Sui vaccini, anzi sulla vaccinazione di massa

Dunque, sul finire di questo anno tra i peggiori che si siano avuti a memoria d’uomo – al netto di quelle memorie d’uomo che arrivano fino agli anni della Seconda guerra mondiale – vorrei spendere due parole su questa faccenda dei vaccini (il plurale è d’obbligo, non trattandosi di una sola scelta, ma di diverse formulazioni proposte dalle case farmaceutiche che si sono applicate con grande impegno su questo fronte). Lo voglio fare perché sento sempre più spesso dei rumors legati a gente che, pure con un certo orgoglio (il famoso “orgoglione”, ovvero l’orgoglio del coglione) sostiene pubblicamente di non volersi vaccinare. E questo avviene trasversalmente: dall’insospettabile ricercatore del Cnr* che assumiamo sia uomo di scienza e abbia anche una certa cultura, per arrivare al complottista, di cui non fatichiamo a comprendere perché faccia certe affermazioni…

immagine vaccino

Parto dall’ovvio che forse, in quanto ovvio, sfugge ai più e lo faccio per punti:

  1. i vaccini tipicamente vengono sviluppati dalle case farmaceutiche perché le sanità (più o meno) pubbliche dei singoli Paesi non sarebbero in grado di mobilitare tali e tanti finanziamenti. E’ una stortura del sistema, ma è così da tempo immemore e bisogna farsene una ragione. L’espressione “case farmaceutiche” può suonare troppo neutra e non rendere conto delle dimensioni del problema e del sistema, allora usiamo le parole giuste: multinazionali farmaceutiche. Multinazionale, accanto alla parola “farmaceutico”, suona ai più come una insita minaccia e ci sono anche i motivi per cui, in certi casi, la reputazione di quest’industria (perché è un’industria a tutti gli effetti e vive dei profitti che fa…) è stata compromessa. Però c’è anche il rovescio (positivo) della medaglia: più grande è l’industria e più ha risorse (economiche e quindi di cervelli che possono essere applicati intensivamente alla ricerca). Su questo tornerò dopo. Non è quindi un caso né stupisce il fatto che a brevettare e a commercializzare il primo vaccino sia stata Pfizer, ditta per la quale, nella mia rocambolesca vita lavorativa, sono stato responsabile per l’Ufficio Stampa macroregionale (Italia del nordovest) nel biennio 2005-2007. Di Pfizer – che all’epoca era la più grande tra le big pharma – potrei raccontare molte vicende sul piano umano ma, standoci dentro, ho sempre avuto l’impressione di essere non solo nella più grande, ma anche nella “migliore” azienda, in quella più accreditata, intendo dire, da un punto di vista strettamente scientifico. Si possono discutere tante cose, comprese quelle “scomode” legate all’etica di far soldi sulla salute della gente, ma dipende sempre da che prospettiva si guardano le cose: senza queste aziende le persone avrebbero enormi difficoltà a curare certe patologie o, più semplicemente, a rimanere in vita (immaginate per esempio, tutti i farmaci “antirigetto” legati al mondo dei trapianti…). Questo è un dato incontrovertibile di cui bisogna tener conto.
  2. Tra i dati incontrovertibili si dovrebbero segnalare le storie più o meno recenti delle vaccinazioni di massa, che hanno permesso di debellare malattie come la poliomielite. Non bisogna essere scienziati: basta andare a vedere Wikipedia (e magari non Facebook), come per esempio a questo link. E non voglio far qui la storia di queste vaccinazioni di massa: chi è interessato può chiedere al proprio medico, cercare su Wikipedia, o qualunque altra cosa, basta CHE SI DOCUMENTI BENE, e che non venga fuori per l’ennesima volta con le cazzate della relazione tra autismo e vaccini, sbugiardata miliardi di volte e in tutte le salse da fonti più che autorevoli – ultima tra le quali, che fa cenno a questa storia, il bel libriccino di Giovanni Boniolo Conoscere per vivere. Istruzioni per sopravvivere all’ignoranza. O anche, ancora sullo stesso tema del “debito cognitivo”, un altro testo di agile lettura: Prevenire.

I benefici di una vaccinazione di massa dovrebbero essere noti a tutti: più persone si vaccinano minori possibilità di contagio ci sono; minori possibilità di contagio ci sono, minori possibilità ha il virus di mutare durante le sue rapide replicazioni; minori possibilità di mutare significano una maggiore efficacia del vaccino stesso perché il vaccino resta capace di coprire lo spettro delle mutazioni possibili. Non mi sembra un ragionamento difficile da capire se lo capisco e lo faccio io che non sono né epidemiologo né virologo.

Torno per un attimo alla questione – anche questa sollevata da più parti – sulla necessità di avere in fretta un vaccino e sui potenziali rischi legati alla sua sicurezza (per la fretta di cui sopra). Sulla fretta mi pare non ci sia nulla da dire: il mondo si è fermato e, per quanto questo dovrebbe indurre una riflessione seria sul nostro modus vivendi, la fretta di farlo ripartire è condivisa da tutti: tutti vogliamo alla fine tornare a una normalità, magari diversa dalla precedente (se abbiamo imparato collettivamente qualcosa da questa storia, ma ne dubito), ma necessaria. Sulla sicurezza vale il discorso di cui sopra: le aziende continuano a essere sotto lo stretto controllo della rigida FDA (Food and Drug Administration) americana, dell’EMA (European Medicines Agency) europea e dell’AIFA (Agenzia Italiana del FArmaco) italiana. Se un parallelo storico mi viene in mente su questa faccenda è quello del Progetto Manhattan che vide un’accelerazione senza precedenti e una concentrazione di cervelli di elevatissima caratura per cercare di mettere a punto l’ordigno nucleare, temendo che Hitler e il Terzo Reich potessero stare lavorando sulla stessa cosa: avere la tecnologia per costruire la bomba atomica significava essere vincitori della Seconda guerra mondiale e gli statunitensi, intuendo questo, si adoperarono con ogni mezzo (economico e di cervelli appunto) per realizzare il progetto. Mutatis mutandis questa ricerca del vaccino ha la stessa “fretta”: per fortuna non per combattere una guerra contro altri esseri umani, ma contro un virus (vorrei far notare incidentalmente che la metafora della guerra è stata per altro sulla bocca di tanta parte del personale sanitario degli ospedali nei momenti più duri), ma se la fretta fa baluginare ancora qualche residuo sospetto in qualcuno, beh, i precedenti li abbiamo e spesso, se le teste le si motiva e le si foraggia adeguatamente, i risultati arrivano.

Mi trovo “costretto” a scrivere queste cose perché mi pare che all’orizzonte si addensino le nuvole di questa nuova frangia no-vax e spero che la maggior parte delle persone inizi a ragionare con la propria testa, documentandosi senza dar seguito ad assurde teorie del complotto. Spero anche che, se proprio non si potrà rendere obbligatorio il vaccino, il governo prenda opportune precauzioni: non ti vuoi vaccinare? Benissimo, allora non vai a mangiare la pizza, non vai al cinema e rimani in un lockdown perché sei “pericoloso”. Serve mettere in piedi il “patentino” di vaccinazione: allora ben venga anche quello se serve.

