Pendoli filosofici

Il tempo degli stregoni - copertinaSe guardo un po’ lucidamente ai percorsi che mi avvicinano alla e respingono dalla Filosofia, comincio a individuare – alla non giovane età di 48 anni – i motivi di tali avvicinamenti e repulsioni. Chi mi conosce conosce anche i tortuosi percorsi intellettuali che mi hanno condotto da una scuola (superiore) tecnica (ITIS) a frequentare, senza profondi convincimenti, un anno e mezzo di ingegneria con il misero bottino di due esami all’attivo e una frustrazione al limite dell’esaurimento nervoso (perché va bene “lacrime, sangue e sudore” ma col senno di poi gli anni della selezione a Ingegneria, a Pisa, negli anni accademici intorno al 1990, erano di fatto il setaccio, fine all’inverosimile, utile a buttare fuori le persone – che pure diligentemente avevano studiato – dagli esami a ogni occasione possibile). Da lì transitai a Filosofia e, pur con l’andamento altalenante di chi ha da guadagnarsi da vivere e risulta all’anagrafe accademica come lavoratore-studente, mi laureai (tardi).
Seguii la mia strada (master Sissa in Comunicazione della Scienza, qualche anno dopo) nella convinzione (1) che fosse tardi per qualunque vocazione accademica (poi già avevo un lavoro ed ero fuori tempo massimo) e che dunque (2) vi fosse la necessità di specializzarsi, visto che la Filosofia è tutto fuorché una specializzazione in sé (nonostante abbia molte declinazioni: del linguaggio, delle religioni, analitica, ecc.).
Ne presi le distanze seguendone da outsider (quale sono) le tracce che rimanevano nelle mailing list (per fare un esempio) della SIFA (Società Italiana di Filosofia Analitica) nella quale si dava conto dei vari convegni, delle scuole, dei bandi di dottorato ecc., rimanendo di volta in volta sempre più perplesso per il tenore degli argomenti (che nella mia mente – per carità, forse non sufficientemente preparata e filosofica – suonavano letteralmente come il vuoto nulla) intorno ai quali si riuscivano a organizzare convegni, workshop e quant’altro vi possa venire in mente. Insomma: il respingimento e il punto di allontanamento massimo da una disciplina che pure mi aveva entusiasmato nella sua declinazione antica e classica (il mondo greco dei “fondamentali”, dai presocratici – Anassimene, Anassimandro, Democrito, Leucippo di cui studiai l’atomismo – alla triade Socrate, Platone, Aristotele) e mi aveva intrigato intellettualmente con figure moderne e contemporanee quali quelle di Wittgenstein in primis, ma anche Heidegger e altri.
Eppure nella sua accezione odierna nel migliore dei casi mi pareva che la Filosofia proponesse lo scimmiottare il pensiero dei grandi, la “riflessione della riflessione” e tutto ciò che comporta il deterioramento e l’assenza di un pensiero originale: da qui l’aver sempre voluto coltivare la passione per la scienza dove, almeno, si parlava di qualcosa e si tentava di risolvere qualche problema (ai miei occhi: vero o almeno ben più concreto di quelli che la Filosofia – nei suoi territori accademici nostrani – ha teso (e ahimè tende a) propormi).
Tutto questo ovviamente nel contesto più ampio della vita – i cui margini e spazi per gli studi risultano sempre più sacrificati e solo il “rocambolesco” di cui la mia è stata costellata, mi ha permesso (non senza sacrifici) gli spazi per qualche approfondimento. Così il “rocambolesco” volle che vinsi nel 2011 un concorso al Consiglio Nazionale delle Ricerche e il riaccostamento verso la hard science fosse in una qualche misura più definitivo e perentorio. Nella mia formazione seguì un (secondo) master (2013) di primo livello in “Tecnologie Internet”, guarda caso organizzato da quella stessa facoltà (Ingegneria) che mi aveva respinto così duramente più di vent’anni prima. Adesso che sto completando il ciclo di studi del dottorato (presso quale facoltà? Ingegneria, naturalmente, ma a Trento) sono accadute due cose “strane” (ma forse neppure troppo): (1) ho, negli anni di questa frequentazione trentina, allacciato i rapporti con esponenti dell’AISC (Associazione Italiana di Scienze Cognitive) perché mandai un mio modesto contributo per un convegno e da quel momento sono stato cooptato (anche e soprattutto sul piano umano) in questa dimensione (la mia tesi di laurea sconfina ed esplora non poco le Scienze Cognitive) e (2) sto leggendo in questo periodo un (bel) libro: Il tempo degli stregoni, di Wolfram Eilenberger.
Questo libro, che ha come sottotitolo: 1919-1929: le vite straordinarie di quattro filosofi e l’ultima rivoluzione del pensiero, mi ha dato modo di riflettere più chiaramente su questo mio “percorso intellettuale”, soprattutto quando l’autore – dalla scrittura vivace e capace di mescolare sapientemente il dato biografico dei 4 (Wittgenstein, Cassirer, Heidegger e Benjamin) e i loro percorsi intellettuali – scrive (proprio parlando del Tractatus di Wittgenstein):

Lo spazio del dicibile, di cui l’opera di Wittgenstein traccia i confini “dall’interno” con i mezzi dell’analisi logica del linguaggio, riguarda solo il mondo dei fatti, l’unico ambito del quale si possa parlare in modo sensato. Comprendere con la massima esattezza possibile questo mondo dei fatti e la sua struttura è però in ultima analisi il compito delle scienze naturali. Ossia, Wittgenstein ne è convinto, “qualcosa che non ha nulla a che fare con la filosofia” (6.53 [del Tractatus]). Il problema, o meglio la soluzione vera e propria del problema, starà dunque, su questo sfondo, nella seguente convinzione, o per meglio dire, nel seguente stato d’animo:
6.52 Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche abbiano avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppure toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa la risposta.*

La Satz 6.52 del Tractatus è, per me, nota ed è stata, in passato, l’epifania di quanto molti che frequentano o hanno frequentato le scienze dure “soffrono” (soprattutto in quella delicata fase della vita post-adolescenziale che va dai 19 ai 25 e traghetta gli individui verso l’età adulta), vale a dire: l’avere a che fare con discipline che possono risultare sterili per l’animo umano. Una giornata di studio della Chimica, della Fisica, dell’Analisi Matematica dice qualcosa di un mondo oggettivo che sta fuori di noi, su come funziona e su quali sono i suoi “fatti”, per dirla con Wittgenstein, ma nulla dice su qualcosa che possa aiutare a decodificare sensazioni, sentimenti, stati d’animo, qualcosa che sia utile a un confronto e possibilmente a una crescita interiore dell’individuo: nessuno dei “nostri problemi vitali” viene toccato. Da qui il secondo moto oscillatorio del pendolo che, di senso contrario al primo, mi ha respinto dalle scienze dure per farmi tornare a quelle umane. Il programma di Wittgenstein in un mondo – ora come allora – “positivista” ed erede dell’età dei Lumi è quindi “esistenzialista”, in un certo qual modo (come del resto afferma l’autore del libro nella pagina successiva).
La Filosofia – se non come ancella della scienza – è quindi “morta”? Qualche pagina dopo Eilenberger – stavolta parlando di Heidegger – scrive:

