San Andreas: gli States e il senso del ridicolo

Cercavo un articolo che lessi su un vecchio numero di “Internazionale”, relativo alla cronica siccità che affligge la California da qualche anno. Mi serviva per fare un discorso sugli eco-migranti e sul fatto che i problemi climatici non solo colpiscono il Terzo Mondo (e quindi a chi già migra per scappare dalle guerre si aggiunge chi migra per scappare da zone in cui la vita non è più possibile perché, per esempio, la terra si è inaridita…) ma anche il Primo. Anzi il cuore del Primo Mondo: gli States.
Confidavo nel fatto che il sito mi desse qualche riferimento e invece a un certo punto mi imbatto su una specie di (video)recensione (questa) che parla del film San Andreas. Genere del film: catastrofico. Per curiosità, pur temendo il peggio, ho deciso di spendere il mio tempo per guardarlo. E ho fatto male. O bene, dipende sempre dal punto di vista. Insomma si è trattato, al netto di effetti speciali sempre più sofisticati, di un polpettone in salsa hollywoodiana veramente difficile da masticare e digerire. Le solite cose… le devo ripetere? Il protagonista, una montagna di muscoli tesi a compensare un solo motoneurone che deve sovraintendere a tutto, che sprizza testosterone da tutti i pori e che con tutti quei muscoli riesce a “sconfiggere” il terremoto mettendo in salvo la (ex) moglie (con la quale ovviamente si ricongiunge) e l figlia. Sullo sfondo la ricerca del sacro Graal scientifico dei geologi: la possibilità di prevedere i terremoti. Terremoti – nel film ci sono sempre e solo quelli e gli effetti speciali compensano la recitazione di serie Z dei protagonisti – la cui magnitudo, in sequenza, è la più devastante della storia e viene prevista, seppure al fotofinish, da un professore del (celebre) CalTech (California Institute of Technology).
Insomma una follia i cui spezzoni possono essere degni dei migliori blob di Ghezzi, come la scena finale in cui, tutti sani e salvi, dopo l’arrivo dell’esercito della salvezza, la guardia nazionale e chi più ne ha più ne metta, la moglie guardando il paesaggio devastato dalla collinetta in cui si trovano, pronuncia la memorabile frase: “E adesso cosa faremo?” e il testosteronico marito repica altrettanto memorabilmente: “Ricostruiremo tutto…”, mentre la camera lascia loro due allarga sul paesaggio e inquadra una malconcia bandiera nazionale che si srotola per rifulgere.
Non so chi siano i destinatari, nel paese d’origine, di queste autentiche porcherie, ma veramente c’è da scompisciarsi dal ridere per la totale assenza del senso del ridicolo!