Ogni tanto, quando a mia volta periodicamente mi sottopongo a esami medici, il personale tra le domande di rito mi chiede: “E’ allergico a qualcosa?”. Sempre più spesso mi trovo a rispondere: “No. Anzi, sì: sono allergico all’ignoranza”.

Buon 2021.

* Ho la mail di un collega che lo testimonia e che, alla fine della sua mail di auguri per un buon 2021, scrive: «P.S. – ..infine per farla completa (…a prescindere dalla caratura di ..Camici e contro-Camici …più o meno esperti..) IO NON FARO’ IL VACCINO ANTI-COVID (… ne prima, e ne dopo». No comment.

Costruttori di sogni

Ne avevo sentito parlare anni fa. Poi, delle migliaia di stimoli che abbiamo quotidianamente, qualcosa rimane, qualcosa dimentichiamo per sempre, qualcosa resta nei recessi della memoria.

Così di questa storia vera scopro che è stato fatto un film proprio in questo anno pandemico da cui tutti sembriamo avere necessità di evadere, L’incredibile storia dell’Isola delle Rose, che ho visto ieri sera sulla piattaforma streaming Netflix (che, invasa dal violento imprinting americano dove il più tranquillo dei telefilm ha almeno una decina di morti ammazzati, ogni tanto si “redime” e propone anche cose più interessanti). E’ la storia, in effetti un po’ incredibile – ma per molti aspetti quelli erano davvero anni in cui tutto sembrava possibile – di un ingegnere italiano, Giorgio Rosa nella finzione cinematografica intrepretato da un sempre bravo Elio Germano, che decide di costruire un’isola che è in realtà la rivisitazione in salsa civile di una piattaforma petrolifera, appena fuori dalle acque territoriali italiane, e lì proclamarsi indipendente e fondare quindi uno stato a se stante.

francobollo Isola delle Rose

Il francobollo emesso dall’Isola delle Rose

Ovviamente la cosa sembra partire come uno scherzo e una goliardata e, sempre nella finzione cinematografica, l’idea – non so dire quanto vera – nasce quasi per la battuta, durante un litigio con la ex fidanzata, che gli dice qualcosa del tipo “perché tu vivi in un mondo tutto tuo, ma il mondo non è solo tuo, è di tutti”. Giorgio, da buon ingegnere, anche evidentemente poco propenso a una interpretazione metaforica delle parole della donna, agisce “logicamente” e decide quindi di costruirsi un mondo tutto suo, dove “fare quel cazzo gli pare” (da pronunciarsi con calata bolognese). Così parte l’avventura che ovviamente finisce nel modo che sappiamo: lo stato dell’Isola delle Rose, che arriva a emettere passaporti, a dotarsi di una lingua internazionale (a quei tempi, per antonomasia, l’esperanto) e un francobollo, ha vita effimera e le sue fondazioni vengono fatte esplodere il 25 febbraio del 1969 (la dichiarazione come stato indipendente risale al 1° maggio 1968, una data più che simbolica). Nel mezzo la vicenda e il tentativo di farsi riconoscere dall’ONU e dal Consiglio di Europa, mentre l’Italia che ha le sue gatte da pelare – ed è un paese che deve ancora vedere “il meglio” degli anni del terrorismo di destra, di sinistra, degli attentati di mafia – “rema” e con difficoltà gestisce la situazione non potendo far altro che usare la forza per non dover creare un precedente.

l'Isola delle Rose

L’Isola delle Rose

Questo punto merita una considerazione: sempre nella finzione cinematografica a un certo punto c’è una telefonata tra Giorgio Rosa, in quel momento al Consiglio d’Europa, dove la questione è stata presa molto seriamente ed è stata istituita una commissione, e l’allora ministro degli interni Franco Restivo. I due si minacciano e si insultano il giusto, ma nel frattempo Restivo racconta un episodio significativo sul fatto di essere uno dei “552 fessi” che furono chiamati a scrivere la Costituzione Italiana, “meccanismo perfetto”, dice Restivo, dove bisognava considerare tutti i casi possibili anche in relazione a eventi “secessionisti” come quello proposto da Rosa – che continua a essere cittadino italiano e, come ancora una volta dice il ministro, “non si può chiedere la revoca della cittadinanza alla stregua della disdetta di un abbonamento a Famiglia Cristiana”.

Se facciamo un passo indietro e si va al “folle” ed eroico biennio resistenziale italiano prima della fine della Seconda Guerra Mondiale, non è che mancassero episodi in tal senso. La Repubblica di Salò ha avuto, nella sua pur breve vita, all’interno dei propri territori gli “antidoti” a ciò che essa stessa era (la colonia estiva del III Reich, come qualcuno amaramente la definiva…): mi basta qui ricordare l’incipit di un uno dei più bei romanzi resistenziali che io abbia letto, I 23 giorni della Città di Alba: «Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944».

Ma questo è solo uno dei diversi esempi che si potrebbero fare. Tra i padri costituenti, tra i quali lo stesso Restivo sedeva, molti – ma confesso di non sapere dire quanti, anche perché un conto sono i 552 coinvolti nell’Assemblea Costituente e un altro conto sono i 75 chiamati a scrivere la Costituzione, tra i quali, per altro, Restivo non compare – sono stati partigiani o “a stretto contatto” con le forze partigiane, quelle stesso forze che durante l’oppressione nazi-fascista, avevano dato vita a “enclave di libertà”, magari della durata di poco tempo o in spazi delimitati da singole cittadine o borgate. Insomma: si nega a Giorgio Rosa ciò che è stato il germe della fondazione di uno stato sovrano, dove però la libertà – strutturata e imbrigliata da un ordinamento giuridico – si sclerotizza e diventa “nemica” di libertà simili: un precedente così non si può tollerare, come viene più volte espresso da Giovanni Leone (interpretato da un ottimamente camuffato Zingaretti-Montalbano) e dallo stesso Restivo. E non lo si è potuto tollerare ovviamente neppure in altri contesti, laddove, in tempi recenti, le ragioni locali di un territorio si sono scontrate con quelle nazionali: il caso è quello del Tav in Val di Susa e della libera Repubblica della Maddalena di Chiomonte, poco più di un campeggio “strutturato” e a ridosso del tunnel di prospezione, che venne spazzato via dalle forze dell’ordine con le solite prove di forza della polizia (qui un cenno alla vicenda, per chi non la conoscesse, e in questo libro la storia di quel periodo).

Una storia che si è ripetuta, si ripete e si ripeterà come sembra raccontare questo libro (che non ho letto).

Falcone, Borsellino e la Germania

Vorrei spendere due parole su una questione di attualità venuta fuori in questi giorni e legata alla pizzeria aperta a Francoforte sul Meno intitolata a Falcone e Borsellino – la notizia è qui ma ho scelto il primo link che mi è capitato sotto tiro e la si trova su tutte le maggiori testate nazionali.

