpo acceso, il pieno di corn-flakes, la carrozzeria profumata di dopobarba.

Questo mi induce a una riflessione di carattere quasi antropologico su questa affezione irrazionale, quasi viscerale che alcune persone – molte più di quelle che siamo disposti a credere – hanno verso “l’oggetto auto” e in particolare l’oggetto auto con motore a combustione interna e a carburanti tradizionali. Tento questa specie di analisi, che però è più una suggestione che altro. Da un lato c’è la classica antropomorfizzazione per la quale l’auto ha occhi (fanali), muso (frontale) – da cui tutto quel che ne segue su “auto aggressive”, “auto sportive” fino a quelle che, proprio negli States, vengono chiamate “muscle cars” e via discorrendo. Dall’altro il “cuore” dell’auto che è il motore con il suo carburante – la benzina che diventa a volte anche quella per gli esseri umani in un parallelo meccanicista per cui il corpo umano è appunto macchina a cui va fornito il carburante/cibo – con le sue vene e arterie (olio motore, condotti, prese d’aria e filtri) e il suo intimo funzionamento che è confrontabile in tutto e per tutto al respiro animale: la miscela aria/combustibile che entra nei cilindri è l’aria che entra nei nostri polmoni; l’auto emette gas di scarico come noi emettiamo una piccolissima percentuale di anidride carbonica ad ogni espirazione: senz’aria l’auto “non funziona”, esattamente come noi.

A breve, tra qualche giorno – a proposito di transizione energetica – ci consegneranno la nostra nuova Renault Twingo completamente elettrica, che caricheremo a casa, visto che abbiamo un impianto fotovoltaico. Sarà un’altra storia in tutti i sensi perché non ci sarà un “rumore” (per quanto silenziato) del motore (al limite un sibilo…), non ci saranno emissioni e la nostra auto potrebbe tranquillamente viaggiare sulla Luna o su Marte, indifferente alla composizione chimica dell’atmosfera che la circonda, perché la sua propulsione si basa su altri principi. Un’auto per il momento “aliena” insomma, rispetto a quello che abbiamo avuto occasione di sperimentare fino ad oggi ed è forse anche questo ciò che, credo, più o meno inconsciamente ci “fa difficoltà” nel separarci dalle vecchie auto per approdare alle nuove. Già, ricordo, con l’avvento dell’elettronica e delle sempre più severe regole antinquinamento, tutto mi sembrò via via anonimizzarsi e uniformarsi: ragazzino distinguevo i motori a orecchio e sapevo dire se quella che stava passando era una Fiat, una riconoscibilissima Alfa Romeo, ecc. prima di vederla spuntare magari dietro l’angolo o dietro una curva. Poi in Italia tutto è diventato Fiat e anche quel gioco – complice l’avvento dell’elettronica di cui sopra – è finito. Vedremo come andrà con questa Twingo “aliena” che non dovrà neppure essere accesa: i motori elettrici basta alimentarli e non serve “accenderli”…

NOTE

(*) Gli esempi di questo tipo si possono fare per tutti i marchi automobilistici, fino ad arrivare agli eclatanti casi dei SUV che letteralmente non stanno sulla strada da quanto sono grandi – e lo scrive uno che va spesso (anzi: più spesso) su due ruote e la difficoltà nel sorpassare questi “pachidermi stradali” non sta nella velocità (spesso con la vespa riesco a sgusciare via con facilità…) quanto proprio negli ingombri: sono “difficili” da superare perché si è costretti ad andare nell’altra corsia…

(**) Su questo vale la pena di citare Marco D’Eramo che, ne Il maiale e il grattacielo – saggio veramente illuminante, come non ne leggevo da tempo, su molte questioni che ci riguardano da vicino – fa cenno alla nozione sociologica della “perversione” teorizzata da Albert Hirschman: «La perversione è un classico argomento […] per cui ogni “tentativo di spingere la società in una certa direzione avrà per effetto sì un movimento della società, ma nella direzione opposta”» (p. 114). Seguono esempi, uno dei quali balza agli occhi: mentre il trasporto pubblico nasce e funziona se e solo se porta un grande numero di passeggeri, quello privato (automobilistico) funziona “a bassa densità” ed è efficace se e solo se le auto in giro sono poche e le strade tendenzialmente sgombre. Invece la realtà l’abbiamo tutti sotto gli occhi e… le uniche strade sgombre che vediamo sono quelle delle pubblicità (incessanti! – di auto).