Se infatti si decide per la “assoluta fattualità”, e si delega la questione del “c’è” alle scienze naturali, la filosofia va incontro allo stesso destino pronosticato da Wittgenstein: diventa superflua, e si riduce tutt’al più al ruolo di ancella delle scienze naturali. Ma può succedere di peggio: cioè che la filosofia degeneri in quella sorta di vuota chiacchiera basata su un falso fondamento valoriale carico di pregiudizi, che Heidegger associa all’idea della filosofia come “visione del mondo”.**

Resta, in me e per me, questa specie di oscillazione perché, a oggi, a meno di declinazioni “mistiche”, la Filosofia, si è fatta o vuota chiacchiera o, come detto nella migliore delle ipotesi, ancella. In un momento di urgenza mondiale legata alle questioni di cui molti di noi sono a conoscenza (o che ignorano perché è molto più comodo farlo che preoccuparsi, vale a dire: crisi economica, ecologica ed energetica), essa dovrebbe smettere di essere l’una e l’altra cosa, per farsi bussola di una Umanità che sembra aver completamente perso il senso del suo stare su questo Pianeta.
* Eilenberger, p. 51.
** Eilenberger, p. 61.
PS: questo libro – di cui sto ultimando la lettura – è molto bello per diversi motivi, ma il suo fascino principale risiede nel fatto di vedere mescolati elementi che di solito nei libri stanno distinti: sketch biografici, aneddoti (devo dire sempre piuttosto interessanti, come l’incontro tra Cassirer e Warburg o le note trasformazioni del Wittgenstein che da autore del Tractatus diviene maestro elementare, aiuto giardiniere in un monastero e infine architetto per la costruzione della casa della sorella a Vienna, prima di riapprodare alla Filosofia e al fecondo periodo che sfociò in quel bel volume postumo che sono le Ricerche filosofiche…), pezzi della vita dei protagonisti che, intevitabilmente si intrecciano con la Storia dell’Europa di quel tempo e… ovviamente il pensiero che sta alla base dell’agire dei quattro. Davvero complimenti all’autore che ho scoperto essere ospite del Festival Filosofia di quest’anno, qui.

Luca Rastello, dietro la curva

solo un grande scrittore fa muovere insieme
i vivi e i morti
e solo un grande dio può accudire i disperati
in un posto così
Ivano Fossati, Bella speranza

 
 

L’ho letto fino alla fine e, alla fine, alla rilettura di quella lettera-testamento alle figlie, lo sapevo, ne ho pianto. Quel testo lo ascoltai dal vivo dalla voce di Marco Gobetti, nel 2015, quando Luca morì e mezza Torino (e forse mezza Italia – credo non fossi il solo ad arrivare da fuori) si riunì al cimitero monumentale. Presi il treno da Pisa e, in giornata, tornai a Pisa. Ma volevo esserci per quell’ultimo saluto terreno (ma poi forse, come scrive lui, le persone restano comunque insieme a noi).

Era una giornata canicolare di luglio, umida da strizzare i vestiti. Vennero a prenderci gli amici No Tav Claudio e Fabrizio. C’era da svenire dal caldo e dalla gente. Anche in quell’occasione faticai a trattenere le lacrime (uno scrittore è pur sempre uno scrittore). Questo è un libro postumo e quindi “arbitrario”, somma giustapposta di “appunti su computer”, file a cui Luca, per ingannare la morte, stava lavorando. Esercizio estremo di sfida ed elusione quello di ingannare la morte. Esercizio riuscito, per quel che mi riguarda, soprattutto quando, nell’ultima conferenza tenuta alla fine di settembre del 2014 (penultimo pezzo del libro, prima della lettera-testamento), parlando del celebre romanzo del Tristam Shandy di Sterne e della capacità di fare sistematicamente digressioni per impedire al tempo di scorrere linearmente, dice: «Con la narrazione si può prendere in mano il proprio destino. Si può inseguire la morte. […] La dilatazione del tempo è l’arte di incatenare una storia all’altra, di saper scegliere un momento per interrompersi. È l’arte orientale di Sherazade; l’arte inaugurata da Omero nell’Iliade» (p. 291), e poco oltre: «Abbiamo imparato una lezione. Il tempo di un uomo è destinato a esaurirsi come il tempo di una vicenda narrata, ma lo si può moltiplicare confondendolo, sovrapponendo altri tempi, altre storie […]. È come se il narratore dicesse: “Dammi il tuo ultimo tempo, io lo ingombrerò di mura, di eroi, di principesse, di cavalli, di immagini, e te lo restituirò come tuo e come concreto. Non astratto che scivola verso la morte”» (pp. 292-293). Il tempo concreto della “vita senza orologio” e quello astratto “dell’orologio”, l’uno della vita e l’altro della morte.
Quello stesso romanzo che pare abbia già addirittura allungato la vita di niente meno che Walter Benjamin: «Anziché togliersi prematuramente la vita, Benjamin si chiude per tre settimane in una camera d’albergo e legge il romanzo umoristico Tristam Shandy di Laurence Sterne. Il tono costantemente autoironico, talora anche decisamente sciocco, di quest’opera potrebbe avergli salvato la vita in quegli ultimi giorni del 1926. La letteratura è in grado di farlo.» (Wolfram Eilenberger, Il tempo degli stregoni, Feltrinelli, Milano, p. 285).
Questo libro è arbitrario e quindi per sua natura eterogeneo: c’è il progetto di un romanzo sulla malattia (e quanta verità sulle percezioni che il malato ha nel rapporto con chi malato non è!); una lunga parte digressiva e di backstage, per dir così, del romanzo stesso centrata sulla letteratura tragica anticogreca (con particolare riferimento ad Antigone) e sui miti; una parte – quella che preferisco, del Luca viaggiatore – sulle tracce di Osip Mandel’štam; un pizzico – brevi flashback – di altri viaggi, sempre in quella regione misteriosa (ai miei occhi occidentali e di colui che sa poco o nulla di vicino, medio e lontano Oriente), remota, feconda, ibridata di lingue e culture (cfr. Le benevole di Littel…) nota come Caucaso.
Quindi un libro digressivo per natura, specchio (sempre parziale) della cultura – anzi: Cultura (classica e non) – che Luca aveva, possedeva, trasmetteva e mi verrebbe da dire “viveva”, in quella sempre più rara combinazione che si trova in certi individui nei quali il sapere si trasforma in carne, azione, narrazione. Una digressione che raggiunge lo scopo dichiarato: spostare il confine più in là, procrastinare la morte.
Non ho altro da aggiungere se non che – se avessi il tempo (forse un tempo che troverò, dopo averne scoperto i “segreti” per ingannarlo, dopo la lettura di questo libro) – mi piacerebbe scrivere a mia volta un libro di cui ho già il titolo e che vorrebbero essere delle note, altrettanto sparse, in “risposta” a quel che qui ho trovato. Sollecitazioni dialettiche e dialogiche, come se ancora potessi dialogare con Luca, di un dialogo di cui, soprattutto in certi momenti, sento acuta la mancanza.

