Ancora su Dante e la Commedia

Vittorio Sermonti

Vittorio Sermonti (1929-2016)

Torno, ancora una volta (anche su questo blog ne ho scritto qui e qui in tempi recenti, sul blog della Società di Chimica Italiana, qui) su Dante, su quell’immenso libro che è la Commedia e sulla meritoria opera di Vittorio Sermonti che me lo sta facendo apprezzare. La Commedia è una specie di “maratona” (se si pensa che sono 100 canti e non tutte le sere li si ascolta e guarda, sono tre mesi e mezzo, diciamo quattro…) e con quel passo, che ci consente di assaporarla, va presa. Questa volta però non sono considerazioni mie, ma dello stesso Sermonti, a cui lascio autorevolissima voce, in questo brano che segue, nel quale condensa, in poco più di un paragrafo, ciò che la Commedia è e ciò che la Commedia significa (o dovrebbe significare) per noi italiani.

Questa «summa tonale», in cui è dettato il libro [la Divina Commedia] che stiamo leggendo, costituisce — ricordiamolo — un inesauribile scandalo linguistico. Lingua della conoscenza e del canto, lingua impura, erudita e popolare insieme, che presta identica misura d’attenzione alle geometrie musicali delle sfere celesti e ai congegni di un orologio meccanico, alla precipitosa circospezione d’un ramarro che traversa la strada e ai languori del desiderio, al sorriso furtivo di una dama e alla corruzione della Chiesa militante, alle tecniche del peculato e al computo degli angeli, alle trappole del rimpianto e alle architetture della luce, alla libertà morale, alle malattie della pelle, ai nomi dell’acqua, alla circolazione monetaria, al disegno volubile d’un volo d’uccelli contro il crepuscolo e alla solitudine di Dio… questa scandalosissima lingua senza registro – non sarà male ricordarlo di tanto in tanto – costituisce per noi poveri italiani d’oggi, ridotti a importare quasi tutto (tecnologie, modelli di vita, sogni e bisogni), un prezioso blasone d’identità. Perché proprio in questa lingua ibrida, dotta e domestica, che convoglia nel fiorentino del Due-Trecento la tessitura d’intonazioni e l’energia vocale delle cento parlate della penisola a una quota suprema di pensiero e di pronunciamento poetico, si è fondata sette secoli fa, e continua concretamente a fondarsi l’unità spirituale di una nazione chiamata Italia. Finché nella penisola comunicheremo pensieri alti e complessi, percezioni impalpabili, emozioni forti e semplici nella lingua battesimale della Commedia, temo che dovremo rassegnarci all’umile e scomodo destino di essere italiani.
Può bastare così? Io dico che può bastare.

Vittorio Sermonti, Il Purgatorio di Dante, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano, 2015, pp. 453-454.

Uomini senza ombra (e angeli che invece la proiettano)

Non so se nessuno abbia scritto mai un libro o una sceneggiatura in cui il protagonista, magari svegliandosi, scopre di essere morto, di essere passato in un altro regno – che solo la nostra scarsa fantasia, apostroferebbe Nietzsche, vorrebbe in tutto simile al mondo terreno nel quale viviamo – semplicemente accorgendosi di non proiettare più alcuna ombra.

Il fatto che tale mondo ultraterreno sia in tutto simile a quello che abbiamo lasciato, acutizza però il senso di straniamento: nulla è diverso tranne questo piccolo, quasi insignificante, dettaglio: il nostro corpo non produce ombra perché la luce solare – sarà a questo punto lo stesso astro che illumina il nostro pianeta, ci chiederemmo piuttosto lecitamente – non si frange contro la materia di cui siamo composti.