Se fosse solo intitolata a questi due eroi (e lo scrivo senza retorica) e veri “servitori dello Stato”, non ci sarebbe nulla di male, ma il problema è che è fatto “alla tedesca”, ovvero con quell’atteggiamento tipicamente poco rispettoso che ogni tanto salta fuori in questo popolo che (1) ha il libro dell’umorismo più corto del mondo – e se l’umorismo è questo non è neppure umorismo – e (2) dovrebbe tacere e vergognarsi per l’eternità per il suo passato nazista. Basti ricordare le ricorrenti (io ne ricordo almeno due…) foto “scandalo” dello Spiegel con la pistola appoggiata su un piatto di spaghetti fumante e una qualche altra immagine di copertina che devo aver rimosso.

Fatto questo “cappello” non si può dire che antropo- / sociologicamente non ci sia sempre stato un reciproco amore/odio con e per il popolo tedesco. Parlo per me: la filosofia, dopo aver parlato greco, ha parlato tedesco e così per tanta parte della scienza dei primi anni del XX secolo (Ettore Majorana ha scritto i suoi pochi e genialissimi lavori in tedesco perché la fisica di quegli anni parlava quella lingua). Possiedo un’auto tedesca (il cui mito va sfatato, visto che per un difetto di fabbricazione a 220mila km la catena di distribuzione si è schiantata e mi è toccato rifare il motore – quindi anche marchi come BMW hanno assunto un che di cialtronesco nel modo di costruire i propri mezzi e nella scelta dei materiali…). I designer di quelle auto però sono stati a lungo italiani, perché marchi come Volkswagen, Audi e BMW nonostante mostrassero negli anni ’80 e ’90 una affidabilità degna di nota, avevano delle carrozzerie e dei “vestiti” di una bruttezza rara (l’ultimo stilista decente lo hanno avuto in Ferdinand Porsche che disegnò il “Maggiolino” e, allungandone le forme, quella che poi divenne la Porsche 911) e di una lentezza altrettanto rara e in Italia hanno sempre rischiato di non battere chiodo (poi noi siamo esterofili – e se penso all’imperatore Agnelli anche giustamente – e quindi il gioco è presto fatto). Ricordi di gioventù: una Golf 1600 di cilindrata a benzina letteralmente stracciata da un’Alfa 33 (che pure aveva una carrozzeria quasi da 3 volumi) 1300…

Insomma: l’elenco sarebbe lungo e una punta di inevitabile nazionalismo sia di qui che di là, per primeggiare non finirebbe penso mai. Quindi atteniamoci al fatto spiacevole – che però non arriva isolato appunto – perché accanto al ritratto di Falcone e Borsellino ci sono i capimafia storici e quindi si lascia volutamente spazio a una certa confusione, lasciando l’effetto, una volta entrati nel locale, che il tutto sia una specie di “bega” italiana, lontana e “d’effetto” per attirare una clientela evidentemente dal dubbio gusto. Per altro, pure gli amici tedeschi – come a suo tempo l’on.Roberto Maroni* – devono avere la memoria corta se non ricordano la sparatoria di Duisburg che, certo, riguardava, solo italiani, ma guardacaso italiani affiliati alle cosche calabresi e che, immagino, non erano in Germania esattamente per fare gli onesti cittadini…

Di fronte alla richiesta ufficiale di impedire questa “dedica” della pizzeria ai due magistrati italiani il tribunale di Francoforte ha respinto la richiesta – così come, sempre la Germania, ha sempre respinto l’estradizione dei gerarchi nazisti responsabili delle stragi lungo tutta la penisola durante il periodo 1943-1945. Questo all’indomani di una “docufiction” realizzata anche bene mi pare, andata in onda sui canali RAI ma recuperabile sul sito di Rai Play qui, in cui si narra la storia misconosciuta del gruppo di cittadine e cittadini italiani che, con estremo coraggio (a quei tempi Cosa Nostra non esitava a sparare per le strade e a commettere omicidi efferati ed eclatanti che andavano dallo sciogliere in acido le persone al piazzare bombe sotto le auto di magistrati, procuratori, prefetti, scorte…), andarono a formare la giuria popolare durante il maxiprocesso che – anche qui è bene ricordarlo – fu una delle più grandi vittorie della democrazia in questo Paese, se solo si guardano i numeri:

  • Documentazione: 750.000 pagine
  • Processo: 21 mesi, 638 giorni
  • Camera di consiglio: 35 giorni (387 ore)
  • Lettura della sentenza: 1 ora e mezza
  • 475 imputati (scesi a 460 durante il dibattimento)
  • 207 detenuti
  • 349 udienze
  • 346 condanne (74 in contumacia)
  • 114 assoluzioni
  • 19 ergastoli
  • 2665 anni di carcere
  • 900 testimoni e parti lese
  • 200 avvocati difensori
  • 16 giudici popolari (tra effettivi e supplenti)
  • 3000 agenti delle forze dell’ordine
  • 600 giornalisti da tutto il mondo

Poi, per carità, la mafia, come il nazismo, è una questione di atteggiamenti, ma cari amici tedeschi – e qualche amico tedesco pure ce l’ho! – forse prima di “sputare sentenze” ad minchiam pensate se voi avete mai fatto una cosa del genere nella storia della vostra pur gloriosa repubblica. Certo, c’è stata Norimberga, ma Eichmann se lo sono andati a cercare gli ebrei e lo hanno processato in Israele.

Cominciate a pensate a voi, cari amici tedeschi, a “mettere a posto” le vostre di cose visto che, notizia di oggi su “Repubblica” (qui di seguito l’articolo) solo oggi avete epurato dal vostro alfabeto fonetico le ultime incrostazioni di antisemitismo e solo oggi discutete di come togliere la parola “razza” dalla vostra costituzione (e come non ricordare il memorabilissimo witz di un Albert Einstein che, in fuga da quell’abominio che fu la Germania nazista, alla frontiera, di fronte alla richiesta del soldato che gli stava controllanda i ducumenti e che, immaginiamo, con fare indagatorio, di fronte alla secca domanda «Razza?», rispose «Umana, direi…» – magari questo episodio non è vero ma è troppo bello per non esserlo…).

articolo di Repubblica

* Ricordo una puntata di diversi anni fa di “Che tempo che fa”, in cui l’on. Maroni (che fa rima con Berlusconi e con qualcosa di un poco più scurrile che lascio a voi immaginare), invitato dall’inossidabile e immarcescibile Fazio Fabio, sostenne, in polemica con un Roberto Saviano ancora sotto scorta, che “in Lombardia non ci sono infiltrazioni mafiose”. Già! Peccato che dopo questa affermazione c’è stata una lunga lista di notizie comparse su tutti i media, sulle considerevoli collusioni tra la politica lombarda (non ultimo il partito politico a cui lui stesso era affiliato) e un certo numero di organizzazioni mafiose originarie del Sud. Insomma Ipse dixit e venne sbugiardato e smentito dai fatti dopo pochissimo…

El Pibe de Oro

maradona

Diego Armando Maradona

Sarà che i figli devono “uccidere” i padri, sarà che mio padre ha sempre giocato (come amatore) a calcio – come mio zio, che “rischiò”, a suo tempo, di fare carriera, perché era un buon centravanti, ma in un tackle gli entrarono malamente una volta distruggendogli un malleolo e la carriera sfumò… – sarà che a casa il giornale “istituzionale” era la Gazzetta dello Sport, sarà che proprio non ce n’era, ma insomma a me e a mio fratello del calcio proprio non ce n’è mai fregato nulla. La mia cultura calcistica si interrompe alle figurine Panini del campionato di calcio 1977-1978, poi gli interessi, gli sport, le amicizie e tutto il resto è stato altro, con un sempre più marcato distacco da quel mondo, vieppiù incomprensibile.