Alberi

Forogramma del corto di animazione “L’uomo che piantava gli alberi”, dal racconto omonimo di J. Giono


#1. Mia moglie mi ha girato ieri questo breve racconto che ho condiviso su facebook e che ha riscosso un discreto apprezzamento (per i miei standard) – segno che una certa sensibilità è ancora diffusa. Il racconto di Vitaliano Trevisan, un autore di Vicenza, dice così:

Gli alberi non parlano, non comunicano tra loro né tantomeno comunicano con noi. Così ci è stato insegnato. Tutto ciò che uno può vedere, guardando un albero, non è che un albero; e tutto ciò che uno può pensare di quell’albero non viene dall’albero, che non dice nulla, ma da lui stesso.
Comunque, c’erano queste due magnolie una di fronte all’altra. Erano venute su insieme: una nel giardino dell’ultima casa in fondo alla via sulla destra; l’altra nel giardino dell’ultima casa sulla sinistra. Fin da quando eravamo bambini le avevamo sempre viste belle e rigogliose, ed eravamo convinti che si parlassero e si mettessero d’accordo su quando fiorire, quando fare i frutti e quando lasciarli cadere, visto che lo facevano sempre nello stesso momento. Eravamo addirittura convinti che si volessero bene, che si facessero compagnia nelle fredde notti d’inverno così come nell’insopportabile canicola di agosto. Pensavamo anche che le due magnolie si parlassero in continuazione, e approfittassero del vento per mandarsi dei messaggi utilizzando le foglie secche che lasciavano andare alla brezza ora di qua, ora di là della strada. Noi stessi, più di una volta, portammo alcune foglie dell’una dall’altra e viceversa, pensando di fare cosa gradita.
Poi cominciammo ad andare a scuola, dove ci fu chiaro molto presto che tutto ciò che credevamo di sapere, riguardo le due magnolie innamorate, ce l’eravamo soltanto immaginato. Gli anni passavano, e ogni volta che passavamo davanti alle due magnolie, pur sapendo che ci stavamo immaginando tutto, eravamo proprio contenti che loro due fossero insieme. Proprio contenti.
Un giorno, però, il padrone della casa in fondo a sinistra decise che era giunto il momento di costruire un garage, perché si era comprato la macchina nuova e non aveva affatto intenzione di lasciarla fuori in strada tutta la notte. Siccome la magnolia gli avrebbe creato dei problemi per entrare e uscire dal nuovo garage con la macchina nuova, che era un po’ più grande della vecchia, decise di tagliare la magnolia. Gli dispiaceva, avrebbe detto il padrone della casa in fondo a sinistra al suo vicino, ma d’altronde la macchina era nuova, e non aveva certo intenzione di correre il rischio di strisciarla ogni volta che entrava o usciva.
Tagliò la magnolia un sabato pomeriggio. La tagliò e ne fece tanti pezzi che utilizzò poi come legna da ardere.
La magnolia dell’ultima casa in fondo a destra morì inspiegabilmente pochi mesi dopo. Noi lo sappiamo perché è morta. Certo, la nostra maestra non sarebbe affatto d’accordo con noi, ma di questo non ci importa niente.

#2. Questo mi ha fatto venire in mente altri alberi della mia vita. Quelli che proteggono l’eremo di Camaldoli, dove moltissimi anni fa facemmo una ciaspolata meravigliosa, dopo una nevicata incredibile e una galaverna che aveva cristallizzato tutto e pareva aver messo addormentato per via criogenica la vita stessa. Quello che ero solito vedere in un punto preciso della lunga tratta ferroviaria tra Cecina e Grosseto, durante i miei anni da macchinista. Ci passavo davanti col locomotore e spesso volontariamente – soprattutto con i treni merci che non hanno mai grossi vincoli d’orario – smettevo di dare trazione al convoglio per godermi un passaggio anche solo di qualche chilometro orario più lento. Una specie di saluto, un amico che si passa a trovare e di cui – come nel caso della ciaspolata – conservo addirittura, e per fortuna, qualche foto e non solo il ricordo. Su quell’albero mi ero fissato, doveva essere una quercia e aveva una chioma maestosa con sotto un campo di girasoli. Se chiudo gli occhi lo vedo ancora. Un sogno.
Altri – moltissimi altri, in verità – alberi mi hanno accompagnato in molti giri che ho fatto in mezzo alla natura in passato (e troppo poco nel presente), magari in montagna o in mezzo a una pineta, o ancora, altre volte, di nuovo con le ciaspole ai piedi, come in occasione di un giro sul monte Amiata. In tempi recenti raggiungere (e ahimè oltrepassare, perché di transito) l’abbraccio buio degli abeti che stanno sul passo che congiunge l’Emilia alla Toscana, all’Abetone. Rallentare e forse anche fermarsi. Lì c’è stato anche un altro pezzo della mia vita, non trascurabile per importanza.
Da ultimo gli alberi della seconda vita. Quelli che adesso hanno abbattuto, all’interno della zona verde delimitata tutto intorno dai padiglioni della parte vecchia dell’ospedale di Cisanello, a Pisa. Erano loro che vedevo dalla finestra della terapia intensiva, nell’ottobre del 2007. Sono stati loro, adesso lo ricordo!, a darmi la forza e la speranza di un domani ancora possibile. Rimasi malissimo quando, in occasione di una delle visite di controllo, mi accorsi semplicemente non c’erano più: li avevano abbattuti e fatti a pezzi, come quella magnolia, ma a nessuno di loro fu dato modo di morire di solitudine, perché tutti vennero fatti fuori.
#3. Concludo con un cortometraggio animato, narrazione della bellissima fiaba di Jean Giono, L’uomo che piantava gli alberi. Una bella edizione di Salani, che mi pare sia ancora in commercio, è in cofanetto e contempla un DVD con questo cortometraggio bello come il testo di Giono, recitato dalla voce di Toni Servillo. Ho scoperto che qualcuno l’ha caricata anche su Youtube. Vi assicuro: una delle mezz’ore meglio spese della vostra vita.

