Musica per (r)esistere


L’altro giorno in treno avrei voluto ascoltare un po’ di musica. Di solito mi appoggio a Spotify, che mi pare una delle più utili applicazioni di questi strumenti (traffico dati permettendo – ma questo vale un po’ per tutte le app).
Spotify però non funzionava come avrebbe dovuto e ho ripiegato quindi su quell’altra “miniera” che è YouTube. Mi è venuta voglia di ascoltare un concerto di cui mi ero innamorato molti anni fa quando, piuttosto velleitariamente, stavo tentando di completare una enciclopedia della musica classica in fascicoli – ebbene sì, sembrano mille anni fa, eppure esisteva (e ancora esiste: basta andare in un’edicola qualunque) quel mondo. Il tentativo naufragò perché a un certo punto interruppero la produzione dei fascicoli e dei CD allegati e così l’opera rimase monca e la collezione incompleta.
Iniziai ad ascoltare questo concerto per pianoforte e orchestra di Beethoven, famoso, chiamato “imperatore” – sebbene impropriamente. Chissà se si trova su Youtube (domanda retorica dalla risposta certamente affermativa)… e che quale esecuzione. Ebbene, ho trovato questa del Maestro Daniel Barenboim. Ho avuto fortuna perché sono riuscito a vederne anche il video, con le riprese che – quasi a camera fissa in certi momenti – indugiano sulla tastiera del pianoforte e sulle mani dell’esecutore, che non definiresti, da profano, le mani di un pianista, nonostante la perizia e l’agilità, ma comuni mani, un po’ cicciotte e non certo affusolate. Bah, mi sono detto, forse per suonare questo Beethoven ci vogliono mani possenti, vigorose e non proprio delicate («Ecco Duke Ellington / grande boxeur / tutto ventagli e silenzi», dice Paolo Conte in una canzone delle sue). Fatto sta che, soprattutto sul secondo movimento, la commozione è stata forte, come lo era 25 anni fa.
Ed è così che stamattina mi è capitato di ascoltare – sempre per caso e sempre in auto, luogo deputato all’ascolto della radio – quel fenomeno di Edoardo Camurri a “Pagina 3”. Oggetto della puntata di questa mattina: l’assedio di Leningrado e la settima sinfonia di Sostakovic, ricordata da Pietro Citati in un articolo comparso questa mattina su Repubblica:

Stalin aveva una grande passione per la musica. […] Non amava Leningrado nella quale scorgeva l’incarnazione di tutto ciò che detestava: la cultura, la vita, la libera discussione, l’eleganza degli edifici, i colori verde e rosa, l’antico profumo aristocratico. […] Sostakovic cominciò a comporre la settima sinfonia a Leningrado durante l’assedio… voleva che venisse eseguita per la prima volta nella mia amata città, che ne aveva ispirato la creazione.

Citati descrive lo scenario che fu all’origine della leggendaria Settima sinfonia narrando dettagli che lasciano sgomento il lettore odierno, come il direttore d’orchestra che giunge in ritardo alle prove perché aveva appena finito di seppellire la moglie, morta di fame.
La drammatica enormità di una guerra mondiale accompagnata dall’assoluto della morte, la grandezza della Russia e – a quell’epoca – della Germania. Tutto sotto la follia di Stalin, in preda alla follia della fame. Una sinfonia per 105 elementi e 250 pagine di partitura: fu difficile trovare i musicisti, non c’erano i flauti e gli oboi. Gli sguardi dei musicisti erano fissi come icone per la fame e le tribolazioni della guerra. I sodati nazisti erano a poche centinaia di metri. La sinfonia fu eseguita nel tardo pomeriggio del 9 agosto 1942. Essi ascoltarono attentamente la bellissima musica composta contro di loro. Tutto sembra netto, in un frangente come quello e nel contempo come sospeso, mentre i musicisti suonano per resistere, con i nazisti quasi di fronte a loro.

Sugli editori di riviste internazionali

E’ almeno da quando ho fatto il master in Comunicazione della Scienza, quindi 15 anni fa, che sento parlare dello “scandalo” delle multinazionali dell’editoria: i grandi editori – Elsevier in testa – si sono accreditati presso le più importanti accademie (cooptandone professori e assegnando loro ruoli editoriali considerati di prestigio…) e hanno monopolizzato il mercato fino a creare un vero e proprio “business della pubblicazione”, con tutte le distorsioni che questo comporta, a partire, per esempio, che un libretto di 100 pagine dell’editore Springer (che ho scoperto recentemente essere di fatto all’interno del gruppo Elsevier) arrivi a constare oltre 50 dollari. Questo ha portato, per altro, a una fiorente pirateria anche in questo settore – i più informati ricorderanno lo “scandalo”* del sito sci-hub.
Tutte cose che si sanno, che si sono sempre più o meno sapute e che l’establishment accademico ha sempre più o meno accettato senza grandi rivoluzioni con due sole eccezioni significative a me note:

  1. quella dei fisici che a suo tempo crearono l’archivio pubblico alla Cornell University “arxiv” (https://arxiv.org/) ormai estesosi ad altre discipline: non propriamente una “rivista”, quanto piuttosto un luogo in cui depositare il proprio lavoro, affinché i propri risultati di ricerca, ancorché parziali, possano essere resi pubblici al fine di poterne vantare (in caso di controversie) la paternità;
  2. quella di alcuni premi Nobel che – forti della loro posizione – decidono di non pubblicare più su riviste di settore. Fu il caso, con una certa eco mediatica, di Randy Schekman, Nobel per la medicina di qualche anno fa, che espresse pubblicamente la volontà di non pubblicare più su Nature e riviste affini, come ricorda questo articolo di Wired.