Una premessa doverosa, questa, per dire quel che di ovvio (e forse scomodo per la maggioranza) c’è da dire, ovvero: che forse sto delirio per la morte del giocatore di calcio Diego Armando Maradona ce lo potevamo risparmiare. Certo: è stato un grande campione. Certo: ha fatto molto parlare di sé e anche molto discutibilmente, viste le dipendenze da droghe, le collusioni malavitose e quant’altro. Capisco anche che questa notizia sia anche una perfetta “arma di distrazione di massa”, la distrazione dalla monocorde e monotematica questione covid, ma… i TG nazionali non hanno proprio null’altro da dire?

Già siamo preda di una sorta di anestesia e ipnosi di massa legata alle molte ore di computer che ogni giorno ognuno di noi trascorre – per chi è lavoratore del cosiddetto “terziario” – tra riunioni su meet, zoom, skype call, messaggi whatsapp, e-mail, proposte di webinar e chi più ne ha più ne metta… viviamo già in una specie di bolla a cose normali, se poi la bolla diventa surreale fino a questi punti forse lo spettacolo migliore da vedere per tornare alla realtà è il fuoco del camino accesso (pure lui un po’ ipnotico in verità, ma almeno non sta su uno schermo e scalda per davvero…).

(Tornare a) vedere "Alien" in tempo di pandemia

Alien

Ieri ho voluto provare a rivedere Alien, uno dei capolavori di Ridley Scott. L’“introduzione” alla questione fantascientifica è sempre un po’ quella che sappiamo (o almeno: quella che a me piace vedere in essa), ovvero: le paure – perché tipicamente sono quelle ad essere l’oggetto della storia nella stragrande maggioranza dei casi che leggiamo in un romanzo o vediamo in un film – che si originano dall’immaginare un futuro dell’umanità, condannato quasi invariabilmente, in vario grado, a una distopia. Se questo mio punto di vista (che credo per altro sia ampiamente condiviso) ha un suo senso, allora vedere “vecchia fantascienza” è anche un modo per capire quale fosse l’immaginario del tempo in cui il film veniva girato e quali le sue paure.

Il genere fantascientifico ha poi tutta una sua articolazione – anche molto dettagliata – in quelli che potremmo definire sottogeneri. Su questo confesso di non saperne molto, ma una prima distinzione sommaria può essere vista nel legame, più o meno stretto, tra questo genere e la scienza. L’esempio classico che si fa in questi casi è quello di Arthur C. Clarke, famosissimo autore di fantascienza, ma anche noto per aver ipotizzato per primo l’orbita geostazionaria – ovvero quella fascia di spazio in cui un oggetto (un satellite, naturale o artificiale o altro) è in equilibrio tra la forza di attrazione gravitazionale (in questo caso terrestre, ma ovviamente, trattandosi di “legge di gravitazione universale”, questo discorso tende a valere abbastanza dappertutto nell’universo) e la forza centrifuga che è data dal suo orbitare attorno alla Terra, appunto. Oppure dell’altro genio assoluto che Isaac Asimov: uomo di scienza, a sua volta, oltre che romanziere.

Ecco: il grado di aderenza alla realtà scientifica e quindi alla plausibilità della storia, quando è “alto” si chiama Hard Science Fiction (HSF), ovvero una fantascienza che, pur ipotizzando scenari più o meno apocalittici, vuole essere il più vicino possibile alla realtà. In tempi recenti un esempio di questa HSF è Interstellar di cui, non dimentichiamolo, il consulente scientifico di punta è stato Kip Thorne, che successivamente ha vinto, insieme ad altri, il Nobel per la Fisica. In tempi meno recenti potremmo senz’altro citare il “filosofico” Matrix, alla cui base c’è la distopia totale dell’essere in una matrice, ovvero in un mondo virtuale creato apposta per noi che però fisicamente siamo dentro a dei “baccelli” (qui si aprirebbe un capitolo anche sui “crediti” che la nuova fantascienza ha nei confronti della vecchia: i baccelli di Matrix a me hanno ricordato immediatamente L’invasione degli ultracorpi…).

Per tornare alla questione tassonomica: ovviamente si tratta di un continuum, dal momento che sono ormai tali e tante le opere di fantascienza che idealmente potremmo tracciare una linea (o forse un piano cartesiano…) in cui collocarle e dove appunto la gradazione potrebbe essere data da quanto siano aderenti o meno alla scienza. Scienza nel senso più ampio del termine: Gattaca è, per me, HSF e in un certo senso lo è anche più “pericolosamente” di altre storie forse proprio perché non riguarda la minaccia che viene dallo spazio, ma quella minaccia ben più concreta che siamo noi.

Quindi Alien dove si colloca in questa specie di tassonomia appena descritta? Direi, dopo averlo riguardato di fresco ieri sera, senz’altro non nella HSF! Insomma: ammesso di essere proiettati in un futuro – probabilmente ancora “plausibile” nel 1979: la stagione degli Shuttle NASA prende avvio, tra successi e tragedie, nel 1981 – in cui andare in giro per lo spazio sia da considerarsi una routine, magari anche noiosa (l’equipaggio è ridotto all’osso, l’astronave Nostromo è confrontabile mutatis mutandis con uno dei tanti cargo che solcano i nostri oceani…), appare abbastanza poco plausibile che, sentito un segnale proveniente dallo spazio che possa rivelare forme di vita aliene, i componenti della nave si espongano in modo tanto ingenuo al pericolo. Non sappiamo ovviamente nulla della Terra, ma sappiamo per certo che la compagnia per cui il manipolo dei nostri protagonisti lavora è interessata al business e magari ad avere un indiscutibile vantaggio verso altri concorrenti al punto da cercare forme di vita extraterrestri da usare come arma contro quelli che potremmo immaginare come dei rivali in affari. Perché sottotraccia il motivo dell’esposizione a tale e tanto pericolo è quella. Poco plausibile, mi pare. Al punto che la vera protagonista, una giovanissima Sigourney Weaver che interpreta Ellen Ripley, uno degli ufficiali al comando, è l’unica ad opporsi al rientro sulla nave di uno dei membri dell’equipaggio colpiti dall’alieno che, a metà tra il simbionte e il virus, tiene invita il suo ospite fino a quando non è cresciuto abbastanza. È l’unica ad opporsi perché poi scopriamo che l’altro ufficiale medico è in realtà un sofisticatissimo robot, mandato dalla cinica compagnia proprio con l’obiettivo di catturare l’organismo alieno e farlo arrivare alla Terra. E il pensiero immediato è: ma se la compagnia è in grado di costruire robot tanto sofisticati da sembrare uomini a tutti gli effetti – l’equipaggio (e noi spettatori con loro) si accorge abbastanza tardi di questo infiltrato – perché non ha mandato a catturare l’alieno una squadra di questi robot? Se continuiamo a percorrere la china del cinismo verrebbe da rispondersi: perché gli uomini “costano meno” e quindi sono sacrificabili. Ma davvero sembra tutto un po’ poco plausibile.