(***) Su cui l’autore aveva discusso nelle pagine precedenti.

Chiamalo, se vuoi, effetto pandemia. Note di un viaggio in nord Italia

Ho deciso di prendermi un po’ più di spazio per raccontare questo primo viaggio con l’Honda Forza 750 che ho acquistato a inizio anno. Un viaggio che è stata anche l’occasione per fare test del mezzo, di me stesso sul mezzo e della soddisfazione di “essere in giro” e di andare a trovare degli amici dopo quasi un anno e mezzo di segregazione pandemica. In un post su Facebook avevo descritto sommariamente le tappe del giro, ma qui approfitto per darne più diffusamente notizia.

16.06 – 1a tappa: Pisa-Valle Lomellina. Sono state tutte giornate connotate da grande calore, nonostante non si sia ancora entrati nella piena estate. Dopo aver montato le borse laterali (e NON aver preso le misure degli ingombri complessivi: le persone del gruppo Facebook mi scuseranno per questo…) mi sono messo sull’Aurelia. Proprio per prendere dimestichezza con gli ingombri posteriori ho deciso di “fare il bravo” e risalire le code solo in condizione di sicurezza, sorpassando “quasi” come se fossi un’automobile. Dopo aver fatto il primo pieno a Carrara mi sono messo sull’autostrada per evitare La Spezia e sono uscito di nuovo a Borghetto Brugnato, uno dei punti in cui più facilmente si può riprendere l’Aurelia che da lì, verso Genova, porta al Passo del Bracco. Notoriamente sovraffollato di motociclisti, passandoci in una giornata infrasettimanale di mattina, non ho trovato nessuno. Come si è comportato il Forza in questa prima parte? Benissimo, come sempre (ce l’ho da inizio anno e qualche km l’avevo già fatto in extraurbano) e, ovviamente, il test “vero” sono state le curve, bellissime, che conducono al passo: per me (ma è una preferenza personale – preferenza legata anche al fatto, che molti riterranno blasfemo, di NON aver ancora deciso come settare la modalità user…) in standard, con l’accortezza di scalare manualmente le marce prima delle curve (solitamente ne basta una) per non entrare (in curva, appunto) troppo giù di giri, è perfetto. Ho provato per brevi tratti anche la modalità sport, ma mi pare che il motore giri inutilmente alto e “imballato”, con la conseguenza di dargli spesso una marcia in più anziché scalarla. Insomma, se mai mi deciderò a fare il setting della modalità user sarà senz’altro una via intermedia tra la standard e la sport.

La cosa che però più mi ha fatto impressione dell’arrivo al Bracco è l’aver grattato a terra abbastanza velocemente il cavalletto sia a destra che a sinistra e neppure di poco! Un amico motociclista dice che in sostanza è da regolare il precarico: forse con le borse, riempite anche solo con pochi kg, anche se ero solo, ho un settaggio troppo “morbido”: devo verificare (soprattutto devo trovare il tempo per farlo). A parte questo – che però suggerisce anche l’estrema “confidenza” che il mezzo offre fin da subito – mi sembra la prova sia andata egregiamente nonostante… il traffico. Sì perché a parte il primo pezzo che porta al Bracco, scendendo verso Sestri Levante e Chiavari ho sempre trovato traffico – e anche pesante quando ho deciso di lasciare l’Aurelia in favore della 225 verso Cicagna e il Passo della Scoffera (mi hanno poi spiegato che sull’autostrada stanno sistemando alcuni viadotti e quindi i camion li hanno deviati sulle statali). In queste situazioni, checché ne dicano i puristi, ho apprezzato infinitamente il DCT che fa tutto il lavoro per noi! Basta pensare a regolare il gas e godersi il mondo intorno (per quanto possibile)!