Il primo dei due è un tentativo sistematico di “cambiare il sistema”; il secondo non lo è, e quindi amen, tutto procede come nulla fosse e pubblicare sembra essere – almeno per la mia modesta esperienza – una delle cose più difficili. E attenzione: è giusto che lo sia: c’è molta competizione e molta gente in gamba. Però… ci sono dei però.
E uno di questi “però” salta fuori proprio in questi giorni, quando, di fronte al tentativo di sottoporre a una rivista di settore il nostro articolo (mio e dei miei tutor), la risposta che ci arriva, dopo appena qualche giorno dall’aver assegnato al manoscritto un identificativo, è la seguente:

Dear Mr. Celi,
Thank you for submitting your manuscript to XXX. Before sending a manuscript out for peer review, the editors assess whether it is suitable for consideration for publication in XXX. For the reasons stated in this email, our preliminary editorial review found that your manuscript does not meet XXX’s requirements for sending a manuscript out for peer review. Those requirements are discussed in the Guide for Authors found on the journal website.
The general topic of EROI is, of course, very important but we do not consider your paper makes a significant contribution, nor do we believe your proposed three reviewers (whom we know) would disagree with this judgement.
We hope that this decision will ultimately hasten the consideration of your work by another journal. We are grateful to you for your interest. Although we will not be considering your current manuscript any further, we hope you will continue to consider Energy Policy for new manuscripts you may write.
Yours sincerely
Pinco Pallino
Editor of XXX

Una risposta che sappiamo essere “prestampata”: a questi arrivano certamente moltissimi articoli e i revisori vengono cooptati quasi sicuramente a titolo gratuito (perché è prestigioso e si chiama pagamento in ego anziché in euro; inoltre la rivista non ci guadagna abbastanza se questi signori dovessero venire pure pagati…), vengono chiamati solo in seconda battuta. Gli abstract degli articoli servono a questo: ci si mette 3 secondi a leggerli e in quei 3 secondi si decide se l’articolo procede il suo cammino o si butta nel cestino. L’editor credo abbia fatto così e, poiché tra le altre cose, siamo dei perfetti nessuno, ecco che scatta in tempo zero il rifiuto. Forse l’errore è stato mio, anche, ora che ci penso. A settembre, quando si rientra, forse ci sono molte proposte che si sono accumulate (la ricerca non conosce ferie…) e forse gli editor sono presi un po’ dal panico per la troppa carne al fuoco che hanno e quindi con maggiore facilità tendono a scartare ciò che hanno di fronte. E’ un’ipotesi. Ma la cosa divertente sta nella risposta, e in particolare dove si dice: «but we do not consider your paper makes a significant contribution, nor do we believe your proposed three reviewers (whom we know) would disagree with this judgement». Nella parte che ho evidenziato è come se io avessi indicato nella mia proposta anche dei possibili revisori (cosa che su certe riviste si fa – e forse anche in questa fino a qualche tempo fa), cosa che però NON ho fatto. Quindi: non solo la risposta è “prestampata”, ma lo è in maniera maldestra e neppure “personalizzata”. Segno di grandissima superficialità e di un certo modo di fare cialtronesco, tipico di quando i rapporti di potere sono sbilanciati: loro non hanno bisogno di noi per la loro attività – mille altri ne hanno da (far) pubblicare – mentre noi (io in particolare, come “anello debole” del gruppo) sì. Quindi la storia si conclude stamattina con la mia risposta (perché la cialtroneria merita una risposta, comunque) all’editor:

Dear Mr. Pinco Pallino,
I’ve found funny enough your preprinted answer: I did not propose any known or unknown reviewer.
My advice is to better check your preformatted answers and customize them better.
Kind regards.
Luciano Celi

Sia chiaro: non che fare le nostre rimostranze serva a qualcosa. Serve a far star meglio noi perché abbiamo dato dei cialtroni alla rivista – o meglio: al suo editor – ma non cambia né il mondo né la sostanza delle cose (purtroppo).

*Metto tra virgolette la parola “scandalo” perché è uno scandalo che non scandalizza più nessuno (se mai qualcuno abbia mai scandalizzato).