Vedendo poi il film oggi, dove “l’alieno” reale che stiamo combattendo non è grande, grosso, mostruoso e truculento ma del tutto invisibile anche se non meno letale, viene davvero da chiedersi quanto il 1979 sia distante e quanto quel mondo sia lontano da noi per un immaginario (e una realtà) totalmente cambiate.

‘sti coreani!

«Cercare ostinatamente la verità e marciare verso ciò che è giusto è un processo infinito. Fermarsi, anche solo per un attimo, significa fallire. Marciare verso il cambiamento è come avere due aghi ai piedi con un filo invisibile che ti segue e non si ferma mai mentre continui a marciare. Con la convinzione che un po’ di speranza sia migliore di un’immensa disperazione, andiamo avanti con costante determinazione ancora una volta.»

Questi “i titoli di coda” di una serie coreana – dal titolo un po’ anonimo, Stranger, e per altro confondibile molto facilmente con un’altra serie sempre presente sulla piattaforma Netflix, The Stranger, che però è un’altra cosa… – che ho finito di vedere qualche sera fa. Perché in un momento come questo, e forse anche nei momenti che seguiranno a questo, in cui sarà oggettivamente più difficile spostarsi in giro per il mondo, uno dei modi “virtuali” per vedere altri mondi e modi di vivere è quello, forse un po’ banale, di guardare delle serie televisive che da quei mondi lontani vengono. Per carità: la Corea (quella del Sud) è “Occidente”, a volte più occidente dell’Occidente come stile di vita metropolitano, e fin qui nulla di nuovo sotto il sole.

Ciò che a me però interessa sono le storie ed essendomi abbondantemente stufato di quelle statunitensi et similia – in cui, come ai bambini, si racconta che da una parte ci sono i buoni e dall’altra i cattivi; che i buoni, nonostante tutto, vincono anche se non hanno tante armi (perché quasi sempre di pistole e di ammazzamenti si parla) come i cattivi ma sono più intelligenti e buoni appunto, ecc. ecc. – vado spesso in cerca di storie diverse o, se non è possibile averle diverse, declinate in altre salse. E in effetti la storia di Stranger alla fine è una storia abbastanza normale: il protagonista è un procuratore che a causa di una malattia (tumore? non lo sappiamo) da ragazzino subisce una operazione al cervello, mantiene integre le proprie facoltà (anzi: quella della memoria diventa prodigiosa) al prezzo di una alessitimia che lo rende, appunto, un po’ strano o “estraneo” soprattutto nei momenti di convivialità.

Il suo alto senso della giustizia lo rendono inattaccabile e il potere – anche quello di chi è sopra di lui – in sostanza gli fa un baffo. Sembra sempre non aver nulla da perdere e questo, nella sua mitezza, ce lo rende simpatico perché è un “puro”, completamente fuori dai giochi di potere. Forse anche qui non c’è nulla di nuovo: che la corruzione sia connaturata al potere e non conosca latitudine non ci sorprende. Sorprende invece, soprattutto a noi italiani, il fatto che di fronte a una accusa – e nel caso del telefilm, praticamente sempre fondata – l’accusato, per prima cosa, vada in sala stampa, si scusi per il suo operato e per aver tradito la fiducia dei cittadini e, dopo profondo inchino, esca di scena. Sicuramente siamo sempre nell’ambito della finzione, ma per quanto io non sappia dire quale sia il grado di verosimiglianza con altre serie tv a noi più vicine (ho visto polizieschi finlandesi, inglesi e francesi la cui verosimiglianza c’era…), è pensabile e credibile che, nonostante tutto, nel Sud Est Asiatico questo senso della dignità esista. Come italiano rimango stupito perché dacché sono al mondo non ho mai visto in nessuna occasione fare una cosa simile (magari anche meno plateale) a un politico o a un alto funzionario. Di certo me lo avrebbe reso più simpatico e più vicino a quel mondo ideale che tutti vorremmo e spesso cerchiamo nella finzione televisiva.

Il poster di Stranger, tratto dall’omonima pagina Wikipedia inglese.

Maometto e la Francia

Dunque, sto leggendo un libriccino scritto non proprio benissimo (ma l’autore, non me ne voglia la categoria, è un informatico e il valore aggiunto sono le informazioni che il libro dà), ma interessante, questo. Il titolo può sembrare, soprattutto in prima battuta, un po’ drastico, ma le ragioni per cui si dovrebbe fare un atto tanto radicale vengono spiegate molto bene. In particolare c’è un capitoletto che parla dell'”effetto tribù” che i social media generano e di come gli asettici (e folli) algoritmi che ci profilano e ci fanno vedere alla fine solo ciò che ci interessa, accentuino questo fenomeno. Proprio in questo capitoletto è citato un altro libro che entra nel dettaglio di questa faccenda ed estende la questione a internet e non solo ai social media: un motore di ricerca come Google digitando le stesse identiche parole sulla sua oracolare bocca, è molto probabile mostri risultati diversi a seconda di chi sta digitando. Una cosa che mi sembrò curiosa all’inizio, ma che in effetti, ripensandoci, è in sé abbastanza inquietante. E’ come se, dice l’autore, facendo una ricerca su Wikipedia su Donald Trump venissero fuori schede diverse a seconda se si stia dalla parte dei democratici o dei repubblicani. Il libro citato è questo, ma siccome i libri sono diventati oggetti “usa e getta”, nonostante non siano passati moltissimi anni dalla sua pubblicazione (è del 2012), risulta introvabile anche su siti di libri usati come Libraccio o su e-bay. Vabbè, pazienza.

Uno dei messaggi importanti di questa lettura (e della lettura della sinossi di quello introvabile) è che – proprio perché siamo di fronte a una “profilazione tribale” in cui l’autorinforzo di come la pensiamo è a sistema – è necessario, per quanto possibile, sforzarsi sempre di allargare l’orizzonte e, a volte, questo accade senza che lo vogliamo.