L'insalata insostenibile

Quando mi trovo a Mesiano, alla facoltà di ingegneria dove sto completando il mio dottorato, ho diverse opzioni per mangiare. Il dipartimento è fisicamente lontano dalla città o da altri paesi: non ci sono grandi alternative e quindi, come quasi sempre accade, le alternative sono “interne”. A parte la “solita mensa” – con i pregi e i difetti delle mense, ma soprattutto con la storia “di lungo corso” che normalmente molte persone hanno con questa soluzione per fare un boccone di pranzo – esiste una “pizzeria portatile” (uno di quei rimorchi di camion che normalmente si vedono nelle fiere…), il bar (dove si può mangiare il “solito panino” ed eventualmente altri piatti freddi) e, negli ultimi tempi, una delle alternative – che ha riscosso anche un certo successo – è un distributore automatico di insalate, piazzato lì da un locale che sta nella frazione sopra il dipartimento.
Idea molto interessante e accattivante: una insalatona (con tanto di condimenti e pane) che sazia e non appesantisce, di qualità (gli ingredienti sono sempre freschi perché le inslate le rinnovano ogni giorno) e che costa il giusto.
Poi però c’è il solito tarlo della sostenibilità, del quale parlavo incidentalmente questa mattina con un amico al telefono. In foto, quello che rimane (a giudicare da quel che dice Greenpeace e un pur datato post trovato su un sito di informazione svizzero, pressoché in eterno…) della mia insalata. C’è una soluzione? Anche nel progredito Trentino siamo sempre a “bagnomaria” in un mondo incapace di trovare una vera soluzione a un problema, per altro ben noto da anni. Perché differenziare – come ben descrive Claudio Della Volpe in questo post – non significa ancora riciclare (e il post merita di essere letto per capire di quale complessità stiamo parlando…).
Come esseri umani siamo insostenibili. Anche chi è in buona fede e anche chi cerca in tutti i modi di sottrarsi al tributo che tutti diamo – volenti o nolenti – alla distruzione del mondo. La più innocente delle nostre azioni se va bene produce un aumento dei gas serra. Se va peggio rifiuti quasi ineliminabili…

Marco Paolini e la tecnologia (salvifica)

Conobbi Marco Paolini alla Centrale Montemartini di Roma, una vecchia centrale elettrica dismessa, ora funzionante come museo e spazio espositivo – ottima riqualificazione di quella che va sotto il cappello di “archeologia industriale”. Era non so più se il 1995 o 96 ed ero lì con la mia fidanzata dell’epoca per seguire i lavori di un convegno di Legambiente. La sera stavamo uscendo e vedemmo su una lavagna, scritto un po’ di fretta, “stasera ore 21,30 “Il racconto del Vajont” di Marco Paolini”. Decidemmo di cambiare i nostri piani e, anziché goderci la capitale, finimmo per assistere  a questo racconto di cui nulla sapevamo, che si svolgeva in uno spazio neppure troppo grande e con neppure troppe sedie. Infatti non eravamo moltissimi, ma fummo tutti rapiti e rimanemmo a bocca aperta. Quella narrazione – che in qualche modo inaugurava un nuovo prolifico ciclo di quelle che vennero poco dopo battezzate “orazioni civili” – avveniva già “alla lavagna”, utile vademecum per orientare e dipanare i fili di una storia lunga e complessa. Tutto passò in un batter di ciglia e, complice il fatto di essere pochi e in un contesto alla fine poco formale (non un teatro), approcciai Paolini alla fine, per fargli i miei complimenti e per buttare lì la domanda: “ma… questa storia dei treni… come fai a sapere queste cose?”; risposta: “mio padre era macchinista”; e io: “anch’io lo sono”. E da lì in poi la discussione prese tutta un’altra piega: si parlò di locomotive, di potenze, di carrozze, di treni insomma.
Ci scrivemmo, anche. Non mail, che ancora avevano da venire, ma vere e proprie lettere. Uno scambio breve e molto dilatato nel tempo: erano quelli i tempi del decollo in cui lui cominciava a diventare (meritatamente) famoso, grazie a questa storia del Vajont. Ognuno tornò alle proprie cose e io, da sempre sensibile alla “questione apuana” – le mie montagne, quelle da cui arrivo e che all’epoca ancora frequentavo assiduamente – avevo in mente una narrazione simile a quella del Vajont, legata all’epopea ma anche alla tragedia del marmo. Epopea e tragedia che non riassumo qui, altrimenti un post, per quanto lungo non basta, ma un’epopea perché riguarda generazioni di persone che, anche solo meno di un secolo fa, attaccavano la montagna quasi a mani nude per cavarne quel marmo prezioso – perché il marmo è un materiale prezioso e quello di Massa e Carrara lo è più di tutti – destinato a ornare chiese e palazzi, e moschee e sedi prestigiose di istituzioni in tutto il mondo, a forgiare statue viste da tutto il mondo. Epopea accompagnata dalla tragedia delle troppe morti sul lavoro ed epopea che la tecnologia ha banalizzato, trasformando la tragedia degli uomini in quella della montagna: adesso si va su con il fuoristrada, i quasi diecimila cavatori di inizio ‘900 si sono ridotti a meno di 1000 “addetti cava”, sostanzialmente operai specializzati, che in un turno di lavoro affettano blocchi di marmo di tonnellate, già delle esatte dimensioni, destinati a far piastrelle e pavimenti e non statue. Addetti che guadagnano bene, non fanno nessuno sforzo, non hanno il minimo rapporto con la montagna. Una tecnologia che affranca dalla fatica ma nello stesso tempo neutralizza (nel senso di rendere neutro) ogni rapporto con la montagna stessa. Addetti la cui produttività pro capite – lo si può immaginare – non è neppure confrontabile con l’esercito di persone che lassù ci doveva arrivare a piedi per starci una settimana. Non mi si fraintenda: non sono un nostalgico e neppure ce l’ho con questi addetti, che pure fanno il loro lavoro. Solo è che le cose sono cambiate e anche molto e anche alla svelta. Una cosa che ho imparato bene nel mio dottorato è che aumentare l’intensità di sfruttamento di una risorsa disintegra ogni equilibrio, soprattutto quando la risorsa è non rinnovabile, come nel caso di marmo e petrolio. Così interi ecosistemi o microecosistemi (legati al fatto che si tratta di montagne calcaree che arrivano a 2.000 metri di altezza e stanno di fronte al mare, a 10 km) – fatti per esempio di una flora che solo lì cresce – sono andati o stanno andando a puttane (mi perdonerete l’espressione forte). In nome del profitto – qui più che altrove: di pochi. Certo qualcuno penserà: ecco il solito ambientalista che per salvare il fiorellino sarebbe disposto a cancellare un intero distretto economico. Non è così e il discorso è assai più complesso. Ci sarebbero (state) delle sane vie di mezzo che si sarebbero potute perseguire, senza arrivare alla follia di spianare letteralmente un passo montano, abbassandolo di 400 m,  come quello della Focolaccia (qui per vedere di cosa stiamo parlando e qui un articolo de “Il Tirreno” sul ridicolo ruolo giocato dal Parco e di amministrazioni da sempre prostrate all’interesse economico – l’articolo è il classico esempio di quando si cerca di chiudere la stalla quando i buoi sono scappati…).
Insomma: la solita storia, in “salsa apuana” che mi sarebbe piaciuto veder raccontata da Paolini. Così gli scrissi con passione di questo progetto. Ma – forse prevedibilmente? – non ebbi risposta. Continuai a seguirlo, ovviamente: un buon narratore è pur sempre un buon narratore, ma già in quella prima non risposta, notai la discrepanza tra il Marco Paolini reale e quello che in qualche modo mi era sembrato di veder trasparire dal phatos con cui narrava la vicenda del Vajont e che avevo in qualche modo idealizzato, immaginando, non so perché, avrebbe potuto raccogliere la sfida di raccontare le Apuane.
Così non fu e gli anni passarono fino a questo Le avventure di Numero Primo, che è libro e spettacolo insieme. Comprammo il libro che sin dal titolo vorrebbe strizzare l’occhio e/o rendere omaggio a Le avventure di Pinocchio, lo leggemmo senza rimanere a bocca aperta e decidemmo comunque di andare a vedere lo spettacolo a Pontedera il 17 febbraio scorso – e anche questo non ci fece rimanere a bocca aperta. Ne emerge una storia tecnofuturibile, non distopica – se non per la solita multinazionale che trama nell’ombra – basata su una intelligenza artificiale evoluta (quella del protagonista bambino Numero Primo), su persone che muoiono ma non sono veramente morte (dando seguito a quell’altra follia tecnottimista del postumanesimo/transumanesimo) e altre amenità di questo genere da cui, soprattutto, emerge un Paolini tecnofilo, con una visione del futuro in cui la tecnologia (e non più la scienza, relegata a un ruolo quasi ancillare) salverà il mondo. Un Paolini che dice di essersi documentato a lungo – e c’è da credergli – ma, secondo il mio modesto avviso, andando dalle persone sbagliate, dimostrando di non aver letto Collasso di Diamond, di non aver sfogliato The Collapse of Complex Societies di Tainter, di non aver dato un’occhiata ai classici di sempre come I limiti dello sviluppo (e gli aggiornamenti fatti negli anni successivi), di non aver preso in considerazione il Greer di The Long Descent e l’Heinberg di The End of Growth (piccolo spazio pubblicità: entrambi di prossima pubblicazione in traduzione italiana con Lu::Ce edizioni) in cui si dice tra le tante altre cose che, se si continua così, non ci sarà tecnologia capace di salvare alcunché perché mancheranno fisicamente i materiali, perché mancherà fisicamente l’energia per realizzare questi dispositivi che sono solo nella mente di un pur abile affabulatore come Marco Paolini, che forse non è a conoscenza di un dato molto facilmente reperibile come quello sul traffico aereo, per esempio, negli Stati Uniti, dove ogni giorno partono e arrivano più di 87mila voli aerei. Ogni giorno, che in un anno diventano trentunomilioniesettecentocinquantacinquemila e via così, se si volete divertire con le cifre. Questo solo negli Stati Uniti (il dato è qui). Ce la faremo? La Terra quanto a lungo potrà sopportare questo – e il molto altro – che stiamo facendo? Mi correggo, perché come dice Meadows, il problema non è della Terra, che in qualche modo se la caverà, come se l’è sempre cavata in passato: noi ce la faremo? Non una parola su questo. Siamo alle magnifiche sorti e progressive.
Insomma: che peccato! Era partita così bene tanti anni fa con il Vajont per finire un po’ così, attaccato al treno (a proposito di treni…) di un format che lo ha reso vincente, ma attento al marketing (“fuori ci sono i libri, poi mi fermerò per firmarli se qualcuno desidera” – tutti abbiamo visto i libri, visto che per entrare in teatro ci si passava davanti…) e con un atteggiamento mainstream che getta Marco Paolini nell’oblio delle tante voci, incapace, come tanti, di una critica vera al sistema.