Italian academy

Già scomparso dall’orizzonte degli eventi mediaticamente appetibili, vorrei tornare per un attimo alla questione dello scandalo che ha coinvolto l’establishment accademico di atenei più o meno prestigiosi dell’italico suolo.
E ci vorrei tornare da “bastian contrario” per fare un discorso che vada, se possibile, un poco più in profondità del chiacchiericcio e dei soliti luoghi comuni in coda a queste notizie. Chi mi conosce sa che sono un outsider dell’accademia: ho fatto l’università lavorando, ho frequentato due master, lavoro da qualche anno in un ente di ricerca – anzi: il più grande ente di ricerca d’Italia che è il Consiglio Nazionale delle Ricerche – e adesso faccio un dottorato a Trento. Ma ho anche avuto un discreto numero di esperienze lavorative nel settore privato e, ancora, in precedenza, nel pubblico (scuola e ferrovie dello stato). Tutto questo cappello per dire che parlo “per esperienza” (che mia è e mia rimane: ognuno ha la sua e chi leggerà queste righe potrà tranquillamente dissentire da quello che scrivo e non riconoscersi in quello che dico).
Cercherò quindi di tracciare un parallelo – ancorché minimo, dati gli spazi a disposizione – tra questi due mondi: l’accademico, apparentemente costituito da “truffatori”, da “maneggioni” che vogliono sistemare amici e parenti e il privato, dove apparentemente sembra non accadere nulla di tutto questo. Le regole del pubblico impiego – luogo in cui notoriamente le risorse sono più limitate che altrove – impongono la famosa “trasparenza” e la necessità, in nome di questa trasparenza di indire un pubblico concorso nel caso in cui si voglia assegnare un posto (posto che può andare dalla più mal pagata delle borse di studio, al concorso da professore associato: la sostanza non cambia). Fin qui tutto bene? Più o meno. Se da un lato questo meccanismo dovrebbe costituire la garanzia di accesso a tutti – i concorsi, in quanto pubblici, sono aperti a tutta la cittadinanza, purché all’interno delle “specifiche” previste dal concorso: un certo tipo di laurea o di formazione, il non aver superato una certa età, ecc. – dall’altro spesso (più spesso di quanto si sia disposti a credere) quel posto messo a bando ha una “storia”: c’è (c’era?) già qualcuno/a che faceva quel lavoro e il concorso è l’unica arma per poter dare continuità a questo lavoro. Da qui l’idea del concorso che pur pubblico, viene ritagliato su un candidato (o candidata) in pectore, ovvero di solito su una persona che (1) magari ha lavorato bene; (2) sa fare il suo mestiere; (3) ha dimostrato di essere affidabile e via su questa china. Si badi bene: questo non significa necessariamente che quella persona è la migliore sul territorio nazionale per fare quel lavoro, semplicemente la “sua storia” fa sì che, per economia (anche di tempo: una nuova persona, magari bravissima, andrebbe istruita e non è scontato che sappia, per esempio, lavorare con quel team di persone, ecc.), lei sia lì e si voglia proprio lei. Esiste qualche altra forma che non sia il concorso pubblico per dare continuità lavorativa a questa meritevole persona? No. Questo sistema può nascondere dei “maneggi”? Sì, ovviamente, più che in altri settori (leggi: privato), ma solo quello strumento c’è. Quindi l’effetto è paradossale (come spesso lo è nel nostro bananifero paese): una regola, quella concorsuale pubblica, volta a offrire la massima trasparenza, declinata nella realtà italiana (fatta di scarsità di risorse e di mezzi, di un turnover nullo, e per la quale è necessario pensare mille volte a chi “mettersi in casa” perché quella persona, una volta che ha vinto il concorso, poi te la tieni anche se non va ti va bene e nel frattempo i soldi per un altro posto non ci sono più…) diventa la più opaca e meno trasparente. Si può fare diversamente? Certo che sì: basterebbe essere sufficientemente coraggiosi da “cambiare il sistema”. Tutto questo però dovrebbe avere presupposti diversi, di cui parleremo tra poco.
E qui passo al privato. Sono stato responsabile dell’ufficio stampa macroregionale della più grande multinazionale farmaceutica del mondo per due anni. Lì i soldi ci sono, le cose si fanno, il turnover c’è, le persone vanno e vengono, spesso vengono sacrificate come carne da cannone in nome del profitto col sorriso sulle labbra, pacche sulle spalle e “ti stimo molto” (“siamo la montblanc con cui ti faccio fuori”, cantava qualche anno fa Ligabue). Un mondo un po’ spietato, per la verità, ma l’essere al completo opposto di quel che accade nella pubblica amministrazione (d’ora in poi: PA) aiuta a capire un po’ di cose. La prima e più banale che in quel tipo di mondo (nel privato, in quel privato) se non ti dai una sveglia non sopravvivi sei mesi e molta gente lavora (e solo in questo modo è capace di lavorare) a differenza di quel che accade nei paradisi a tempo indeterminato della PA. Scomodo ma vero (per la mia esperienza). E questo, ancora una volta, non significa che nella PA no si lavori, anzi: c’è gente che si fa un mazzo incredibile – ma è un mazzo discrezionale, il singolo può decidere se farselo o meno: lo stipendio (sempre quello, immutato da anni, come nel migliore degli incubi del Soviet) comunque a fine mese arriverà. Insomma: differenti ambienti, differente dinamismo (anche stipendiale, appunto) – non faccio classifiche e mi astengo volutamente da giudizi: c’è del buono e del brutto in entrambe i sistemi. Ma tutto questo soprattutto, rispetto al pubblico, ha due vantaggi considerevoli: i dirigenti – che possono essere fatti fuori senza colpo ferire – realmente dirigono, prendono decisioni, gestiscono le persone (e le fanno comunque crescere professionalmente) e i lauti soldi di stipendio che prendono se li guadagnano più, credo (l’esperienza è sempre personale, quindi limitata), di quanto non faccia l’omologo nella PA.
E qui torno ai presupposti che avevo momentaneamente lasciato sospesi nel capoverso precedente. Il problema della PA è “nel manico”: è il sistema che non funziona e indire il concorso pubblico, non solo non è sinonimo di trasparenza ma ha un effetto collaterale ben più grave perché deresponsabilizza formalmente la dirigenza e gli aplicali di una struttura; se il tizio che ha appena vinto il concorso si dimostra un lavativo comunque non è formalmente colpa di nessuno: ha vinto un concorso pubblico! I dirigenti pubblici in ogni caso dirigono meno di quel che dovrebbero (non perché non lo sappiano fare, non perché non lo vogliano fare, ma perché il “sistema” è congegnato in modo che lo facciano meno, con meno responsabilità).
La questione, come si può vedere, è ben più complessa di quel che le scarne notizie televisive ci abbiano raccontato. Il sistema sarebbe da riformare con una sorta di chiamata diretta: voglio quella persona perché ci ho già lavorato e mi sembra in gamba. Dire questo significherebbe anche tacitamente farsi carico della responsabilità dell’assunzione: se quella persona si dimostra un lavativo o non all’altezza di quel lavoro è colpa tua che l’hai assunto e in qualche modo ne pagherai le conseguenze. Questo dovrebbe conferire maggiori poteri (e quindi maggiori responsabilità) ai funzionari dei livelli intermedi e alti e via discorrendo.
Identicamente nel privato se si volessero fare “maneggi” non ci sarebbero problemi, ma se l’azienda è di quelle che non guarda in faccia nessuno, beh quel dirigente deve proprio essere sicuro. D’altra parte un caro amico, interrogato sulle raccomandazioni, provocatoriamente rispondeva: “non ho niente contro le raccomandazioni, purché la persona raccomandata sia la migliore tra quelle che avrei potuto trovare”.