La mia piccola attività editoriale fa capo a una associazione culturale, il cui nome sono le prime due lettere del mio nome (Lu) e le prime due del cognome (Ce). Ho quindi, banalmente da anni un indirizzo di posta elettronica su gmail che è: associazione-punto-nome dell’associazione-chiocciola-gmail.com. Si dà il caso che è (molto) probabile che esista un’altra associazione che abbia un indirizzo simile al mio ma senza il punto tra “associazione” e il nome dell’associazione. Curiosamente le mail a loro indirizzate arrivano, a volte, anche a me. Un po’ allarmato ho contattato Google: se tanto mi dà tanto significa che anche alcune mail che dovrebbero arrivare a me allora arrivano a loro! Mi hanno risposto – ma forse a rispondere era un’intelligenza artificiale… – rassicurandomi (?!?): tutto sotto controllo, le mail con le varianti (senza “.” tra nome e cognome, come nel caso mio) arrivano sicuramente a me che ho registrato quel nome col punto – anche se in linea di principio dovrebbe trattarsi di due indirizzi diversi. Insomma: non ne sono venuto a capo, ma sapete meglio di me che creare un altro e account e dire a tutto il mondo che fino a quel momento ti ha contattato lì (per carità: un mondo molto piccolo) è comunque oneroso (in termini di tempo) oltre che spiacevole. Quindi: speriamo bene. Questa digressione però mi serve per dire che mi sono arrivate, ancorché sporadicamente, mail dell’U.CO.I.I., l’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia. Vi riporto l’ultima, una specie di comunicato stampa e una presa di posizione ufficiale nei confronti della Francia, di Macron e della polemica che è seguita alla decapitazione dell’insegnante Samuel Paty che ha mostrato le vignette del profeta Maometto realizzate dal giornale satirico Charlie Hebdo.

Il comunicato dell’UCOII

Ora: su questa faccenda si può dire tutto e il contrario di tutto. Noi, in quanto Occidentali, abbiamo degli imprinting e dei bias da cui, con difficoltà riusciamo a liberarci. Forse Macron sbaglia e rischia di strumentalizzare una questione molto più delicata di quel che sembra, ma quando vedo scrivere “Assumere gli alti valori della libertà di espressione per giustificare la bestemmia non va certo nella buona direzione” se da un lato mi sembra un pensiero condivisibilissimo, dall’altro mi fa pensare a quanti di questi “alti valori della libertà di espressione” ci siano in paesi in cui l’islamismo è radicato e radicale. Il ginepraio dei “se” e dei “ma” è molto vicino e finirci dentro significa dare inizio a discussioni infinite, quindi: mi fermo qui.

Di sicuro molte questioni andrebbero riviste e molta storia dovrebbe essere riscritta: molti dei miei concittadini occidentali – ed essere tali significa essere imbevuti di una cultura e di un entertainment (si pensi solo ai film di cassetta degli ultimi che fanno vedere l’islamico come fanatico e l’occidentale come portatore di valori come la democrazia…) va in un’unica direzione e fa sempre e solo vedere un lato della medaglia – si fermano alla superficie delle cose senza riflettere sui perché. Perché le torri gemelle? Perché da lì in poi ci fu un’escalation di attentati che hanno colpito un po’ di qua e un po’ di là dall’oceano? Si sono scritti interi libri e versati fiumi di inchiostro su queste faccende, ma per documentarsi – e per farlo bene e cercare di essere liberi nel farsi un’opinione – servono tempo ed energie. Spesso, quasi sempre, è molto più facile cedere ai richiami della tribù (complice il funzionamento della “macchina” internet…) fare di tutta l’erba un fascio (musulmano in linea di principio è diverso da arabo, come ebreo lo è da israeliano…) e pensare che questi siano dei fanatici.

Lo avrete capito: non sono qui per parteggiare su “chi ha ragione”, ma solo per mettere sull’avviso del fatto che siamo dentro a una bolla e in particolare dentro la bolla di chi la pensa come noi. Questo non unisce ma divide e impedisce di capire e comunicare con chi ha una storia, una tradizione diversa dalla nostra. E allora la mente torna a quella specie di seconda patria che per me è la Sicilia (mia madre è siciliana e mia moglie lo è – forse Freud avrebbe da dire molto su questo, ma soprassediamo…): visitando la magnificente Palermo non si può non imbattersi nell’itinerario arabo-normanno: ciò che rende magnificente questi edifici è proprio la contaminazione: nello stesso edificio (il duomo di Monreale) troviamo l’effige bizantina del Cristo pantocratore (una di quelle cose che di per sé ci lasciano già a bocca aperta) e, non lontano, in una delle colonne dell’elegante portico in stile gotico-catalano l’incisione di un passo del Corano in caratteri arabi. Un dettaglio dei mille che sono l’indice di quella contaminazione arrivata fino a noi. Certo ancora una volta si possono fare obiezioni (la prima che mi viene in mente è la riconvesione in moschea della (ex) Basilica di Santa Sofia da parte di Recep Tayyip Erdoğan – la cui biografia politica però si avvicina pericolosamente a quella di un dittatore…), ma credo sia necessario dare il buon esempio, laddove si può. Un esempio di inclusione che arriva da quasi mille anni fa.

Carta, amianto e olio: oneri e onori dei cittadini

Vorrei raccontare tre piccoli episodi distinti, ma tutti con un denominatore comune: l’onere del cittadino nei confronti dei rifiuti che produce. Già, perché in molti casi non è sufficiente pagare la TARI, bisogna (ulteriormente) mettere mano al portafoglio o trovarsi, come nel caso più “semplice”, quello della carta, nell’imbarazzo di non sapere fino in fondo se quello che si sta facendo è “giusto” – perché la sacrosanta educazione a differenziare i rifiuti finisce dove inizia la giungla delle regole e regolette di dove vivi. Partiamo dunque dal primo, la carta

Carta: non so se vi è mai accaduto di riflettere, durante la colazione, con il pacco di biscotti aperto, tra voi e voi o, come nel caso mio, tra me e mia moglie, su dove vada il confezionamento dei biscotti – quella cosa che fuori sembra innocentissima carta e dentro ha un velo argenteo che immediatamente vi fa sobbalzare e pensare (e dire): “no, non è carta! Come può essere?”. Allora cercate nelle indicazioni di smaltimento (per fortuna sempre più frequenti negli imballaggi), ma… spesso trovate questo disclaimer:

(scusate c’è scritto Coop, ma NON vole essere pubblicità occulta: immaginate qualunque produttore vi venga in mente…)

La frase incriminata – che è quella che non vi toglie dall’impaccio, ma solleva il produttore da quale responsabilità – è: “verifica il sistema di raccolta dei rifiuti da parte del tuo Comune”. Ovvero: loro producono, dicono che l’imballo dovrebbe andare nella carta, MA per essere sicuri bisognerebbe sentire il comune che dice. Il produttore del sacchetto di innocenti biscotti che in milioni di case italiane tutte le mattine campeggiano per la colazione sul tavolino, fronteggia la questione dicendo: “ascolta, dovrebbe essere riciclato nella carta, ma siccome siamo in Italia che è il paese dei campanili o ogni cantone fa come gli pare – compresa la zona in cui vivono i miei che credo sia una delle ultime in Italia dove NON si differenzia! – è bene che ti informi”. Ora, per carità, uno lo può anche fare, oppure fregarsene e, a cuor leggero, buttare nella carta o in un’altra tassonomia, meno stringente (e per questo più consolatoria per il differenziatore seriale che siamo diventati) che, almeno qui in Toscana, ha questo nome rassicurante: “multimateriale”. Multimateriale vuol dire, in potenza, tutto e questo è assolutamente fantastico perché quando hai un dubbio, per non sbagliare lo butti nel “multimateriale” che, per definizione, è la composizione multipla di materiali (diversi). Il tono vuole essere scherzoso perché abbiamo problemi più seri, ma se è vero che il diavolo si nasconde nei dettagli, questo dettaglio è il segno – l’ennesimo? – di un paese che nemmeno per cose come queste (con regole che dovrebbero essere NAZIONALI e non “verifica con il tuo Comune”, o magari con la tua parrocchia…) riesce a trovare un denominatore comune.