Un fotogramma del film

Un fotogramma del film

blacklist: un piccolo aneddoto editoriale

logo-lcMolte delle persone che mi conoscono sanno che “per divertimento” ho una piccola attività editoriale. Poche copie, pochi titoli, qualche soddisfazione – in certi casi anche molta, come nel fortunato “best seller” (di nicchia) che è stato e ancora è Il paese degli elefanti.
Ma non scrivo per incensare né me stesso né la mia attività: faccio quello che posso come tutti e con i limiti ben chiari e sempre presenti di non voler lucrare con questa attività a cui dedico sostanzialmente dei ritagli di tempo. Ma accadono cose curiose in questo mondo editoriale. Gli editori (soprattutto i piccoli) fanno la fame e dovrebbero essere tutti insigniti all’istante quanto meno del cavalierato del lavoro (visto che – bene o male – comunque fanno girare un’economia, spesso rimanendo con qualche spicciolo in tasca…), dal momento che, fatto 100 il prezzo di un libro, il 65% se ne va serenamente in distribuzione e sconto alle librerie (pressoché unico settore al mondo, quello delle librerie, che può farti dei resi a distanza di anni…). Rimane quindi un 35% con cui si dovrebbe pagare un minimo diritto d’autore (6-7%: quindi scendiamo al 28%) e lo stampatore (e quindi si arriva al 2-3% di “guadagno”, quando va bene).
Ma non solo. Al netto di questi fatti, solitamente noti agli addetti ai lavori, accadono altre cose curiose, come la richiesta di volumi da parte di librerie (magari anche molto grandi) “concessionarie”. Un po’ le antesignane delle librerie online come IBS, Amazon, Libreria Universitaria, La Feltrinelli (online), ecc. Una di queste la “Li.Co.Sa” di Firenze – e mi sembra giusto fare anche nomi e cognomi e mettere alla pubblica gogna chi se lo merita – è, nei miei confronti, insolvente per un serie di libri che lungo tutto il 2015 ho regolarmente fornito, evadendo i loro ordini, ma per i quali NON mi è MAI stato corrisposto nulla.
A nulla sono servite mail o telefonate di protesta, anzi: questi un bel giorno, nella schizofrenia più completa, mi hanno pure mandato un sollecito per l’evasione dell’ultimo ordine che ovviamente mi son guardato bene dall’evadere almeno fino a quando non verranno messi a posto gli arretrati. Stiamo parlando di “spiccioli”, forse 50 o 100 euro al massimo. Ma spiccioli su cui faccio andare avanti questa attività. Allora il problema qual è? Il problema è che l’ignaro lettore (o anche la libreria) che in buona fede va alla Li.Co.Sa. (dove “Sa” finale sta per “Sansoni”, non proprio l’ultimo editore del mondo…)  questa storia non la sa e quando la Li.Co.Sa. gli dirà che quel libro non è riuscito a recuperarlo per indisponibilità da parte dell’editore, la colpa ricadrà… sull’editore.
Quindi (1): non solo non pagato, ma anche reo di non aver soddisfatto le richieste del cliente. Questo giusto perché stavo mettendo un po’ d’ordine nella contabilità e nelle mail delle richiese dello scorso anno. Nel client di posta elettronica ho creato una bella cartella dal titolo significativo: blacklist.
Quindi (2): caro lettore, se proprio vuoi avere il libro che cerchi e riesci a non essere tanto pigro da fermarti a far la richiesta a Li.Co.Sa. (o a qualunque altro distributore o libreria concessionaria insolvente) e navighi un minimo il web, magari quella casa editrice la trovi su internet e se riesci a fare una richiesta diretta forse prendi anche un po’ di sconto in più. Perché magari il libro c’è, ma non venendo pagato non viene neppure distribuito (almeno non da me di sicuro: lavorare gratis si chiama volontariato e ne decido io i modi e i tempi).
Buon 2016 a tutti!

Analisi del 2015

Ho abbandonato il blog e quasi me ne rendo conto solo adesso. Ma a tutto tutto non si può davvero star dietro. Così grande fratello wordpress mi manda il resoconto di fine anno. Una fine d’anno anticipata che in questo caso coincide con l’ultimo post, datato 3 ottobre… Buon anno a tutti/e! 🙂
I folletti delle statistiche di WordPress.com hanno preparato un rapporto annuale 2015 per questo blog.

Ecco un estratto:

Un “cable car” di San Francisco contiene 60 passeggeri. Questo blog è stato visto circa 1.000 volte nel 2015. Se fosse un cable car, ci vorrebbero circa 17 viaggi per trasportare altrettante persone.

Clicca qui per vedere il rapporto completo.