Allegri, verso la catastrofe

Ieri ho voluto far compagnia a un amico che deve cambiare auto. Mi sono preso un paio d’ore nel pomeriggio e mi sono dedicato all’esotica attività di andar per concessionari e tastare quindi con mano, la follia insita nel nostro modo di procedere.
Di auto siamo saturi – penso che molti di noi ne convengano. Forse è da quando ho coscienza di me che lo sento dire, ma nel frattempo i mezzi in circolazione sono n-uplicati (non so quali siano i numeri esattamente, ma dal web ho ricavato dei dati con i quali ho realizzato il grafico qui sotto).

Probabilmente forti dei risultati, del martellamento pubblicitario incessante (almeno nel nostro paese), anziché essere un settore in crisi, come dovrebbe esserlo ogni settore merceologico arrivato alla saturazione, aprendo le porte dei saloni, quel che ci appare è una inattesa floridità: numeri bassi alla Peugeot, medi alla Volkswagen e decisamente al limite dell’affollamento alla Fiat (la fortuna è che a Pisa sono tutti vicini l’uno all’altro, a Ospedaletto).
Da questo ne consegue che anziché stenderti un tappeto rosso ed esserti grato per aver manifestato anche solo il proposito di cambiare auto investendo in questa operazione qualche migliaio di euro che notoriamente non cresce sotto il cuscino di notte, l’atteggiamento, in molti casi è di sufficienza. Quando non è di sufficienza risulta peggiore perché la netta sensazione, senza mezzi termini (e mi scuserete per la brutalità degli stessi) è quella di essere presi per il culo.
Prendiamo per esempio la “auto aziendali” o “a km zero”. Stratagemma adottato in tempo di carestia per continuare a tenere alti i numeri delle vendite, benchmark atto da sempre a valutare la bontà del venditore (bontà direttamente proporzionale al numero delle vendite realizzate in un determinato intervallo di tempo). L’autosalone si intestava l’auto, scaricava l’IVA (avendo la partita IVA) e la rivendeva all’acquirente “di seconda mano” (in realtà solo immatricolata) facendogli risparmiare almeno quella (non poco su un oggetto che costa svariate migliaia di euro e in paese come il nostro con l’IVA al 22%). Strategia “win-win”: il concessionario vende un’auto in più, l’acquirente è contento perché prende una macchina nuova, ancorché, in molti casi, senza la possibilità di sceglierne gli accessori, il colore, ecc. (sebbene in alcuni casi si poteva addirittura combinare la cosa: il cliente sceglieva e poi l’auto veniva richiesta per l’immatricolazione, esattamente con le specifiche descritte dal cliente).
Invece ieri ci siamo sentiti dire, col sorriso sulle labbra, in un salone diviso in due – da una parte il nuovo e dall’altra l’usato – che il “km zero” a conti fatti costava di più (ma la famosa IVA che voi avete bellamente scaricato intestandovi l’auto perché me la volete fare pagare di nuovo?) a causa del fatto che l’auto che l’amico avrebbe dovuto dare indietro (una piccola utilitaria con 10 anni di vita) per l’usato valeva 1.000 euro, mentre, se avesse acquistato il nuovo, la valutazione andava oltre 3.000 (ma com’è che lo stesso oggetto a pochi passi di distanza da una parte è valutato così tanto e dall’altra così poco?). L’aspetto che agli occhi del comune mortale appare folle è che il nuovo costa meno dell’usato. Da un punto di vista strettamente economico ha molto senso: vendere vendere vendere e quindi produrre produrre produrre per vendere di nuovo, soprattutto il nuovo.
Questo “giochino” ce lo siamo sentiti raccontare anche alla Fiat. Ha un altro nome e lì lo chiamano “premio targa” (“Ah, ne ho proprio una del colore che vuole lei e la posso fare arrivare, però si deve sbrigare…” – perché metter fretta all’acquirente lasciandogli l’illusione di aver appena colto l’occasione (ovviamente unica…) è un’altra strategia abbastanza idiota, ma che evidentemente in molti casi continua a funzionare e a pagare molto bene). Il “premio targa” è: mi intesto l’auto e te la rivendo?
Insomma, una vera tristezza. Soprattutto perché ci sono video come questo che raccontano una storia molto diversa. E ancora, non più tardi di oggi, mi è arrivato l’annuncio della presentazione di un nuovo libro di un collega Cnr appena uscito: Effetto serra, effetto guerra, Due fenomeni che pare siano sempre più connessi l’uno all’altro.