Amianto: il cantiere “casa nuova” – dove ci siamo provvidenzialmente trasferiti lo scorso anno prima dell’arrivo del lockdown – non è ancora finito: abbiamo “ristrutturato”un vecchio camino aperto per farlo diventare chiuso (e quindi più efficiente e sicuro). Nella ristrutturazione il muratore, dandoci giù di mazza, scopre che la canna fumaria è in eternit, di cui credo molti sappiano la storia (giusto per un “ripassino” sarebbe utile a tutte le generazioni, presenti e future, la visione obbligatoria di questo documentario). La rimuove – per fortuna abbiamo a portata di mano le mascherine FFP2! – facendo la massima attenzione a non rompere le fibre più del necessario, poi lo aiuto e lo impacchettiamo in due sacconi (è una specie di parallelepipedo 159 x 24 x 36 cm) e poi cerco di capire come smaltirlo (mentre di fronte a me, nella proprietà accanto, c’è un vecchio ricovero attrezzi con il tetto in eternit; dove vivevamo prima idem e ho ricordi di ragazzino – si parla di metà anni ’80 -, di quando ho aiutato mio padre a fare una copertura sul terrazzo di casa con… l’eternit). L’eternit è ovunque insomma ed è poco consolatorio che, se non “toccato”, è un materiale che rimane “inerte” (anche se alla lunga, esposto agli agenti atmosferici, pure lui degraderà piano piano, diffondendo quei bei filamenti responsabili del mesotelioma pleurico…), come non è consolatorio che il processo a quella specie di filibustiere di Schmidheyni – patron dell’azienda svizzera produttrice dell’amianto, la cui nocività era acclarata se non ricordo male fin dagli anni ’50 del secolo scorso – non abbia sortito nulla e la sua messa al bando sia vecchia di decenni. Quindi, da onesto cittadino, telefono al servizio preposto del mio comune e il solerte impiegato semplicemente mi consiglia di rivolgermi a “ditte autorizzate”… Cerco su internet, mi faccio fare un paio di preventivi e questo che vedete qui sotto, è quello che ho pagato meno:

(ho tolto ovviamente un po’ di “dati sensibili”…)

Ora: io sono nella fortunatissima condizione di potermi permettere di pagare questa somma e di essere onesto, ma se una persona non potesse permetterselo? Oppure, se anche potendoselo permettere, decidesse di “risparmiare” 427 € (ragazzi non stiamo parlando di qualche decina di euro…) e nottetempo si caricasse in auto la canna fumaria di cui sopra (o la copertura – dopo averla fatta a pezzi magari senza troppi scrupoli) per “smaltirla” illegalmente nel primo campo che trova? Da subito lo Stato avrebbe dovuto incentivare l’immediata eliminazione e lo smaltimento di tutto il materiale presente sul territorio nazionale, con vantaggi tangibili per la salute pubblica (e, di conseguenza, per i conti della Sanità); invece ci si è limitati a stabilire regole (giustamente) severissime scaricando i costi sui privati, con i ringraziamenti delle ditte accreditate.

Olio: e, a proposito di “ditte accreditate”, un amico, per risparmiare qualche soldino ed essendone capace, ha deciso di cambiarsi l’olio dell’auto da solo. Mi racconta che esiste un consorzio per lo smaltimento dell’olio esausto, l’operatore di zona si trova a circa 20 km da dove vive. Telefona e chiede: lo smaltimento è gratuito, ma il trasporto (di 2 taniche) lo devono fare loro, con il suo “contributo” di 80 euro.

Ce la faremo? Mi pare di no…

Bianco, rosso e verdone

Ieri sera, stanco della proposta dei “soliti canali” – tra i quali comincio purtroppo ad annoverare anche Netflix – ho tirato fuori dalla cineteca, ormai tutta virtuale, un vecchio film: Bianco, rosso e verdone.

Confesso di non amare particolarmente la comicità di Carlo Verdone, né quella della “prima ora” (come in questo film) né quella successiva, ma debbo riconoscergli delle grandi qualità di attore e soprattutto, in questo film, la capacità di aver colto nel segno alcuni degli stereotipi nostrani.

La storia – anzi: le storie, visto che sono tre – le sappiamo e sono tutte accomunate dalla questione di esercitare quel diritto-dovere che è il voto elettorale. Una cosa che, almeno una volta, non moltissimi anni fa per altro, era presa con grande serietà dalla grande maggioranza delle persone, come dimostra l’infografica qui di seguito (che si ferma al 2013).

Questo film mi è particolarmente caro perché, mutatis mutandis, mi sono trovato, in momenti diversi della vita, in alcune delle situazioni descritte. Questa dell’importanza del voto, per esempio – con l’epico viaggio dell’emigrato Pasquale Amitrano che da Monaco di Baviera arriva a Matera con la sua Alfasud per andare a votare – mi ricorda l’occasione di molti anni fa (facevo ancora l’università ed era una di quelle domeniche dedicate allo studio…) in cui, assente un anziano amico, feci da “cavaliere”, andandola ad accompagnare al seggio, alla ancor più anziana madre che davvero sarebbe potuta essere, sicuramente per lo spirito anche se non per il fisico, la Nonna Teresa (Elena Fabrizi, una delle sorelle del mitico Aldo) del giovane Mimmo. Ebbene, trovai ad aspettarmi sulla porta questa novantenne minuta e coriacea vestita di tutto punto, come se dovesse recarsi a una cerimonia, a un evento importante. E aveva ragione, perché quello del voto, pur così bistrattato nella nostra modernità e nelle nostre “democrazie mature”, “democrature”, “democrazie-dittature”, sembra aver davvero perso ogni forza, dovuta alla delusione che spesso c’è tra la promessa di cambiamenti e i cambiamenti che non arrivano. Ma non voglio prendere questa china…