Tecnobarocco: si stava meglio quando si stava peggio… ovvero: se la coerenza è un valore

Ho completato ieri sera la lettura di Tecnobarocco. Tecnologie inutili e altri disastri del collega Cnr Mario Tozzi. Un libro che nonostante lo sforzo – che pure però mi pare modesto – non lascerà il segno. E non lo lascerà per diversi motivi che sono quelli tipici, per usare lo stesso linguaggio che l’autore usa nel libro, della “turbo modernità”: una contraddizione intrinseca al libro che espliciterò al termine di questa breve analisi. E dire che non mi reputo un “tecnofan”…
Ma entriamo per un momento nel dettaglio. Il libro di Tozzi, redatto con linguaggio informale e altamente discorsivo, captatio benevolentiae utile a portare dalla sua parte il lettore ancor prima che questi possa valutarne i contenuti, è una lunga lista del “com’era bello una volta” vs. “com’è inutile e dannosa la tecnologia moderna”.
Attorno ad argomentazioni di buon senso (per le quali forse non serviva scrivere un libro…), anche molto condivisibili – come il discorso sulle plastiche e sul fatto che queste negli oceani stanno distruggendo letteralmente la vita, così come la condannabilissima pasca a strascico e le reti di nylon che permangono nelle acque praticamente per sempre, ecc. – l’ago della bilancia oscilla tra banalità (data la nostra vita sedentaria prendere le scale fa meglio che prendere l’ascensore… ma va?) e patente superficialità nell’affrontare le varie dicotomie che di volta in volta, in questo lungo elenco che è il libro stesso, vengono (arbitrariamente) proposte: ne elenco due su tutte.

  1. rifacendosi a un vecchio libro scritto dall’ex collega di master Sissa Nicola Nosengo (L’estinzione dei tecnosauri) l’autore, ricalcando Nosengo, mostra qua e là (il caso della tastiera “qwerty” e la questione dei supporti di memorizzazione che sono passati in pochi anni dall’incisione su nastro al dvd e ora alla completa virtualizzazione mediante cloud o dispositivi come penne usb e, in generale hard disk) come l’evoluzione tecnologica non necessariamente faccia vincere i prodotti tecnologicamente e tecnicamente migliori sul mercato (tesi principale dei tecnosauri) ma, per ragioni soprattutto economiche (che comprendono senz’altro anche l’obsolescenza programmata), fanno vincere ciò che ottimo non è. Tutto questo tacitamente viene confrontato con l’evoluzione darwiniana tout court, sostenendo come la tecnologia si discosti da quest’ultima proprio perché arbitraria e non “ottima”. Insomma: sembra che Tozzi dimentichi però, mi pare, che il darwinismo – che si differenziava dal lamarckismo proprio per la sua componente NON teleologica – teorizzi la vittoria del NON ottimo e del fatto che la Natura proceda per tentativi ed errori e che essa non proceda secondo un rigido finalismo;
  2. l’annosa questione Ogm che, ancora una volta, non viene affrontata secondo quello che, sempre secondo me, dovrebbe essere un corretto uso dell’argomentazione. I “corni del dilemma” in questo caso sono sempre stati 2: il primo è la questione scientifica: gli Ogm sono il frutto “accelerato” di quel che sono di fatto processi naturali (almeno in linea teorica) ed è stato ampiamente dimostrato che non sono dannosi per la salute, checché ne dicano tutti gli oppositori. Dannoso all’economia è invece il monopolio sulle sementi che le multinazionali (sempre le solite: Monsanto, Syngenta & co.) operano su questa faccenda: ti vendo il grano transgenico che resiste a tutti gli agenti patogeni tranne che ad uno e per quell’uno ho qui il mio prodottino che ti vendo insieme alle semente senza il quale non raccoglierai nulla. Questo si che è condannabile e completamente non etico e su questo non si può non essere d’accordo con Vandana Shiva, con la questione della biodiversità, con tutto quel che è importante nelle colture non intensive. Invece Tozzi in un paragrafetto sostanzialmente liquida la questione, non divide i corni del dilemma con il risultato di un minestrone in cui si mescolano questioni etiche e di politica economica e questioni scientifiche. Un minestrone che contribuisce a confondere anziché a far chiarezza.