Beati gli ultimi

Nel breve soggiorno siciliano in coda a questa torrida estate, sono stato a Taormina. In particolare, a parte il rituale struscio sulla via principale, ci è capitato di andare a vedere una piccola (ma costosa) mostra su Vincent Van Gogh. Un evergreen che tira sempre e, per quanto fosse assai modesto l’allestimento e la mostra fosse di fatto più virtuale che reale, siamo andati per esaudire uno specifico desiderio di compleanno.
Una delle cose che non sapevo o non ricordavo della travagliata vicenda umana di uno dei pittori più celebri della modernità, è il fatto di aver dipinto – a un certo punto “serialmente” – prima il portalettere Joseph Roulin e poi tutta la famiglia di quest’ultimo che volentieri si prestava come “modello” per questo pittore un po’ schivo e strambo, che vendette un solo quadro in vita e nulla lasciava presagire della fama mondiale che avrebbe ottenuto solo dopo la sua morte.
Il sodalizio fu principalmente umano e i Roulin furono tra i pochi esseri umani che, nella loro plausibile semplicità e modestia, accolsero tra loro il pittore olandese.
Così questi ignoti signori, benefattori dello sciagurato e tormentato Van Gogh, costituiscono l’esempio – forse tra i più chiari – di quel precetto che vede gli ultimi come i reali destinatari del Regno dei Cieli (ammesso e non concesso che questo Regno da qualche parte esista): a loro non solo l’essere entrati nell’empireo dei ritratti al pari di re e regine, ma di averlo fatto entrando dalla porta principale nella Storia dell’Arte a braccetto di uno dei più apprezzati artisti di tutti i tempi.
Joseph_Roulin

La principessa e i diritti sociali

Sono andato ieri sera alla “mia” Arena a vedere La principessa e l’aquila, (in originale The Eagle Huntress) un docu-film che racconta la storia di Aisholpan Nurgaiv, una ragazzina di 13 anni che vuole fare il mestiere che tutti i suoi avi (maschi) hanno fatto fino a quel momento: l’addestratrice di aquile. Il piccolo – ma non insormontabile – problema è appunto il fatto di essere una donna. Lei non si dà per vinta e, complice il padre che vede in lei il talento, Aisholpan lo diventa, sbaragliando e scalzando tutti i pregiudizi degli anziani secondo i quali (pensate un po’?) la ragazzina dovrebbe stare a casa a preparare il the e a badare alle faccende domestiche.
Sono stato in Mongolia nell’estate del 2005, proprio di questi tempi, in agosto (precisamente il viaggio ha coperto – con ogni mezzo: dal cammello alla transiberiana – Mongolia, Cina e Russia, dal 7 al 24 agosto) e mi sono innamorato, più di quanto fossi disposto a credere all’epoca, di quella gente: i fieri, fierissimi discendenti di Gengis Khan che mi sono sembrati tutti bellissimi ed eleganti, nella cornice di un mondo sconfinato (la Mongolia è un paese con una estensione che è 5 volte quella italiana, con una popolazione complessiva che si aggira sui 3 milioni, ovvero come ua metropoli italiana neppure tra le più grandi), nella loro eleganza e nel loro (quasi*) perfetto equilibrio con la natura.
Una società arcaica che si è fatta permeare dalle tecnologie – almeno per quel che mi fu dato vedere ormai 12 anni fa e da quel che anche traspare dal film – solo per l’essenziale e per la praticità della vita nomade: un pannello fotovoltaico per un dare un po’ di elettricità alla gher (o yurta, come preferite), qualche sporadica motocicletta spesso sovraccarica di persone, di marca incognita, con meccanica basilare e riparabile in ogni momento, degna sostituta dell’unico classico e più ambito mezzo di trasporto: il cavallo, sul quale i mongoli sono capaci di cose incredibili.
I cavalli sono poco più che dei pony e anche le persone non sono molto alte: alimentazione, genetica e ambiente (con temperature che d’inverno possono raggiungere i -40° che non riesco neppure a immaginare) hanno plasmato nei secoli la simbiosi tra uomini e bestie, rendendoli unici per caratteristiche: i cavalli hanno una resistenza incredibile e sopportano tutto (a partire dal freddo) con una docilità commovente, in mezzo a una natura che per i mongoli è “madre” e, per noi mollaccioni occidentali abituati a tutti gli agi, sarebbe non meno che “matrigna”.
E così la storia, semplice come è semplice la vita dei mongoli nomadi, si dipana, in mezzo a questo teatro di natura spettacolare, con la simbiosi con questi altri animali che mai crederemmo addomesticabili: le aquile appunto. Il film è suggestivo sicuramente per le riprese (alcune delle quali con telecamerine simil go-pro, quindi col “punto di vista” dell’aquila…) ma ancora di più per questa vicenda umana così diversa dal metafisico occidente, in cui milioni, miliardi di persone alla fine fanno le stesse identiche cose: mangiano, dormono, fanno la spesa, vanno a lavorare, pagano le bollette, si dedicano a qualche attività nel tempo libero.
Un autentico piccolo miracolo da preservare il più possibile – per me commovente fino alle lacrime, anche se non faccio testo, proprio perché ricordo distintamente il cielo notturno che si vede dal deserto del Gobi, con la volta che davvero ha la forma di una volta di cui si percepisce la curvatura, e una quantità di stelle da lasciare senza fiato.
Vale la pena di riportare quel che scrisse nel suo viaggio prima di me, Giovanni Lindo Ferretti, che le parole ha mostrto di saperle usare bene, definendo la Mongolia “milza del mondo”:

Oltre le gher, in costa, un branco di cavalli scende a trotto leggero verso l’abbeverata, sparse nella valle mandrie di pecore e bovini.
Dal centro delle gher il fumo dei fuochi sale al cielo. Nitriti, belati, muggiti. Planate di aquile nell’aria.
La Mongolia è un Paese arcaico e giovane, giovanissimo. Barbaro nell’impatto, difficile a viversi, forte ed austero. Territorio vario, densamente spopolato.
Gira il tempo con ciclo naturale, le stagioni, sulle esigenze dell’allevamento. Sono gli animali ad offrire la potenza necessaria alla vita: le calorie dell’alimentazione che fa freddo, molto freddo, le necessità e i piaceri dello spostamento, delle relazioni personali e sociali.
Unico residuo della modernità, settanta anni di regime comunista, le linee elettriche che da Ulaan Bator portano la corrente nei capoluoghi degli Aimag. Dono prezioso e scadente e due doni impagabili: l’alfabetizzazione e la profilassi sanitaria.
Se i mongoli non scendono da cavallo, se si appropriano della sostanza del moderno e non della paccottiglia, se saranno attenti, molto attenti nelle scelte e lo possono che sono pochi in uno spazio perfetto, la Mongolia può essere nel mondo come la milza nel corpo umano.
Depuratore. Ritorno. Avanzamento.