Il povero Amitrano poi – l’emigrante “express” che scende in Italia in un climax poco gradevole, al punto di vedersi sottrarre letteralmente sotto il naso, pezzo dopo pezzo, la preziosa Alfa Romeo (status symbol tutto italico e sinonimo “dell’avercela fatta” all’estero, magari male, ma di avercela fatta…) – mi ricorda da vicino uno zio ormai non più tra noi, il marito della sorella più anziana di mia madre. Pure loro costretti dalle vicende della vita ad emigrare dalla Sicilia a Mons, in Belgio, lui era solito “spararsi” senza soste Mons-Messina con un’auto “da pazzi” (almeno pari a quanto lo era lui…): una Renault 5 turbo, un oggetto sì “di serie”, ma che aveva le caratteristiche di una specie di proiettile su quattro ruote, di cui, io ragazzino, ero ovviamente ammaliato sebbene i ricordi siano piuttosto vaghi. Un altro dettaglio che avevo dimenticato vedendo il film è proprio la “doppia colazione” che Amitrano fa: la prima a casa con la moglie mangiando quei wurstel pallidi che ci fanno ancora oggi un po’ inorridire. La seconda al bar (con un caffè), dove, per un attimo sembra di essere in Italia (ma siamo sempre a Monaco) perché le scritte sono in italiano e si parla italiano – e se possibile dialettale. Ecco: questa ricostruzione non è frutto di fantasia. Accompagnai in più di un’occasione lo zio trasferito in Belgio, quando fummo suoi ospiti e mia zia si stava aggravando per una malattia che poi la portò alla morte: passare la porta del bar era come varcare una soglia spazio-temporale, dove le persone parla(va)no un dialetto che, nel caso specifico, riconoscevo come un generico siciliano (ma nella stessa Sicilia ci sono molte, moltissime inflessioni) per altro “cristallizzato” e stratificato secondo le regole di una lingua che lì non è più viva, se non “in serra”, in quell’ambiente artificiale e un po’ strano che era l’interno di quella piccola enclave di pochi metri quadri; gli arredi e le scritte italiane erano quelle di anni prima, ma tutto si era un po’ fermato e rallentato (parlo degli anni ’80, dove le comunicazioni erano più difficili, l’Europa aveva da venire così come la globalizzazione e internet non esisteva se non come “settore di ricerca”).

Infine c’è Furio. Beh, potete pure non crederci, ma pure io ho avuto, a mio modo, il “mio” Furio. Nella mia rocambolesca vita lavorativa, sono stato manager, responsabile macroregionale per l’ufficio stampa della più grande azienda farmaceutica del mondo. La macroregione comprende Val d’Aosta, Piemonte, Liguria e Sardegna. Avevo casa a Torino e non lontano da me stava il manager che coordinava il nostro gruppo sul territorio. Un “bravo ragazzo” torinese, ma con accenni alle caratteristiche esasperate che caratterizzano il personaggio del film – ed esasperanti al punto che, sempre nel film, si esplicitano con la necessaria “fuga per la sopravvivenza” della povera Magda. Ebbene, un giorno – per citare l’episodio più innocuo (ma posso assicurare che ce ne furono di non innocui e anche piuttosto antipatici) – in una delle pause durante le “riunioni strategiche” che tenevamo, il buon Francesco (nome di fantasia) aprì un foglio excel del suo portatile per mostrarci (con orgoglio ovviamente) dove avrebbe portato in vacanza la sua famiglia (composta da moglie e due figli, esattamente come quella di Furio) per i prossimi 10 anni. Ricordo che sorridemmo… preoccupati.

Perché alla fine Verdone, descrivendo e volutamente esagerando i tre archetipi delle sue storie, ci ha visto giusto: esistono i Mimmo, esistono i poveri Pasquale Amitrano che non dicono una parola in tutto il film (arrivando da un luogo in cui non parlano la lingua) e sproloquiano solo alla fine in un grammelot degno di Dario Fo, ma soprattutto esistono i Furio Zoccano da cui è necessario, come ci insegna l’attore-regista, diffidare e stare alla larga.

Amazon e “il manifesto”: il mistero di un e-book

Ieri mi è stato segnalato, in una chat su whatsapp, questo ebook: https://leggi.amazon.it/litb/B08JCMG8WL?f=1&l=it_IT&r=c744d6fb&ref_=look_inside
Le piccole-grandi contraddizioni sono sempre dietro l’angolo e, in primis, questa sta in coloro che hanno pubblicato l’instant e-book segnalato al link (Attenti ai dinosauri, curato da Luciana Castellina). Ho letto la premessa (della Castellina) al libriccino, in cui parla di “fede ambientalista” – e mi vien subito da pensare al fatto che tutto sia diventato “religioso”, nel senso deteriore del termine, se anche per l’ambientalismo si deve parlare di fede.
Ma, a parte questo, al solito ciò che mi sconcerta è il “mezzo”: la pubblicazione sembra essere su Amazon e DA NESSUNA ALTRA PARTE sul web (il link indicato infatti rimanda al sito Amazon). Quindi se si vuole acquistare e comprare questo e-book è necessario passare dall’azienda gestita da uno dei più grandi filibustieri e disintegratori del pianeta che troviamo nella modernità: Jeff Besoz.
A qualcuno di coloro che mi conoscono più da vicino credo di aver accennato il contenzioso avuto con Amazon per la mia piccola attività editoriale che avevo messo sul loro marketplace dopo regolare registrazione: dopo 3 mesi che mandavo libri, (1) con ordini di UNA COPIA alla volta (quindi corrieri che impazzano a destra e sinistra per 300 g. di libro); (2) con una specie di accordo capestro in cui si hanno 24 ore per mandare il libro stesso (o dire che non è disponibile) e (3) un pagamento “a babbo morto” del 49% sul prezzo di copertina (loro si tengono il 51%, non negoziabile! – così si fa presto a fare i soldi…), ebbene dopo 3 mesi così hanno sostenuto che non mi potevano pagare perché non emettevo fattura. Ma io non posso emettere fattura (nel form di iscrizione avevo messo il codice fiscale) perché il marchio editoriale fa capo a una associazione culturale che non può avere partita iva (quindi posso emettere ricevute ma non fatture). Sono andato alla Codacons e dopo un paio di mesi e qualche botta e risposta tra avvocati ho avuto quel che mi spettava (spiccioli per loro, eh, intendiamoci) e ho chiuso definitivamente il marketplace di Lu::Ce edizioni (anche se i miei libri lì si trovano ancora e la prossima mossa sarà fargli causa perché a chi cerca di acquistare lì sicuramente dicono che il libro non è più disponibile – l’accordo commerciale con me è saltato – mentre invece lo è, e in questo modo mi danneggiano…) e a livello personale su Amazon non compro più neanche uno spillo da anni.
Questo solo per dire che si parla di ecologismo, di buone pratiche, buoni propositi ecc. e poi si cade sulla “buccia di banana” della “comodità”: essere su Amazon dà visibilità, è comodo, tutti comprano lì – facile no? Ragazzi la vedo davvero in salita se vogliamo cambiare realmente le cose!!!
PS: cercando meglio scopro che l’e-book si trova in effetti anche sul sito del “manifesto” (per altro a un prezzo decisamente inferiore di quello a cui è venduto su Amazon – te pareva? – a questo indirizzo: ), ma (1) il fatto che abbia dovuto impiegare 10 minuti buoni a trovarlo e a impegnarmi perché non compare nei primi risultati di Google, ma ci sono arrivato attraverso le immagini, la dice lunga… e (2) il libro viene indicato come “novità” anche se è già “non disponibile” (vedi immagine qui di seguito…)! Potenza di Amazon? Siamo veramente al paradosso.
Passo e chiudo, buona domenica!