Un vecchio professore sosteneva che se tre amici al bar parlano di una questione e nessuno dei tre è realmente competente sulla questione che si discute, allora quelle sono e rimangono chiacchiere da bar. Il retrogusto che rimane dopo aver letto il libro è un po’ questo: la chiacchiera da bar.
Ma ancora tutto questo, a mio modestissimo avviso, non è la pecca peggiore del libro. Il suo difetto principale sta non solo nel non offrire soluzioni – se si tratta di porsi i problema, forse in molte di queste dicotomie il problema ce lo siamo posto in molti… – ma nel pensare in filigrana che le soluzioni possano arrivare bottom up, dalla gente che dovrebbe poter cambiare i propri comportamenti. Atteggiamento, pure questo, completamente avulso dalla realtà. La maggior parte delle persone se pure ha consapevolezza di questi problemi, non è che non voglia risolverli, è che forse non ha gli strumenti materiali per scegliere (banalmente perché la società non li offre) in modo più consapevole.
Molte mattine della mia vita – non è un pensiero originale: forse sarà capitato a ognuno di noi – vedendo un cielo terso, blu cobalto, senza neanche una nuvola, ho pensato che per onorare degnamente la giornata neppure un motore si sarebbe dovuto accendere. Poi, guardato l’orologio, vedendo che si faceva tardi al lavoro, ho messo in moto la mia vespa e sono andato, accendendo il motore. E sono fortunato perché posso scegliere la vespa al posto dell’auto: un mezzo di modesta cilindrata, che consuma poco, dal peso contenuto per portare in giro il mio peso contenuto, di modeste dimensioni utili a svicolare nel traffico. Chi è meno fortunato magari il “lusso” di un mezzo a due ruote non può permetterselo, oppure teme per la propria incolumità fisica e quindi “preferisce” stare delle mezz’ore in coda dentro la propria auto. Chi è insensibile a questo problema invece va in Suv, ma questa è un’altra storia. Soluzioni? Nel libro non se ne leggono. Né bottom uptop down – e personalmente, per altro, penso che quelle top down siano le uniche perseguibili.
Le contraddizioni intrinseche al libro quindi, per concludere, sono almeno due: l’essere stato scritto in fretta e furia (alla faccia di quel che in esso si denuncia… la velocità della “turbo tecnologia”) e l’aspetto della sostenibilità, che sembra un tema molto caro a Tozzi in tutto il libro, pubblicato con Einaudi, una delle prime case editrici “costrette” dal collettivo di scrittori Wu Ming a usare carta riciclata (qui la notizia). Carta riciclata su cui questo libro non è stampato.
La copertina di "Tecnobarocco"

da cittadini a clienti, da clienti a persone senza diritti

Se il senso civico di un paese si misura (anche) dal rispetto verso i cittadini, allora, ancora una volta siamo indietro. Non voglio parlare dei massimi sistemi che, pur gravissimi, sono (più o meno) noti a tutti, ma dei disservizi minimi, quotidiani per i quali l’assenza di informazione in primo luogo è ciò che infastidisce di più.
Tutti sentiamo quotidianamente di “treni soppressi” nelle stazioni: sono un ex ferroviere e anche solo 10 anni fa sopprimere un treno (verbo piuttosto macabro, ma che rende l’idea) era un evento eccezionale, legato a una qualche calamità. I treni, anche con 2 giorni di ritardo (non scherzo!) arrivavano. Adesso è prassi comune: i materiali rotabili ferroviari sono quello che sono e questo accade senza che nessuno batta ciglio (d’altra parte in questo paese nessuno batte ciglio neppure per questioni ben più gravi…).
Nella amena località in cui vivo, in capo a un paio d’anni è accaduto che in paio d’occasioni, per manutenzioni che supponiamo essere ordinarie e quindi programmate – supponiamo, perché neppure di questo si sa qualcosa – nessuno avvisò la cittadinanza interessata dalle manutenzioni, con un cartello nel quale semplicemente si diceva che dalle ore x alle ore y l’acqua sarebbe venuta a mancare. Stamattina è successo con l’Enel: uscito dalla doccia (quindi l’acqua calda c’era, quindi la caldaia funzionava, quindi l’energia elettrica c’era) faccio per attaccare il phon e asciugarmi i capelli e scopro che non funziona. Vado a vedere e lo switch del “generale” è in “on”. Chiamo il numero verde “guasti” al quale risponde un risponditore automatico che, per non sbagliare, ti chiede il codice POD, una roba che si trova sulla bolletta. Il macchinario da quello deduce da dove chiami e dov’è situata l’utenza e un altro macchinario vocale ti descrive l’ovvia realtà nella quale sei già ben presente: c’è un guasto e ci stanno lavorando. Si prevede la mancanza di fornitura elettrica fino alle 11,30. Bene, ma DIRLO PRIMA brutti stronzi?
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D-Day: quando la Storia diventa gossip