La locandina dello spettacolo (che è anche la copertina del libro)

Trilogia di frontiera

Quasi casualmente mi è giunta la voce di questa specie di “trilogia informale” cinematografica (così battezzata dall’ideatore Taylor Sheridan, un mio coetaneo statunitense, sceneggiatore e regista) che mostra i diversi aspetti della moderna frontiera statunitense, interpretati da 3 registi (tra cui anche lo stesso Sheridan). Per adesso ho avuto modo di vedere i primi due: Sicario (2015) di Denis Villeneuve e Hell or High Water (2016) di David Mackenzie.
Ci si trova un po’ di nuovo di fronte alla deep America, quella lontana dai tratti oleografici della modernità, alla periferia del mondo (che sembra paradossale per un posto come gli Stati Uniti, visti, dall’esterno soprattutto, come il centro del mondo…), dove la vita è dura. Molto dura. Un curioso fil rouge che, nella mia memoria partì qualche anno fa con Nebraska (2013) e, in tempi recentissimi con Tre manifesti a Ebbing, Missouri (2017) di Martin McDonagh, che vidi al cinema qualche mese fa e adesso con questi due film di cui mi manca il terzo.
Storie anche edificanti – per esempio in Tre manifesti e almeno nel secondo di questa trilogia, Hell or High Water – ma che arrivano sempre e comunque dopo bagni di sangue, vendette, pistolettate, fucilate, in mondi dove non sembra possibile perseguire strade diverse, più edificanti, meno violente. Mondi senza speranza dunque, dopo ci si mette in gioco fino a rischio della vita. Forse, vien da dire, l’epopea western non è mai finita, c’è sempre un west da conquistare, forse metafisico, forse dentro se stessi, forse nel rapporto con gli altri e con la società.
Se non altro se lo scopo è quello di continuare a far parlare di sé, gli Stati Uniti ci stanno riuscendo.

Emily Blunt in una scena del film “Sicario” (2015)

I libri salvati (dalla spazzatura)

Forse non c’è molto da commentare per una notizia del genere: i netturbini che salvano i libri (dalla spazzatura) ad Ankara e ne fanno una biblioteca. La notizia si trova qui: https://www.che-fare.com/dal-web/biblioteca-netturbini-ankara/ e ricorda molto da vicino quella che dovrebbe essere un’opera di fantasia e che, in una delle magie grazie alle quali la finzione romanzesca anticipa la realtà, si trova attualizzata mutatis mutandis proprio in questa storia. Il romanzo è quello di uno dei più importanti scrittori cecoslovacchi (perché quando lui viveva la nazione era ancora la Cecoslovacchia…): Boumil Hrabal. La storia – che fa parte della mia bildung, più di altri classici di formazione come l’Holden di Salinger – è a tratti commovente (o almeno: io la ricordo tale, forse dovrei rileggerla) e scopro con piacere che è un longseller, ancora pubblicato e in vendita: Una solitudine troppo rumorosa. Se vi capita leggetelo, è un bel libro, come tutto ciò che riguarda i salvataggi culturali.

2052, qualche idea sullo stato del mondo (parte 2 di 2)

Continuo, a distanza di tempo la lettura di 2052 di Jorgen Randers. La seconda parte è semplicemente una lunga citazione che merita di essere riportata per intero, sempre da questo libro. Non credo abbia bisogno di commento alcuno. La questione ecologica è certamente la più dolorosa: stiamo distruggendo letteralmente la nostra casa e il nostro habitat. Per i più scettici: se anche fossero vere la metà delle cose qui di seguito descritte, sarebbe gravissimo. L’idea di “limiti del pianeta da non valicare” è di qualche anno fa e ha tra i suoi autori Johan Rockström, direttore del Stockholm Resilience Centre, un centro di eccellenza dell’Università di Stoccolma che, appunto, si occupa di resilienza globale. Un suo vecchio articolo su Nature, questo, nel 2009 già parlava di “safe operating space” entro i quali l’umanità tutta dovrebbe stare. Quasi 10 anni fa la voce più importante era la biodiversity loss
Come racconta la dettagliata voce Wikipedia (mai tradotta nella nostra lingua, nonostante lo schema presentato fosse familiare a tutti coloro che hanno seguito il programma televisivo Scala Mercalli, di Luca Mercalli), Planetary boundaries, il tasso di perdita delle specie non prossime all’uomo è ancora elevatissimo.