Arrivato a Bobbio volevo fare il passo del Penice ma ho trovato una deviazione che me lo ha impedito e mi ha… spedito sul Brallo: molto più da X-adv che da Forza: strada abbastanza strettina, ma soprattutto con un fondo sporco e irregolare il giusto per farti mollare il gas e farti godere molto meno l’escursione. Comunque: sono arrivato a Varzi e ho fatto pranzo. La prima giornata è di fatto finita così perché poi ho incontrato l’amico – che era andato al lavoro in moto, giust’appunto – e insieme siamo andati a cena ad Alessandria con i suoi figli. Al rientro, sul fare del tramonto, la magia delle sconfinate pianure della Lomellina e… la molto meno magica pioggia (ed era letteralmente come se piovesse…) di insetti (soprattutto zanzare) che si spiaccicano sul frontale…

itinerario 1

itinerario 2

itinerario 3

17.06 – 2a tappa: Valle Lomellina-Trento. Complici gli orari poco ortodossi con cui l’amico che mi ha ospitato va via di casa per lavorare, alle 7 ero in sella. Gli ho chiesto la strada migliore per evitare il traffico dell’hinterland milanese e quindi ho fatto, su statale, Valle-Mortara-Vigevano-Abbiate Grasso e da lì verso Milano fino a incrociare la tangenziale ovest e andare in direzione della Milano-Laghi verso Como. Non bellissimo ovviamente, ma era l’unico modo un po’ rapido per metter su un po’ di km e andare dove mi ero prefissato di passare: dal lago di Como. Anche qui – che lo dico a fare? – traffico pazzesco in certi punti e sostenuto in altri. Il lungolago inoltre, che non avevo mai percorso, è una strada di nuovo piuttosto strettina in cui non viene tanta voglia di “correre” (per altro si è in vacanza e non ce n’è bisogno…). Arrivato a Nesso ho tagliato su verso Sormano per poi ridiscendere su Bellagio: qui devo dire mi sono incartato un attimo perché mi ero un po’ imposto di andare a memoria e non usare il navigatore, ma… ho fatto due volte il giro nello stesso punto (per altro con la spia della riserva che cominciava a smettere di lampeggiare per cominciare a urlare “metti benzina!!”…). Arrivo dunque a Bellagio, faccio il pieno e vado agli imbarchi per traghettare me e la moto a Varenna. Tempo grigio e caldo, ma senza pioggia. Sceso a Varenna seguo per Bellano, verso nord, sempre sul lungo lago e mi metto su una “statalona” (la 38) a scorrimento veloce che mi fa imboccare la fornace della Valtellina. Qui traffico meno intenso e giù di gas, sul tapis roulant d’asfalto fino alla località di Tresenda, dove ho preso per il Passo Aprica e dove, finalmente al fresco, mi sono fermato per una pausa pranzo-panino. Il tempo è migliorato e le strade pure. I paesaggi montani rincuorano e rinfrancano lo spirito, mentre il bicilindrico sotto gira bene sempre. Arrivo al Tonale, mi fermo, nuvole in quota minacciano pioggia e non ho voglia di prenderne: il tempo di un paio di foto col cellulare e sono di nuovo in sella verso la Val di Sole, dove c’è… di nuovo il sole e di nuovo un caldo fuori misura che mi accompagnerà fino a Trento, per paesaggi e strade che conosco perché ci feci vacanza qualche anno fa.

Arrivo a Trento cotto soprattutto dal gran caldo. Prendo la stanza d’albergo che trovo piacevolmente raffrescata e, lo ammetto, faccio un pisolino. Il primo appuntamento è per la sera, in pizzeria, con l’amico Marco, davanti al lago di Caldonazzo, proprio all’inizio della Valsugana. Quando è vacanza è vacanza!