Dal 27 marzo al 17 aprile, in un ciclo di 4 puntate, è andato in onda su Rai 3 il programma televisivo “D-Day” che pensavo essere di “informazione storica”. Ne ho guardata mezza puntata, la prima – il trailer era interessante anche per i sempre suggestivi filmati presenti nell’archivio Rai – ma non sono riuscito ad arrivare in fondo.
Il conduttore (a me) sconosciuto, tal Tommaso Cerno, con l’ausilio e la complicità di psicologi e psichiatri, giunti al tavolo della grande Storia per effettuare analisi ex post risibili ma suppongo ben pagate sia in euro che in ego – un passaggio in tv fa sempre bene all’autostima seppure col rischio di esporsi al pubblico ludibrio – analizzano la situazione dei due sommi capi dell’asse nazi-fascista: Mussolini e Hitler.
In studio si fanno paralleli sulle due storie d’amore che i due vivevano, fino a particolari scabrosi: ma a noi telespettatori CHE CE NE FREGA di stabilire (soprattutto 70 anni dopo) se Clara Petacci avesse o meno le mutande nel momento in cui fu catturata, prima della “macelleria messicana” di Piazzale Loreto (così la definirono il giovane Sandro Pertini, accompagnato da Ferruccio Parri…) in cui, insieme a Mussolini, trovò la morte?
E ancora: che ce ne frega di quell’altro matto assoluto e della modalità (per altro arci-nota e arci-studiata) e dei tempi in cui si dà la morte nel bunker di Berlino insieme a Eva Braun?
Sono rimasto esterrefatto, soprattutto perché Rai 3 è un canale (televisivo, ma lo è superbamente alla radio) di grande (quando non ottima) qualità del palinsesto. Chissà da costa è stata determinata questa caduta di stile, proprio nell’anno dell’anniversario tondo dei 70 che, domani, ci apprestiamo a festeggiare. Questo il vero mistero…

logo della trasmissione

il logo della trasmissione

indietro come i gamberi

Me lo si diceva sempre quando ero ragazzino magari come esempio di cattiva condotta a scuola. La sua semplice parafrasi è: anziché progredire, si va indietro. Beh, dopo la puntata di Presa diretta di ieri sera, però non si può non tifare per i poveri gamberi. Per i pesci in generale e per tutta quella vita che viene sistematicamente annientata dall’uomo: è il mantra della mia esistenza, perché dacché sono al mondo sento questi discorsi, corroborati per altro spesso da prove inconfutabili.
L’umanità è sempre più “parassita” del pianeta, come diceva il celebre agente Smith di Matrix:

Tutti i mammiferi di questo pianeta d’istinto sviluppano un naturale equilibrio con l’ambiente circostante, cosa che voi umani non fate. Vi insediate in una zona e vi moltiplicate, vi moltiplicate finché ogni risorsa naturale non si esaurisce. E l’unico modo in cui sapete sopravvivere è quello di spostarvi in un’altra zona ricca. C’è un altro organismo su questo pianeta che adotta lo stesso comportamento, e sai qual è? Il virus. Gli esseri umani sono un’infezione estesa, un cancro per questo pianeta: siete una piaga. E noi siamo la cura.