In fede C.S.I. (Consorzio Suonatori Indipendenti)

Così è ancora, a vent’anni da quel viaggio dei CSI. E sicuramente è avanzamento, sociale, grazie alla piccola grande storia di Aisholpan.
PS: chi fosse interessato a qualche foto della Mongolia vista 12 anni fa, può fare un salto qui.
* Quasi perché nell’unica città che possiamo definire tale – la capitale Ulan Bator – si cerca maldestramente di vivere alla occidentale, con tutto quel che ne consegue.

Aisholpan Nurgaiv al Toronto International Film Festival 2016 (da Wikipedia)

Silence e i "cattivi giapponesi"

Sono finalmente riuscito a recuperare ieri sera un film che avrei voluto vedere quest’inverno e che, più o meno fugacemente passato dalle sale di Pisa e Trento (città nelle quali avrei potuto realisticamente vedere la pellicola), ho pensato di riuscire a vedere in una delle due arene estive pisane. Ma neppure da qui è passato – forse per la sua durata e “l’impegno” (in termini di tempo perché comunque la storia si segue benissimo) che costringe lo spettatore a una maratona di quasi 3 ore – così… ho risolto in altro modo. Il film è Silence, di Martin Scorsese, (che ha preso l’Oscar) e tratta del tentativo di colonizzazione del Giappone da parte dei gesuiti nel XVII secolo (qui la lunga sinossi).
Sebbene non abbia letto il romanzo da cui è tratto, il film è molto bello: Scorsese è capace di mettere in evidenza lungo tutta la durata del film la tensione emotiva e le profonde convinzioni di questi “pastori” nel tentare di portare in luoghi così remoti il “verbo” cristiano. La situazione è drammatica e tale si annuncia sin dalle prime battute: i cristiani, quei pochi che tali si definiscono, vengono sistematicamente perseguitati e uccisi. Il martirio dei poveri contadini convertiti, dispera, fiacca e pone dubbi insormontabili alla coscienza dei due giovani apostoli (uno dei due morirà e il film si concentrerà sulle vicende umane del superstite).
La Storia ripropone una vecchia storia, che è quella degli uomini disposti a sacrificare la vita – certamente la propria e forse anche l’altrui – per la fedeltà a un’idea, a un credo e il messaggio si trasforma quindi, almeno ai miei occhi di spettatore, da contingente a universale. Alla fine il protagonista incontra Cristovão Fereira, il padre confessore e guida spirituale sulle cui tracce si erano messi partendo dall’Europa. I dialoghi sono molto belli: Fereira convince poco a poco Sebastião Rodrigues della bontà dei suoi ragionamenti, lo convince all’abiura perché quello è l’unico modo per far cessare le torture e le uccisioni della popolazione povera e inerme.
Quel che il film omette di dire sono i motivi per cui i giapponesi si comportano così: i quali, nel film, sembrano essere tutti legati al piano religioso. Se si legge un po’ della storia del Giappone, di quel periodo siamo in quella delicatissima fase – nota come periodo Edo o periodo Tokugawa, la cui datazione ufficiale va dal 1603 al 1868 – che vide l’impero isolarsi pressoché completamente al mondo esterno a seguito di una crisi ambientale e demografica provocata – neppure troppo paradossalmente (se si pensa al mondo odierno) – da un periodo di pace e prosperità. Leggendo Collasso di Jared Diamond (i brani sono tratti dalle pagine 310-312), si scopre che:

Per quasi 150 anni, a cominciare dal 1467, il Giappone fu sconvolto da guerre civili, seguite al crollo della coalizione delle forti casate feudali che erano andate al potere dopo la disintegrazione dell’autorità imperiale. […] Le guerre si conclusero grazie alle vittorie militari di un guerriero di nome Toyotomi Hideyoshi e del suo successore Tokugawa Ieyasu. […] Già nel 1603 l’imperatore aveva investito Ieyasu del titolo ereditario di shogun (supremo capo militare). Da allora fu lo shogun a esercitare davvero il potere del suo palazzo nella nuova capitale Edo (la moderna Tokyo), mentre l’imperatore, che aveva dimora nella vecchia capitale Kyoto, rimase una figura formale senza alcuna autorità. [… In quel periodo] una dinastia di shogun mantenne il paese libero da guerre e da influenze straniere. La pace e la prosperità fecero esplodere il Giappone. Nel giro di un secolo la popolazione raddoppiò per una fortunata combinazione di cause: condizioni di pace, assenza delle epidemie che stavano colpendo l’Europa (il Giappone, infatti, vietava l’entrata a tutti i visitatori e viaggiatori stranieri), aumento delle rese agricole […]. Le città diventavano sempre più grandi, al punto che nel 1720 Edo era la più popolosa del mondo. In tutto il Gappone, la pace e un forte governo centralizzato determinarono la nascita di una moneta unica e di un sistema uniforme di pesi e misure, la fine dei dazi e dei pedaggi, la costruzione di strade e il miglioramento della navigazione tra le isole. Tutti questi fattori causarono un aumento esponenziale dei commerci interni.
I rapporti del Giappone con il resto del mondo, però, si ridussero quasi a zero. I grandi navigatori portoghesi, mossi dalla brama di commerci e di conquiste, circumnavigarono l’Africa e raggiunsero l’India nel 1498, le Molucche nel 1512, la Cina nel 1514 e infine il Giappone nel 1543. Questi primi visitatori, pur ridotti di numero, causarono un vero sconvolgimento nel paese, perché vi introdussero le prime armi da fuoco. I cambiamenti furono ancora più drastici sei anni dopo, quando arrivarono i missionari cattolici. Centinaia di migliaia di giapponesi, inclusi alcuni daimyo, si convertirono al cristianesimo. Purtroppo, i missionari gesuiti e francescani manifestarono un comportamento non irreprensibile, fatto di gelosie e competizione, e si sparse la voce che  frati stavano cercando di cristianizzare il Giappone per permettere all’Europa di impadronirsi del paese.
Nel 1597 Toyotomi Hideyoshi fece crocifiggere 26 cristiani. Quando i daimyo cristiani cercarono di corrompere o assassinare i funzionari del governo, Tokugawa Ieyasu decise che gli europei e la cristianità costituivano una minaccia alla stabilità dello shogunato e del Giappone […]. Nel 1614 Ieyasu bandì il cristianesimo e cominciò a torturare e a condannare a morte i missionari e tutti coloro che si rifiutavano di rinnegare il nuovo credo. Nel 1635 lo shogun arrivò a proibire ogni viaggio al di fuori del paese. Quattro anni dopo, espulse dal Giappone i pochi commercianti portoghesi rimasti.