alla sera finalmente davanti al lago di Caldonazzo, al fresco

Alla sera finalmente davanti al lago di Caldonazzo, al fresco

itinerario 4

itinerario 5

itinerario 6

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itinerario 8

itinerario 9

sul traghetto Bellagio-Varenna

Sul traghetto Bellagio-Varenna

19.06 – 3a tappa: Trento-Ciconicco (Udine). Ieri la giornata è stata di riposo e di “lavoro” per accordi che dovevo prendere col mio ex tutor di dottorato all’Università ma, fatta colazione e preparati i bagagli, eccomi di nuovo in sella alla volta della penultima tappa. Riprendo la strada della Valsugana in direzione Bassano del Grappa e, all’altezza di Primolano, devio per la statale 50 bis verso Feltre-Belluno: i posti sono molto belli (anche questi li vidi in occasione di un viaggio passato) e ben curati. La sosta per il pranzo è a San Daniele, luogo notissimo per il prosciutto – che infatti non mi faccio mancare (una delle valigie laterali ha esattamente la funzione di contenerne un po’ da portare a casa…) e del Forza mi sembra davvero di non dover dire nulla: regge i km, le temperature (non ha quasi scaldato neppure nei momenti di temperature sopra i 30), il traffico, le “sparate” in allungo (dove è stato possibile) e… tenendo fissa la media di 3,8 l/100 km! Solo a un certo punto proprio quella indicazione sembra impazzire, come potete vedere in questa foto:

l'indicatore "impazzito" del consumo medio

L’indicatore “impazzito” del consumo medio

Ma, a parte questo, non ho davvero nulla da eccepire: il Forza è un mezzo pratico, “facile” (e non è un difetto il fatto che lo sia: a 30 anni si cercano i mezzi impegnativi – e li ho avuti; a 50 si cercano i mezzi facili ma non meno divertenti). Prima di arrivare “dall’alto” su San Daniele, faccio Longarone e il Vajont. Mi fermo sul luogo della tragedia. Ci trovo turisti, pellegrini, motociclisti come me. Sulla splendida strada (la statale 251) che passa da Cimolais, ne vedo a frotte in direzione contraria: talvolta mi salutano talaltra no. Anche nella mia direzione li vedo negli specchietti, e presto sento i loro motori dietro al mio. Facciamo qualche piega insieme (non lesino sulle pieghe e prima di sorpassarmi credo studino che andatura tengo non capendo bene che mezzo ho sotto il sedere), poi, al primo rettifilo, alcuni mi passano e salutano col piede, altri non ce la fanno e mi “staccano” accanto, buttandosi in piega e rischiando di finirmi addosso (e soprattutto: non calcolando che io ho due “carichi eccezionali” che sono le borse…). Con la coda dell’occhio ne vedo uno che per evitare l’impatto (deve aver fatto male i conti…) finisce quasi oltre la mezzeria della strada. Non voglio che si faccia male nessuno: abbiamo obiettivi diversi e mollo senza problemi il gas lasciandoli andare. Il resto della giornata fila via liscia sotto un caldo abominevole, mitigato solo da una doccia che faccio al pomeriggio quando arrivo al B&B a 300 m. dalla casa di Gianni, dove sono già precettato per cena. Mangiamo nel suo orto-giardino e arriva da Cervignano anche un altro amico, Francesco. In un attimo tra chiacchiere, risate, buoni vini (plurali…) e buon cibo, si fa mezzanotte.

20.06 – 4a e ultima tappa: Ciconicco-Pisa. Arriva il momento di apprezzare il Forza nei trasferimenti: ho appuntamento per pranzo sulle colline fuori Verona (zona di Fumane-Molina-Gorgusello-Breonio, dove saremo a pranzo, appunto). Contravvenendo alla mia idea di avere la “geografia in testa” metto il navigatore, che dimostra di funzionare egregiamente (qui l’anello debole in realtà è il telefono, che comincia a essere un po’ datato e con la batteria insufficiente per un uso del genere…): alle 12 sono da Roberto e la moglie Paola – siamo tutti in un bagno di sudore, ma felici di rivederci finalmente di persona. Lascio il Forza sulla strada principale: trovato uno spiazzo in pendenza non mi faccio problemi e scopro l’ulteriore comodità del freno a mano. Anche qui tutto passa troppo veloce e sono fuori rispetto alla mia tabella di marcia di almeno un’ora. L’unica cosa che mi consola sono le giornate lunghe (anche se ho già apprezzato qualche pezzo in notturna, di ritorno dalle cene in Valsugana, su Trento…).