La questione delle plastiche negli oceani – argomento con cui la trasmissione è iniziata – è una storia tanto vecchia quanto ignorata. Ne (ri)parla Alan Weisman nel suo best seller del 2007 The world without us (tradotto in italiano nel 2008, per Einaudi: Il mondo senza di noi). L’aspetto che rivela la grettezza media che ci distingue come specie, è che la preoccupazione arriva sul serio solo quando tocca, nella catena alimentare, l’essere umano: mangiando pesce rischiamo di mangiare la plastica che i pesci stessi hanno ingerito. Stiamo disintegrando il pianeta e questa è la cruda realtà: deliberatamente e sempre dietro questioni economiche. Il Bangladesh sta distruggendo la propria economia per la coltivazione dei gamberetti, mentre delle plastiche – di cui in trasmissione si è parlato solo come rifiuto – non si cita il fatto che le soluzioni dovrebbero essere innanzitutto a monte, lavorando sul packaging, come stanno (faticosamente) facendo i “soliti” tedeschi, che a Berlino, lo scorso anno hanno inaugurato il primo supermercato totalmente “packging free”, libero da imballaggi (se ne dà notizia qui, qui, qui e anche qui). Oppure soluzioni anche a valle, sfruttando le stesse correnti circolari attorno cui si condensano queste isole di spazzatura, come il progetto “Ocean cleanup”, a questo link.
Sarebbe davvero il caso di fare qualche passo indietro come i gamberi…

Pandalus borealis (gambero)

Pandalus borealis (gambero) “Woda-6 ubt” di © 2004 by Tomasz Sienicki – Opera propria. Con licenza CC BY 2.5 tramite Wikimedia Commons

la seconda notte di nozze

Ho recuperato, ieri sera, un film di qualche anno fa. Un film italiano, diretto da Pupi Avati, di quelli che disintossicano da tutte queste sempre meno verosimili “storie americane” che a noi arrivano dalla grande distribuzione, dai blockbuster, così lontane dal nostro sentire, così irreali e violente, dove la protagonista principale è quasi sempre un’arma da fuoco.
La seconda notte di nozze è un film apparentemente semplice, una storia che si snoda nell’immediato secondo dopoguerra italiano, in due località che sono sin da subito metafora delle due italie: un nord – neppure troppo nord, visto che la città è Bologna – dove la vita è più dura, perché è città, perché c’è più gente, perché la guerra è durata più a lungo e le persone tirano la cinghia, vivendo un quotidiano di privazione, di espedienti, di enormi difficoltà per avere perso tutto. Un sud, quello della provincia pugliese, in cui le cose – e in certi momenti la vita stessa – sembrano essere rimaste sospese, conservando però una dignità e una moralità che invece è persa, sfilacciata nei protagonisti che incontriamo a Bologna.
I personaggi del film pendolano tra desiderio e necessità, tra una dignità e un rigore – soprattutto nel pazzo e saggissimo Giordano Ricci (splendidamente interpretato da Antonio Albanese) – a tratti commovente, nel suo vivere in modo assoluto le proprie emozioni. Un film da cercare e vedere.

Un'immagine de "La seconda notte di nozze"

Un’immagine de “La seconda notte di nozze”

Turing sociopatico?