Strategia che, col senno di poi, si rivelò vincente. Alla Cina, accenna Diamond in quelle stesse pagine, andò diversamente e, circa un secolo dopo, come invece racconta Ha-Joon Chang in Economia. Instruzioni per l’uso (pp. 383-384), essa dovette soccombere all’espansionismo commerciale europeo, incarnato soprattutto dall’Inghilterra. Battaglia che dal piano commerciale si spostò a quello militare e si concluse con una vera e propria débâcle per i cinesi:

Nel 1792, il re inglese Giorgio III inviò il conte Macartney in Cina in sua rappresentanza, affinché convincesse l’imperatore cinese Qianlong a permettere agli inglesi di commerciare liberamente in tutta la Cina, e non solo a Canton (Guangzhou), all’epoca l’unico porto aperto agli stranieri. A quel tempo la Gran Bretagna aveva un notevole deficit commerciale con la Cina (niente di nuovo sotto il sole!), soprattutto a causa della sua recente passione per il tè. Gli inglesi pensavano che, se il commercio fosse stato più libero, sarebbero riusciti a ridurre il disavanzo.
La missione fu un completo fallimento. Qianlong rimandò indietro Macartney con una lettera per Giorgio III in cui affermava che il Celeste Impero non aveva alcun bisogno di incrementare gli scambi commerciali con la Gran Bretagna. Ricordò al re che la Cina aveva permesso agli stati europei di commerciare a Canton solo «quale segno di favore», dato che «il tè, la seta e la porcellana del Celeste Impero sono assolutamente necessari alle nazioni europee». Qianlong dichiarò che «il nostro Celeste Impero possiede tutte le cose in copiosa abbondanza e non manca di nessun prodotto entro i suoi confini. Non vi era dunque alcun bisogno di importare i manufatti di barbari dall’esterno in cambio della nostra produzione»*.
Poiché era proibito anche solo cercare di convincere i clienti cinesi a comprare maggiori quantità di manufatti inglesi, alla Gran Bretagna non restò che aumentare le proprie esportazioni di oppio dall’India. La conseguente diffusione della dipendenza da oppiacei allarmò il governo cinese che ne bandì il commercio nel 1799. La manovra non funzionò, perciò nel 1838 l’imperatore Daoguang, nipote di Qianlong, nominò un nuovo «zar antidroga», Lin Zexu, allo scopo di reprimere il contrabbando di oppio. Per tutta risposta, nel 1840 gli inglesi scatenarono la Guerra dell’oppio, dalla quale la Cina uscì a pezzi. Con il Trattato di Nanchino del 1842, la Gran Bretagna, vittoriosa, costrinse la Cina a concedere il libero scambio, compreso quello dell’oppio. Seguirono cent’anni di invasioni, guerre civili e umiliazioni nazionali.
* Il testo completo della lettera dell’imperatore Qianlong a Giorgio III si trova qui in inglese: http://www.history.ucsb.edu/faculty/marcuse/classes/2c/texts/1792QianlongLetterGeorgeIII.htm

Insomma – tornando alla questione giapponese – le premesse e i motivi per cui il cristianesimo fu bandito, se ci fidiamo di uno studioso come Diamond, sembrano di tutt’altra natura e la questione religiosa è in qualche modo strumentale a un gioco più grande. Dispiace quindi che Scorsese – che pure conferma di essere un ottimo regista – veda il dettaglio alimentando tacitamente alcuni luoghi comuni (i “poveri cristiani”, lo straniero è in qualche modo “cattivo”…) e al contempo facendo perdere di vista il quadro d’insieme.