Saluto, faticando ad andarmene, alle 16. Strada fantastica a scender da Breonio e giù verso la statale 12 che mi riporterà a casa. Qui lo dico: quando ho potuto ho “sparato” per macinare km (spero di non aver beccato dei velox nascosti…). Passo Modena e mi sento “a casa”; mi fermo a far benzina (non ho contato quante volte l’ho fatta ma posso assicurare che sono poche e l’indicazione – pur “impazzita” a un certo punto – sul consumo medio è abbastanza fedele alla realtà…): finalmente mi rimetto sull’Appennino in direzione Abetone e arrivò lì – da una “allungatoia” (devo aver sbagliato qualche bivio) – alle 19,30, al fresco dei 1.400 m. sul livello del mare (il termometro della strumentazione di bordo segna 18 gradi, un sogno – mi verrebbe da dire a mia moglie: vieni su tu anziché giù io…). Le ultime curve le faccio davvero da “assatanato” con pieghe e contropieghe “orecchie a terra”, ma il Forza non molla e anzi: più pieghi più sembra rispondere meglio. Soddisfazione. Scendo. Mia moglie che sento al telefono per dirle che farò un pochino più tardi, mi dice di non correre e così faccio, godendomi questo scampolo di gita, con un’ultima immagine che mi si stampa nella mente: alla luce del tramonto, ormai alle porte di Lucca, le acque del Serchio immobili, a far da specchio al “ponte del Diavolo” o della Maddalena (questo, per chi non lo conoscesse). Uno spettacolo assoluto per quella immagine speculare perfetta nelle acque ferme. Alle 21 sono a casa, stanco della galoppata, ma felice per quello che sempre più mi sembra un acquisto azzeccato.

Ritorno al nomadismo

Frances McDormand

Frances McDormand interpreta Fern in “Nomadland”

Avevo riflettuto diversi anni fa sulla contrapposizione tra “nodo” e “chiodo” durante un viaggio in Mongolia (qualche stralcio del mio “diario di viaggio”, con mia sorpresa, si trova ancora qui): il primo, il nodo, è segno di un nomadismo, di un fermarsi il tempo necessario. Il nodo poi si scioglie senza lasciare tracce. Il chiodo invece è la sedentarietà, la permanenza in un luogo, il costruire casa, il lasciare un segno (sull’ambiente) il più delle volte indelebile. I mongoli sono (stati) per lo più nomadi, e anche in tempi recenti, nonostante alcune oggettive difficoltà (come quella, per esempio, di offrire una istruzione continua ai propri figli), sui due milioni e mezzo di persone presenti (gli abitanti complessivi di una metropoli italiana) su un territorio che per estensione è 5 volte il nostro Paese, solo 6-700mila potevano definirsi “residenti” nella capitale (salvo cambiare idea e ricominciare a viaggiare con le proprie yurte…).

Tutto questo per dire che sono arrivato a festeggiare ieri sera il 1° maggio guardando il pluripremiato Nomadland che unisce il tema di un inedito nomadismo in salsa USA al tema – non marginale – del lavoro. Inutile raccontare la trama, visibile ovunque sul web, esile traccia per raccontare questa storia interpretata dalla sempre notevolissima Frances McDormand (che ricordavo benissimo in un’altra splendida interpretazione: Tre manifesti a Ebbing, Missouri) che troviamo sul punto di andarsene con un furgone, portando con sé poche cose accuratamente scelte – ah il nomadismo, che bell’esercizio! – da un posto, come ce ne sono tanti nel mondo, che normalmente viene definito “in mezzo al nulla” (in the middle of nowhere, le dice proprio la sorella a un certo punto), in Nevada.

La trama, come nella migliore tradizione cinematografica, viene svelata in media res e quindi scopriamo che Fern, la protagonista, ha abbandonato questo avamposto di frontiera (il paesino si chiama Empire – nome decisamente altisonante! – a cui, dopo la chiusura della locale miniera nella quale il marito lavorava, hanno addirittura tolto il codice di avviamento postale…) perché la crisi ha colpito duro e di lavoro non ce n’è. Il marito nel frattempo è morto di tumore ed è il suo unico legame con quel posto nel quale tenta di resistere per un po’ adattandosi, ultracinquantenne, a quei lavori che rientrano appieno nella gig economy (la vediamo all’interno di un hub Amazon in un paio di occasioni… a proposito di diritti dei lavoratori).