La biodiversità è la diversità della vita a vari li­velli di organizzazione, dai geni alle specie, dagli ecosistemi ai biomi e ai paesaggi. Per quel che ne sappiamo, appena prima della comparsa dell’uomo moderno la terra era più biodiversa di quan­to fosse mai stata durante i 3,5 miliardi di anni di vita sul pianeta, e prima che iniziassimo a sov­vertire le cose, ospitava un totale tra i 10 e i 100 milioni di specie. Il registro dei fossili mostra che ci sono state cinque estinzioni di massa negli ultimi 400 milioni di anni, tutte dovute a cause na­turali come l’impatto di meteoriti o gigantesche eruzioni basaltiche, o magari per drastiche rior­ganizzazioni interne alle comunità biotiche. Ma la più grande e più veloce estinzione di massa sta avvenendo adesso ed è interamente dovuta alle attività economiche delle moderne società.
Stiamo assistendo a un’emorragia di specie con un tasso di estinzione nove volte superiore a quello naturale o, più prosaicamente, perdiamo ogni giorno centinaia di specie, soprattutto nelle grandi foreste tropicali, per il nostro sconfinato desiderio di legno, soia, olio di palma e manzo. Le barriere coralline e il regno marino in generale non sono esenti dalle nostre attenzioni distrutti­ve — anche loro stanno sperimentando catastro­fiche riduzioni di specie. La lista delle atrocità che la nostra cultura ha perpetrato al pianeta vi­vente è un racconto agghiacciante. Entro il 2052 potremmo aver eliminato un quarto di tutti gli organismi sulla Terra. Già nel 2000 circa l’11% di tutte le specie di uccelli, il 18% dei mammiferi, il 7% dei pesci e l’8% di tutte le piante del mon­do erano a rischio estinzione. Stando al Living Planet index, nel periodo dal 1970 al 2000 la dimensione delle popolazioni di specie forestali si è ridotta del 15%, quella delle specie di acqua dolce di uno sconvolgente 54% e quella delle specie marine del 35%. Entro il 2052, potremmo aver aumentato il tasso complessivo di estinzio­ne delle specie di circa 10.000 volte rispetto al tasso naturale di contesto.
Le cattive condizioni della biodiversità nel mon­do moderno hanno bussato alla mia porta di re­cente, quando ho portato mio figlio di nove anni in visita allo zoo locale. Ciò che vi abbiamo trova­to incarna verosimilmente quella che potrebbe essere la relazione tra gli uomini e iI resto del mondo biologico nel 2052. Una marea di esseri umani ossessionati da telefonini, macchine fo­tografiche e da una pletora di beni di consumo distruttori del pianeta, che ribollivano e sciama­vano in una folla pulsante e rumorosa intorno a piccole isole di habitat artificiali accuratamente gestiti, ognuno contenente una specie esotica o condannata all’estinzione o sotto grave stress nella sua sempre più ridotta casa nella natura selvaggia.
Nel 2052 il mondo assomiglierà a un grande zoo, solo molto peggiore, perché per allora avremmo ridotto tutti gli ecosistemi terrestri del pianeta, un tempo vasti e intoccati, a piccole isole di ha­bitat circondate da campi agro-industriali fram­mentati da strade, piloni e città in espansione. II cambiamento climatico avrà poi reso il piane­ta praticamente invivibile per la maggior parte delle specie, compresi noi, a causa degli eventi meteorologici estremi e dell’aumento del livello del mare.
I motori principali dell’estinzione di massa, entro Il 2052, saranno molto più evidenti che oggi. For­se il più importante di tutti sarà la distruzione e la frammentazione degli habitat, che credo per quell’epoca avranno rovinato tutte le aree natu­rali del pianeta e in particolare le foreste pluviali tropicali, che sopravviveranno solo come residui miserabilmente piccoli e severamente degradati all’interno di parchi nazionali e riserve.
Un altro motore cruciale dell’estinzione di massa è l’introduzione di specie esotiche, che nel 2052 potranno aver spazzato via molte più specie ri­spetto ad altre importanti cause come l’Inquina­mento, la pressione della popolazione umana e il sovrasfruttamento delle risorse. Già nel 2006, negli Stati Uniti, circa 4.000 specie di piante esotiche e 2.300 specie di animali esotici aveva­no minacciato il 42% delle specie elencate sulle liste delle specie a rischio, causando un danno di circa 138 miliardi di dollari nei settori forestale, agricolo e ittico.
Ma forse il più pericoloso di tutti i motori dell’e­stinzione di massa nel 2052 sarà il cambiamento climatico. Nel 2052 il pianeta si sarà riscaldato di 2°C e forse anche di più, con conseguenze disa­strose sia per gli uomini sia per la biodiversità. Uno degli impatti peggiori potrebbe essere il collasso irreversibile della foresta amazzonica a causa degli incendi. L’anidride carbonica rila­sciata da questi incendi potrebbe far aumentare le temperature di 10°C entro la fine del secolo, un ritmo molto più rapido rispetto a qualunque altro episodio precedente di riscaldamento glo­bale naturale.
Il cambiamento climatico spingerà le specie fuo­ri dai loro areali in cerca di nuovi habitat. Ogni specie ha un suo specifico range di tolleranza di temperatura e umidità, e già adesso le specie si stanno spostando per seguire le loro zone di comfort climatico mentre il clima cambia intor­no a loro. Uno studio del 2003 su 1.700 specie re­gistrava uno spostamento verso i poli di sei chi­lometri ogni dieci anni, e una ascesa sui versanti delle montagne di sei metri ogni dieci anni.
Stiamo potenzialmente sradicando l’intera bio­sfera con modalità senza precedenti. Gli esempi sono infiniti, come la marcia verso nord della fo­resta boreale a spese della tundra; l’espansione verso nord delle volpi rosse nel Canada Artico e il contemporaneo restringimento dell’areale della volpe artica; lo spostamento verso l’alto di 1-4 metri per decennio delle piante alpine nelle Alpi europee; la sempre maggiore abbondanza di specie di acqua tiepida tra lo zooplancton, i pesci egli invertebrati dei litorali nel Nord Atlan­tico e lungo le coste della California; e l’espansio­ne degli uccelli delle terre basse del Costa Rica dai bassi pendii delle montagne verso aree più elevate per la mutata frequenza delle nebbie umide nella stagione asciutta. Nel 2006 in Gran Bretagna e Nord America 39 specie di farfalle si erano spostate fino a zoo chilometri verso nord in 27 anni.
Entro il 2052, molte specie terrestri saranno estinte, perché il cambiamento climatico le avrà obbligate a trovarsi nuove dimore, ma le loro migrazioni forzate saranno state rese impossi­bili dalla grave frammentazione degli habitat. Nel regno marino, un numero enorme di specie adattate alle acque fredde si saranno estinte alle latitudini più elevate, lasciando piccoli spazi preziosi per le specie che dagli oceani tropicali e subtropicali stanno migrando verso i poli. L’a­cidificazione degli oceani — un risultato diretto dell’aggiunta di anidride carbonica in atmosfera — avrà spazzato via molte specie che costruisco­no parti del proprio corpo col carbonato di cal­cio, come i coralli e alghe marine coccolitoforidi. Molte di queste specie giocano un ruolo essen­ziale nella regolazione del clima, sequestrando il carbonio e seminando nuvole che raffreddano il pianeta, e la loro scomparsa riscalderà ulterior­mente la terra.
Entro il 2052 gli ecosistemi a livello globale saranno stati letteralmente fatti a pezzi dal cambiamento climatico perché la delicata sin­cronizzazione degli eventi al loro interno sarà interrotta. Le sequenze, un tempo accurata­mente ordinate, della comparsa delle foglie, dell’emersione dei bruchi, della schiusa delle uova e così via, non si incastreranno più fluida­mente come un tempo, e questi “disaccoppia­menti fenologici” porteranno a ulteriori collassi di biodiversità in alcuni ecosistemi. Poiché la biodiversità è intimamente connessa all’effica­cia delle funzioni di un ecosistema, come il ciclo dei nutrienti, la regolazione del flusso idrico e la modulazione del clima, queste perdite ren­deranno gli ecosistemi meno resilienti — ovvero molto meno in grado di tamponare i cambia­menti imposti loro dal cambiamento climatico e dalla frammentazione degli habitat. Come risultato, entro il 2052 alcune aree terrestri alle basse e medie latitudini saranno ben avviate sul percorso per diventare deserti o semideserti inospitali.
Entro il 2052 la perdita di biodiversità avrà reso la vita molto difficile per quei miliardi di perso­ne il cui benessere dipende direttamente dagli ecosistemi che le circondano. E quei privilegia­ti umani nel mondo “sviluppato” — le persone che mio figlio e lo abbiamo raggiunto allo zoo quel giorno — cosa ne sarà di loro? Soffriranno anche loro per le conseguenze del cambiamen­to climatico e la perdita di biodiversità, ma nel 2052 è possibile che la tecnologia li avrà protetti, almeno per un po’, dagli effetti peggiori. Forse per loro la prima conseguenza dell’estinzione di massa sarà un immenso impoverimento psicologico — perché gli animali selvatici, grandi e piccoli, che hanno plasmato la psiche umana con la loro straordinaria presenza fin dalle origini della nostra specie, saranno per allora diventati niente più che immagini appiattite su quegli schermi scintillanti che così fatalmente ci disconnettono dal mondo della natura.
[Jorgen Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente, 2012 – pp. 157-159]