Sant'Anna di Stazzema e le svastiche americane

Lontano nello spazio e nel tempo. E, come si diceva una volta, “lontano dagli occhi, lontano dal cuore”. Due giorni fa ricorreva l’eccidio – 12 agosto 1944 – di Sant’Anna di Stazzema, per me un posto dietro casa. Era da molti anni che non ci andavo e credo che almeno una volta faccia bene a tutti un po’ di pellegrinaggio in qualche luogo della memoria, in qualche luogo dove sono accadute cose gravi da non riuscirsi a dire. Serve. Serve a resettare, a ricalibrare alcuni dei parametri delle nostre esistenze. Serve come antidoto alle notizie che arrivano dall’altra parte del mondo, dagli Stati Uniti di “The Donald” che con blando ammonimento condanna l’episodio di Charlottesville, gettando benzina sul fuoco di un paese che – scopro dalle fredde statistiche di un libro di economia – è tra i più iniqui tra quelli sviluppati e del primo mondo (e, chissà come mai, la cosa non mi sorprende affatto).
Le svastiche dei suprematisti bianchi sono un simbolo, forse. Forse fumo negli occhi, ma un fumo che irrita e fa male quando, si arriva al paese di Sant’Anna, bellissimo, incastonato a 600 m sul livello del mare, con una vista spettacolare sulla Versilia. Un posto dove non diresti mai che sarebbe potuto succedere l’abominio che accadde. Un paese che è diventato integralmente un museo, un luogo della memoria. E se ancora si vanno ad ascoltare e a leggere le testimonianze dei sopravvissuti, all’epoca bambini o adolescenti, di un intero paese che contava 560 anime, viene ancora e sempre da piangere. Sono due cose molto lontane tra loro. Questi imbecilli d’oltreoceano non credo abbiano idea di ciò che fu. E se un’idea ce l’hanno, è sbagliata.

Una manifestazione dell’American National Socialist Movement (dal sito “Lettera 43”)

Taleb, il cigno e il centurione romano

Col procedere della vita meno cose tendono a sorprendermi rispetto al passato. Credo sia fisiologico e pure questa forse è una curva logistica a ritorni decrescenti. Fatto sta che mi stupisce poco o punto il fatto che uno studioso come Nicholas Nassim Taleb, celebre per il bestseller Il cigno nero, si sia permesso di entrare nell’agone di una delle dispute imbecilli di mezza estate (ogni mezza estate ne ha una che scala le classifiche rispetto alle altre, un po’ meno imbecilli).
La notizia è questa: Fatevene una ragione: gli antichi romani erano molto africani (persino in Britannia) e vi lascio l’onere della lettura. Lessi tempo addietro il bestseller osannato da molti e francamente, a parte qualche provocazione, la tesi sostenuta per l’intero volume m’è parsa debole scientificamente e a tratti pretestuosa. L’ho criticata, in un articolo che probabilmente avranno letto solo i revisori cui l’ho sottoposto, nel punto in cui parla del noto aneddoto di Bertrand Russell del tacchino che “non ringrazia per il giorno del ringraziamento” perché una delle debolezze scientifiche evidenti nel suo testo è quella di non distinguere situazioni naturali, in cui hanno senso certe inferenze di carattere statistico e l’induzione, e situazioni che di naturale non hanno nulla visto che a determinare la situazione (e la morte del tacchino) ci sono gli esseri umani che si comportano in un certo modo, tipicamente del tutto arbitrario. Metto il link all’articolo che aveva per titolo Zoo e dinamiche della catastrofe: dalle balene ai cigni, nel caso qualcuno fosse curioso (la mia critica a Taleb si trova al § 2).
Insomma Taleb non ne esce bene, né col suo tweet, né col suo libro (nel suo personale zoo poteva introdurre uno struzzo…).

Amazon e il pizzo del servizio "Prime"

Ora: è noto dalle cronache dei (tele)giornali, dal web, dai mensili: i colossi quasi mai si comportano bene e sempre più spesso mostrano il loro vero (duplice) volto di Giano: da una parte moltissimi servizi apparentemente gratis, dall’altra dati (i nostri) comprati e venduti, le nostre vite in loro “possesso” e, nel caso questi colossi siano anche produttori di oggetti fisici – come Apple (computer e telefoni) e Amazon (libri e non solo) – non mancano le antiche storie di sfruttamento, spesso documentate da giornali come Internazionale.
Tutte cose che sappiamo e sulle quali molti di noi – e il sottoscritto, ahimè, non fa eccezione – passano sopra: ho un computer Apple (anzi 2, se conto quello di lavoro) e ho acquistato a più riprese su Amazon. Uso il passato perché già avevo dirottato quasi tutti i miei acquisti sul “nostrano” IBS, ma dopo l’episodio spiacevole accaduto a me e mia moglie, abbiamo deciso di metterci un bel crocione sopra. Avete presente il tanto sponsorizzato (anche in tv) servizio “Prime”? Serve, con la modica (uso eufemismi) gabella di un tot al mese di 19,99 € (la presa in giro anche sull’importo…) ad avere in tempi veloci come la luce le cose che avete ordinato a casa vostra (o all’indirizzo che preferite). Servizio spesso inutile: come “studioso” non ho mai avuto tanta urgenza su cose nuove e appena uscite. Se l’urgenza c’è per compulsare un testo, è spesso quella di cercare (e trovare) cose irreperibili anche in biblioteche parecchio fornite, come quella della Scuola Normale…
Partito in sordina e come servizio opzionale è diventato sostanzialmente un obbligo che né io né mia moglie a suo tempo sottoscrivemmo (anche perché non siamo “compratori frequenti”, per tradurre un orribile anglicismo) ma per il quale ci siamo ritrovati puntuale addebito sulle rispettive carte di credito. Così intanto, come prima mossa, abbiamo cancellato i dati delle nostre carte sui rispettivi profili e come seconda, abbiamo provveduto a contestare l’addebito ai nostri rispettivi istituti di credito.
In particolare pare che questo “giochino” sia particolarmente diffuso, al punto che, per esempio, il call center di Unicredit stia, da qualche tempo, rispondendo solo su questo problema di addebiti non autorizzati. E dire che più grossi sono più dovrebbero farsi garanti e tutelare le utenze, invece, non più tardi di qualche mese fa, ancora si parlava di quanto questi colossi hanno evaso ed eluso il fisco delle nazioni in cui sono presenti, come racconta questo articolo de “Il Sole 24 Ore”.