Avevo già in mente di scrivere qualcosa sul film visto il 4 sera: The imitation game. Mi incoraggia il fatto che il mio storcere il naso nei confronti del film sia simile a quello di autorevoli persone come Luigi Civalleri, matematico enfant prodige, normalista a Pisa, convertitosi dopo questa formazione così specializzata, alla (alta) divulgazione scientifica, con incarichi prestigiosi presso prestigiose case editrici italiane (per dirne una: se Armi, acciaio e malattie – il long seller di Jared Diamond – è stato tradotto in italiano presso Einaudi ed è appunto diventato, come era destinato ad essere, un libro di successo, lo si deve a Luigi Civalleri, nella sua veste di talent scout di saggistica straniera), nonché (anche mio) docente del corso di editoria insieme a Martha Fabbri, al master in comunicazione della scienza della Sissa, 11 anni or sono.
La segnalazione dell’opinione di Luigi mi arriva da Fabio Turone che, sul gruppo Swim (acronimo di Science Writers in Italy) cui sono iscritto, ne ha postato l’opinione. Il punto di vista – che ho condiviso con la mia compagna all’uscita del film – è in qualche modo complementare a quello segnalato in queste due recensioni (una qui e l’altra qui) dallo stesso Luigi. Ovvero: Benedict Cumberbatch, l’attore (anche bravo) che interpreta il Turing adulto nel film, sembra la (brutta) copia delle 3 serie (da 3 puntate l’una) di Sherlock (qui il dettaglio), realizzate dalla BBC e liberamente ispirate al celebre personaggio di Sir Conan Doyle. Essendo “liberamente ispirate” ci stava anche far essere lo Sherlock moderno un “sociopatico ad alta funzionalità”, così magistralmente interpretato dall’attore inglese, ma se uno ha visto quelle puntate (uscite in Italia ma passate evidentemente sotto silenzio – tanto che noi l’abbiamo visto in lingua originale – ma con fondamentali sottotitoli, almeno per me, per un inglese velocissimo del quale francamente nulla capivo) e poi vede questa interpretazione di Turing, beh viene da pensare che il povero Cumberbatch sia rimasto prigioniero di un ruolo. E un buon attore, ahimè, si vede piuttosto dalla sua versatilità nell’interpretare diversi personaggi (penso, in piccolo, al gladiatore trasformatosi in un tutto sommato credibile John Nash).
Quindi resta da capire, seguendo la recensione italiana al film fatta da Leonardo, se nasce prima l’uovo o la gallina: è stato deciso di far essere Turing un sociopatico ad alta funzionalità (o, come sostiene Leonardo, un Asperger) per dare il ruolo a Cumberbatch, oppure la sceneggiatura, che già prevedeva questa curiosa interpretazione nella quale il povero Turing veniva così dipinto, ha visto in Cumberbatch – che già aveva espresso questo ruolo così bene in Sherlock – il miglior candidato?

Alan Mathison Turing (1912-1954)

Alan Mathison Turing (1912-1954)