2052, qualche idea sullo stato del mondo (parte 1 di 2)

Anche questo, 2052, è un libro. Un libro che cerca di ragionare – con tutti i limiti del caso – su quale potrà essere il nostro mondo così lontano nel tempo. Così lontano, mica tanto… Fatti i conti, nel 2052 potrei ancora essere un arzillo 82enne, anche se dubito di essere ancora vivo. Ma diciamo, da me in poi, ragionevolmente tutti i più giovani hanno, in via direttamente proporzionale, buone probabilità di esserlo.
E’ un libro che sto centellinando, perché – pur avendo voglia di leggerlo tutto d’un fiato – è un vero e proprio stillicidio di notizie poco confortanti su come sarà il mondo di domani, a partire dalla miopia gestionale della “cosa pubblica”, tanto fondamentale quanto basata sul nulla nel dibattito politico nostrano, ridotto al solito inascoltabile gossip pre-elettorale.
Il libro di Jorgen Randers – norvegese che fece parte di quel piccolo e meraviglioso gruppo di scienziati del MIT a cui negli anni ’70 del secolo scorso venne commissionato il primo studio sul “mondo che verrà” – è un libro scientificamente accurato ma molto accessibile e ovviamente fa i conti su dove stiamo andando e su cosa stiamo facendo. Scritto nel 2012 – quind qualche anno fa – sulla politica dice questo:

PREVALENZA DELLA VISIONE A BREVE TERMINE
L’effetto negativo della stagnazione sulla crescita della produttività non è un fenomeno obbligato. Può essere evitato, perlomeno nelle fasi iniziali. La redistribuzione del reddi­to e delle opportunità prima che i problemi si ingigantiscano può ridurre enormemen­te le probabilità che si verifichino instabilità sociali. Ma una redistribuzione pacifica si è verificata raramente nel passato e così sarà in futuro. Ciò perché la maggior parte delle decisioni che hanno a che fare con la società vengono influenzate dai loro effetti a bre­ve termine: la società, sia nei sistemi democratici sia nei regimi dittatoriali, è per lo più incapace di vedere i vantaggi che si manifestano sul lungo periodo. L’umanità è spudoratamente ancorata al breve termine e pertanto la redistribuzione programmata dei red­diti di rado avviene prima che i bisogni diventino critici.
Pertanto, sebbene la società potrebbe decidere di cambiare profondamente la distribu­zione dei redditi e del benessere e la composizione della propria economia, non cre­do che questo riguarderà la quantità e il tipo di energia consumata e le emissioni di gas serra. O perlomeno non alla scala necessaria, perché decisioni di questo tipo so­no associate con dei costi iniziali che rendono difficile vedere i benefici che si otter­ranno in seguito. Le persone sono spaventate da soluzioni di questo tipo. Desidera­no ottenere vantaggi da subito e accettano, a denti stretti persino di pagarne i costi in un secondo momento.
La mia assunzione, secondo cui nei processi decisionali la prospettiva a breve termine è prevalente, è una delle cose che non avrei mai osato affermare in maniera cosi risolu­ta quando ero più giovane e avevo minore esperienza. Ma 40 anni di pratica e di batta­glie per la sostenibilità mi hanno convinto che la società, e in modo particolare la socie­tà democratica, tende a scegliere la soluzione più a buon mercato, ovvero quella ove il rapporto tra benefici e costi è il più alto possibile, senza tenere conto di quali siano i co­sti sostenuti e i benefici ricevuti in un orizzonte temporale superiore ai cinque anni. Si tratta di quello che gli economisti chiamano “soluzione efficace economicamente”, cioè la soluzione che fornisce il miglior ritorno in rapporto alla spesa all’interno di una nor­male prospettiva umana, di rado estesa oltre i cinque anni. L’orizzonte temporale limi­tato è un problema serio se la società ha bisogno di investire subito per evitare mi pro­blema in un futuro distante. Il breve termine lavora attivamente contro le politiche sag­ge, e dato che la prospettiva a breve termine tende a essere maggioritaria all’interno del corpo elettorale, lo è anche nella testa dei politici.
Il breve termine domina anche nell’ambito dei mercati. Il mercato tende a sottrarre un tasso del 10% annuo, se non di più, quando compara i costi immediati con i vantaggi ottenibili nel futuro. Ciò significa che un beneficio distribuito su vent’anni verrà valu­tato un ventesimo del suo valore reale. In altre parole, un problema che si manifesterà vent’anni avanti nel futuro sarà degno di essere risolto solo se il costo della sua soluzio­ne sarà inferiore a un decimo del valore da tutelare. Non è una sorpresa per coloro che si occupano di economia: è economicamente efficiente consentire che il mondo si avvii al collasso a causa dei danni provocati dai cambiamenti climatici, dato che questi si ve­rificheranno in un arco temporale superiore ai quarant’anni. Il valore netto nel presen­te dato dalla riduzione delle emissioni e dal salvataggio del pianeta è inferiore al valore netto presente generato dal business as usual. Costa di meno spingere il mondo sull’or­lo del baratro piuttosto che tentare di salvarlo.
Nel mondo della politica non va molto meglio, data la breve durata delle cariche istitu­zionali. I politici raramente possono occupare la propria agenda per questioni, che por­tano a risultati positivi solo dopo l’elezione successiva, che in genere avviene meno di quattro anni dopo.
Pertanto, la moderna democrazia e il mercato capitalista hanno una veduta straordi­nariamente corta. Questo è un problema per un mondo che deve fronteggiare minac­ce climatiche di lungo termine, ma è un indiscutibile vantaggio per noi che lavoriamo alle previsioni. La mentalità a breve termine rende improbabili le deviazioni dalla solu­zione più economicamente efficace (ovvero quella più a buon mercato), che può essere spesso calcolata in anticipo. La caratteristica umana del pensiero a breve termine man­tiene la società su una strada relativamente angusta. Anche se spero di sbagliarmi, so­no pronto a scommettere che in futuro il mondo tenderà ancora a scegliere la soluzio­ne più economica.
Fortunatamente (per il mondo) ci sono delle eccezioni. Alcune di queste sono d risul­tato di azioni lungimiranti di leader saggi. Altre vengono imposte alla società perché c’è un nemico alla porta, o perché la crisi ha già colpito, o perché tutte le altre vie di usci­ta sono impraticabili. Ma queste eccezioni sono rare; normalmente la soluzione più a buon mercato è quella che ha la meglio. E a buon mercato significa che lo è sul breve periodo, cioè su un lasso di tempo inferiore ai cinque anni.
La prevalenza del breve termine è la ragione fondamentale perché faccio previsioni a partire dall’assunzione che l’umanità deciderà di risolvere solo una parte della questione climatica, sebbene potrebbe facilmente affrontarla nella sua totalità. E questo è il mo­tivo per cui credo che l’umanità rimanderà la messa in campo di azioni serie fino a che il danno climatico non sarà chiaramente visibile anche dalle aule parlamentari. Le ec­cezioni saranno i regimi autoritari, che sono nella condizione di non dover rispondere con frequenza alla popolazione.

[Jorgen Randers, 2052. Scenari globali per i prossimi quarant’anni, Edizioni Ambiente, 2012 – grassetti miei]

Cose che sappiamo e su cui non è necessario fare calcoli né previsioni, ma di cui spesso dimentichiamo la portata. Poco prima nel libro viene descritto un altro scenario, più strettamente legato all’ecologia, di cui parleremo nel post che seguirà questo.

Jorgen Randers

Jorgen Randers durante una delle sessioni della prima Summer Academy School del Club di Roma, a Firenze – nel settembre 2017.


 

Levi, Primo

Mi prendo il tempo per raccontare (recensire?) un regalo che mi sono fatto in queste vacanze natalizie. Si tratta di Album Primo Levi, un libro in grande formato, pubblicato da Einaudi. Una sorta di “biografia per immagini” dello scrittore piemontese che non ha bisogno di presentazioni. Il 2017 sono corsi i 30 anni dalla morte e, 10 anni fa, ricordammo a nostro modo questa ricorrenza in un libro collettaneo, di cui ebbi il piacere e l’onore di far parte: Tutti i numeri sono uguali a cinque. Da quel libro partì il tentativo di organizzare un collettivo di scrittura che, proprio sotto la stella di Levi, centauro delle due culture, tentava di declinare e coniugare scienza e letteratura, con esiti alterni (a questo link il frammento di una iniziativa – Umbria libri 2010 – cui partecipammo).
A Levi sono affezionato quindi per motivi che oserei definire “storici”: ha fatto parte della mia formazione (ma qui sono in buona compagnia); ho abitato nella sua stessa città (e anche qui posso condividere con almeno un altro milione di persone – per il mio tempo di permanenza nella capitale sabauda – questa esperienza) ma, poiché ogni autore ci “colpisce” (quando lo fa) a modo suo, il rapporto con Levi in realtà è qualcosa di inevitabilmente più intimo, legato alla mitezza d’animo di un uomo di profondissima cultura che gli eventi della vita – così ben descritti e rappresentati nel ricco apparato fotografico dell’Album – hanno condotto e fatto tornare dall’inferno concentrazionario, senza che questa pur folle esperienza lo condizionasse per il resto dell’esistenza. Egli infatti, e nell’Album ben si vede questa curiosità a tutto tondo, ebbe una vita ricca sotto moltissimi profili: quello lavorativo, in quella accezione tutta positiva del lavoro come formazione e costruzione del sé, che ben è rappresentata ne La chiave a stella; quello intellettuale, anche qui spaziando magistralmente tra letteratura, memorialistica, scienza e fantascienza; quello affettivo – la fortuna di ritrovare alla fine della guerra tutti i suoi familiari più prossimi vivi e in buona salute e l’aver creato una famiglia; quello di curiosi “punti fissi”, come il non aver mai cambiato casa in vita sua.
E così sfogliando e leggendo l’Album si scoprono i molti lati di questa vita: le amicizie importanti, la Torino città operaia, ma anche delle case editrici, viva in quei personaggi quasi leggendari che la Einaudi – ma non solo – seppe raccogliere intorno a sé. Una Torino che riconosco, che mi appartiene e a cui forse un po’ appartengo almeno nei luoghi che, pur in un’altra vita, pure io ho vissuto.
Insomma: un bel tuffo nella vita di Levi, del suo tempo. Da leggere e sfogliare ora, con calma, in quel tempo ancora un po’ sospeso della pausa natalizia, prima che tutto e tutti si ricominci a correre.
Infine il piacere di ritrovare il nome di Roberta Mori nella curatela del volume: le nostre vite si incrociarono brevemente dieci o undici anni fa, quando insieme ci rtrovammo per un corso di editoria, proprio a Torino. Normalista e con tutte le carte in regola per dare prova di sé, era, come me, alla ricerca di un lavoro in quel periodo. La trovo con grande gioia su questo bel volume ricordandola persona mite e decisa. Chissà, forse una assonanza e sensibilità necessarie ad accostarsi col giusto tatto a Primo Levi.