Resiste perché lì il marito era ben voluto, aveva trovato una sua dimensione e, non avendo parenti, era solo al mondo. Se è vero – come forse è vero – che viviamo oltre la nostra vita solo grazie al ricordo che qualcuno conserva di noi dopo che siamo passati a miglior vita, Fern a un certo punto confessa di essere rimasta lì, di aver tentato di resistere proprio perché, se se ne fosse andata, è come se il marito non fosse mai esistito.

Non c’è bisogno di dirlo: parliamo di un mondo di cui quasi mai ci arriva notizia, e sono questi Stati Uniti “interni”, marginali, rarefatti – di persone, di parole (l’ambientazione per certi versi mi ha ricordato Nebraska) e di cose che accadono. Un mondo in cui il meccanismo impietoso del capitalismo e del denaro, per cui l’unica misura del tuo benessere complessivo è proporzionale a quanto possiedi, trita tutto e tutti, lasciando ai margini persone ormai avanti con gli anni, che magari hanno lavorato una vita, ma che non sono riuscite a mettere da parte abbastanza per garantirsi un fine vita dignitoso e decidono quindi questa strada alternativa, che fuor di metafora, è la strada vera e propria, quella del nomadismo stagionale: si va dove c’è bisogno di lavoro, magari anche per paghe minime.

Così Fern inizia questa vita e scopre di non essere sola in questi “transiti” e in questo subisce una specie di trasformazione: già – come le dice la sorella – era una persona eccentrica in gioventù, ma adesso questa specie di nomadismo le entra nel sangue e, anche quando avrebbe l’occasione per fermarsi, non ci riesce più. Il film si chiude così, “leggero” ma “pesante” (questa la bravura della regista…), con Fern alla guida del suo furgone, riadattato a vera e propria casa, su una strada deserta degli States perché il motto è See you down the street, in nome di una vita sicuramente con meno agi, ma di ritrovata libertà e solidarietà.

Bello. Brave – perché il film è tutto al femminile e prende spunto da un libro-inchiesta che è stato pubblicato lo scorso anno anche in italiano (questo qui).

Infine c’è la bellezza di questi luoghi naturali che gli States offrono, ancora così apparentemente incontaminati: un ritorno alla Natura che è sempre sinonimo di libertà.

(Ri)leggere Alexander Langer

Alexander LangerLo confesso: i suicidi mi hanno sempre fatto una certa impressione e devono fare molta paura anche alla cristianità, che lascia fuori dalla porta del proprio regno dei cieli queste persone.

Chi non ha mai, neppure per un attimo, pensato di porre fine alla propria esistenza, alzi la mano. Bene: da un lato mi viene da dire “beati voi” che forse avete (avuto) una vita senza amarezze e senza rimpianti e (avete saputo /) sapete dare – volenti o nolenti – senso a ogni vostra azione. Ma credo di essere in buona compagnia tra coloro che la mano non l’hanno alzata. È un pensiero tipico della gioventù forse, di quando ancora non si sa bene chi si è e qual è il proprio posto nel mondo, ma è un pensiero che, carsico, scava e può riemergere a qualunque età. Ho avuto amici e conoscenti suicidi. Forse tendiamo a rimuoverne il ricordo per la paura che questa azione così eclatante ci incute, nel profondo. Persone “normali” e di certo non meno attaccate alla vita di quanto lo si possa essere noi stessi. Anzi: forse di più. Un attaccamento all’esistenza di tale forza che riesce a ribaltarsi – per una alchimia che non ci è dato sapere, ma, talvolta, solo intuire – nel suo contrario.

Quindi ho iniziato la lettura di questo libro di Langer ben consapevole di questo dato biografico (così come, allo stesso modo, mi accostai alla lettura dello straniante Dissipatio Humani Generis di Guido Morselli). Conoscevo solo di nome questo fondamentale esponente politico (ma definirlo politico sarebbe riduttivo, forse un addirittura un insulto se pensiamo da chi è animata la scena politica italiana di oggi…) la cui attività avevo nelle orecchie perché, giovane, ero un “attivista ambientale”. Così, tra i 500 libri (il numero è reale e ahimè approssimato per difetto) che ho acquistato e non ancora letto, qualche giorno fa ho pescato la bella edizione di Sellerio de Il viaggiatore leggero. Scritti 1961-1995.