le lezione di capodanno

A Capodanno siamo stati a Campo Imperatore. Un posto molto bello, trovato, come si dice in gergo last minute. Con il tempismo che mi contraddistingue sono arrivato il 30 sera ad Assergi, in provincia dell’Aquila, sotto una bufera di neve. Da lì a poco hanno chiuso l’autostrada e la funivia che da lì parte (poco oltre il paese che si trova a 1.000 metri sul livello del mare) per Campo Imperatore (2.100 m.) non funzionava per il mal tempo e il nostro riferimento a Campo Imperatore, Paolo Pecilli, è riuscito a trovarci una sistemazione alberghiera proprio lì in paese.
Ha nevicato come da tempo non vedevo nevicare e il giorno successivo, 31 dicembre, alle 10,30 della mattina la temperatura era di -10°C. Ancora una volta sembrava che non si riuscisse ad andare su: ancora bufera in quota con temperature di -20°C. Alle 16 circa hanno deciso di fare una corsa comunque, per permettere a chi come noi aveva prenotato, di arrivare a destinazione: ce l’abbiamo fatta nonostante la funivia che porta 100 persone scuotesse in balia del vento e delle sferzate di neve. Paolo era lì ad accoglierci. Tutto bianco e non si vedeva nulla: dall’uscita della funivia esiste un tunnel sotterraneo che porta direttamente all’albergo, la struttura dove Benito Mussolini venne tenuto prigioniero dal 28 agosto al 12 settembre 1943 (http://it.wikipedia.org/wiki/Hotel_Campo_Imperatore). Se quel tunnel non fosse esistito avremmo avuto difficoltà a raggiungere l’albergo che pure distava 50 m. da lì.
E’ buffo perché in posti come questi, in un momento come capodanno, nonostante le condizioni avverse, la “fauna umana” è davvero la più varia: sciatori che vorrebbero sciare anche sotto la tormenta, gente che non ha mai visto la neve e non ha idea di come si stia in montagna, signore impellicciate che arrivano a 2.100 metri in mezzo a montagne di neve col tacco 12 e il cagnolino da borsetta dentro la borsetta…
Una grande confusione insomma e una grande organizzazione per far fronte a tutto questo, compreso “l’imprevisto” meteo per il quale mediamente la gente è comunque pronta a lamentarsi, soprattutto perché “ha pagato” (forse se vai a passare dei giorni a oltre 2.000 metri di quota a gennaio è il caso che ti faccia venire in mente che le condizioni climatiche possano essere tanto avverse da non riuscire a mettere il naso fuori…).
Veniamo quindi alla lezione: del tutto casualmente alla reception, assistiamo a un nuovo arrivato che apostrofa Paolo – che abbiamo capito essere il referente per tutto – dicendosi “molto incazzato” per il fatto di aver fatto 800 km (da Catania) e non aver trovato la neve come sperava, che non si fa così, che questo non è essere “professionali”, ecc. ecc. Paolo l’ha fatto finire e poi con grande calma gli ha spiegato la situazione: tormenta 30 e 31, gente che non si sapeva se sarebbe potuta arrivare e soprattutto l’impossibilità di sapere da che parte tira il vento e se la neve resta lì a 2.000 metri oppure, grazie al vento invece va a depositarsi più giù in valle (cosa per alto molto probabile visto che Campo Imperatore è in un luogo molto aperto, quasi un altipiano e i venti – con raffiche a oltre 100 km/h forse non fanno rimanere la neve esattamente dove cade).
Ma soprattutto ho trovato molto bella la chiosa: se pensi che qui non sia il caso di stare puoi andare a Campo Felice o in altre zone qui intorno dove la neve c’è. Ti restituisco i soldi: non sono i tuoi 100 euro a cambiarmi la vita. Quella che – al netto del rendere pan per focaccia – mi è parsa una scelta di libertà che mette in subordine la questione economica: sei libero, ti restituisco i soldi, vai dove vuoi. Questo disinnesca ogni acrimonia e respinge elegantemente le accuse di “scarso professionismo” (come se uno potesse prevedere dove decide di posare la neve la bufera). La mossa poi l’ho poi trovata intelligente anche sotto traccia: se mi metto nei panni di colui che gestisce una struttura alberghiera e un cliente esordisce in tal modo il rischio è che questo rompa le scatole a ogni pie’ sospinto. Persone così, quando è possibile, è meglio levarsele subito di torno per il bene di tutti. Questo ha poi deciso di restare e non so come sia andata a finire.
Anche con noi la questione economica alla fine è passata in secondo piano: dal preventivo iniziale abbiamo forfettizzato: erano compresi impianti di risalita che non abbiamo utilizzato, le racchette da neve (almeno un paio) ce le ha prestate a titolo gratuito, la prima notte è stata ovviamente scorporata dal computo del preventivo e ancora Paolo ci ha fatto un discreto sconto. Mi è piaciuto perché io non sarei stato capace di fare altrettanto.
PS: a proposito di professionismo: Marilù non digerisce il latte normale e molto spesso anche nei bar di città abbiamo avuto difficoltà a trovare il latte di soia. Ebbene: a Campo Imperatore c’è, come abbiamo sempre ricevuto the, o bevande calde in generale, con zucchero sia di canna che normale. Dettagli, per carità. Ma che, al giorno d’oggi, fanno la differenza.

Il tramonto del 2 gennaio dalla nostra stanza a Campo Imperatore

Il tramonto del 2 gennaio dalla nostra stanza a Campo Imperatore