Così scopro di avere pensato pensieri già pensati da altri (da lui in particolare e certamente in forma più organica) quando, nel paragrafo Un catalogo di virtù verdi (p. 189 e sgg.), racconta della necessaria consapevolezza del limite (delle risorse e di ciò che possiamo fare) e, in questo pezzo del 1987 (avevo 17 anni…) racconta come la nostra società sia a tal punto intossicata di consumismo che neppure la consapevolezza di questo limite – che ormai in molti avevano e hanno – è sufficiente a fare invertire la rotta “dal basso”. Langer in queste pagine paragona questo comportamento a quello di un tossicodipendente, di un tabagista o di un alcolista: queste persone, consapevoli che il loro vizio molto probabilmente li condurrà ben prima alla tomba, perseverano nella loro pratica.

Le analisi di Langer, spesso condotte nell’arco di qualche pagina, toccano gli argomenti di cui sappiamo, ma di cui fa sempre bene rinfrescare la memoria: la differenza tra costo e prezzo di una merce, dove i costi (ambientali, umani…) spesso sono celati e non corrispondono per nulla al prezzo, infinitamente più basso, di quella merce; l’idea – potremmo dire molto teorica, col senno di poi – di privilegiare il valore d’uso al valore di scambio, determinato quest’ultimo praticamente sempre da una mediazione in denaro, e via lungo la china che porta a interrogarsi, qualche pagina più avanti (gli scritti sono “sparsi” e non seguono necessariamente un ordine cronologico), sulla necessità di un governo mondiale per quel che riguarda le questioni ecologiche (il problema climatico in quegli anni non era ancora così sentito), fino ad arrivare alla possibile istituzione di un TIA, un Tribunale Internazionale per l’Ambiente – cui ha dato seguito, per un certo periodo, Amedeo Postiglione (qui, qui e qui qualche notizia).

Insomma: se da un lato è consolante sapere che qualcuno queste cose le aveva pensate, dette, scritte, magari raccontate in quella sede che ancora, all’epoca, si chiamava solo Comunità Europea e aveva 12 stati membri, dall’altro è deprimente che tutto questo sia, ancora una volta, rimasto lettera morta e che lui, Langer, abbia deciso di zittire la sua stessa voce in modo così drammatico.

Alla fine del libro c’è un ricordo toccante di Adriano Sofri: ne tratteggia lo spirito e ne scrive quasi che lui sia ancora presente. Dice di Langer che era uno che prendeva gli indirizzi di tutti, accoglieva, per quanto poteva, le richieste di tutti e Sofri lo immagina oggi, nell’era di internet, dove la tecnologia ha moltiplicato all’infinito questa possibilità comunicativa, sommerso e quotidianamente impegnato nel farsi carico di quel pezzo di mondo che lo cercava.

Lui, che “parte” cattolico e “arriva” verde passando per il rosso del comunismo ha, sulla copertina del libro che non ha scelto di scrivere, San Cristoforo di cui tutti conosciamo la parabola: traghettatore di stazza e forza erculea di un fiume della Licia, un giorno gli si presentò un bambino che chiedeva di essere trasportato dall’altra parte del fiume. Accettato l’incarico, in apparenza semplice, si sarebbe piegato sotto il peso di quell’esile creatura, che sembrava pesare sempre di più ad ogni passo. In alcune versioni della storia sarebbe cresciuta anche la corrente del fiume, che si faceva sempre più vorticosa. Il gigante sembrava essere sopraffatto, ma alla fine, stremato, riuscì a raggiungere l’altra riva. Al meravigliato traghettatore il bambino avrebbe rivelato di essere il Cristo, confessandogli inoltre che aveva portato sulle sue spalle non solo il peso del corpicino del bambino, ma il peso del mondo intero.

Langer si è fatto carico di una parte di quel peso e, nel breve messaggio di commiato dal mondo che fa da incipit di apertura al libro, redatto il 3 luglio 1995 dove si tolse la vita a Pian di Giullari, nelle colline che circondano Firenze, esordisce dicendo: «I pesi mi sono divenuti davvero insostenibili, non ce la faccio più» e chiude il messaggio con un «Non siate tristi, continuate in ciò che era giusto».

Monito che dovremmo cercare tutti di tenere a mente.