Non so se nessuno lo abbia fatto, ma lo ritengo molto probabile, giacché quel libro immenso che è la Commedia dantesca, tra gli infiniti spunti che offre, ci dà anche questo. Siamo nel Purgatorio e, al secondo canto di questa seconda cantica, il nostro poeta-pellegrino (come è battezzato da Vittorio Sermonti e forse prima di lui – o con lui – da Gianfranco Contini) incontra un vecchio amico (della cui biografia reale nulla sappiamo), Casella. Dopo la traversata infernale – il mondo infero si caratterizza, tra l’altro, per una delle deprivazioni tanto banali quanto fondamentali: quella dell’assenza di luce naturale, che permette al nostro ritmo circadiano di funzionare – e l’uscita “a riveder le stelle” conduce i due pellegrini, Dante e Virgilio, a quel “mondo di mezzo”, il Purgatorio, recente “scoperta” consacrata dal poema. Ma mentre in tutta la prima cantica, pur con tutte le interazioni tra i due protagonisti del viaggio e i personaggi – siano essi anime dannate, siano essi creature infere – che popolano quel regno, non c’è quasi stata interazione fisica (soprattutto con i dannati), ma solo dialoghi tenuti a debita distanza, qui, per la prima volta, Casella si fa incontro a Dante con le braccia aperte (immaginiamo) come segno di un abbraccio; Dante di riflesso tenta di abbracciarlo, ma “tre volte le mani dietro a lei [“l’ologramma” di Casella ci verrebbe da dire in termini moderni] avvinsi, / e tante mi tornai con esse al petto”. Ne segue un momento di imbarazzo che ci mostra tutta la potente e stupefacente “magia divina” di questo poema, lasciando a tutti noi il segno del mistero divino (uno dei tanti): Virgilio, guida di Dante, fatto della stessa incorporea materia, nell’Inferno in più di un’occasione abbraccia Dante e in almeno un’altra lo stringe a sé spiccando un salto (volando?) per salvarlo da un pericolo imminente. Quindi le regole cambiano e l’interazione tra materia e non-materia pure. Mistero che lasciamo tale e accettiamo come tale.

In altre occasioni, all’Inferno, lo statuto di Dante veniva riconosciuto come diverso dalle anime dannate e il dettaglio non era tanto l’ombra, difficile da proiettare data la scarsa illuminazione, quanto il respiro: i dannati e le creature deputate al buon funzionamento del regime carcerario di questo regno dannato avevano un moto di sorpresa perché vedevano Dante respirare. Qui è la luce che rivela il poeta-pellegrino essere anima incarnata. Così nel terzo canto un episodio acutizza la sua diversa ontologia, facendogli credere, per un attimo, d’essere rimasto solo sulla costa iniziale di quel monte Purgatorio:

Ma la luce fiammante del sole, che ha appena svelato la montagna frangendovisi contro, subito denuncia al pellegrino la singolarità della sua condizione fisica: investendolo da dietro, la luce si rompe davanti alla sua figura per l’ostacolo (l’appoggio) che quella le interpone. E nel vedersi ai piedi un’unica sagoma d’ombra, Dante si rivolge a lato spaurito: fosse rimasto solo…*

Ovviamente così non è: Virgilio lo rincuora ricordandogli, con una vena di tristezza (che non spigheremo qui), le differenze tra lui e loro, anime trapassate, e il viaggio prosegue.

Dovremmo aspettare più o meno 175 anni per vedere – in una tela famosissima – un rovesciamento della prospettiva: l’annuncio dell’arcangelo Gabriele a Maria è ambientato nel giardino di un elegante palazzo rinascimentale. L’angelo è creatura concreta che proietta l’ombra sul prato, provviste di ali robuste e realistiche perché l’autore aveva studiato il volo degli uccelli e quell’autore è Leonardo Da Vinci.

annunciazione di Leonardo Da Vinci

Leonardo Da Vinci: Annunciazione (1472-1475 circa), olio su tavola. Galleria degli Uffizi, Firenze

* Vittorio Sermonti, Il Purgatorio di Dante, Rizzoli, Milano, 2015.

Dante reloaded

Caronte in una illustrazione di Gustave Doré (da Wikipedia, alla voce “Divina Commedia”)


Ho fatto una scuola tecnica. L’Istituto Tecnico Industriale Statale, specializzazione: Elettronica Industriale. Una lezione appresa presto è che la vita (almeno nel caso mio) è sempre più ricca, diversa, sfaccettata di quanto, immaginando se stessi nel futuro, si sia disposti a credere. Forse è “fisiologico” che sia così: soprattutto in “tenera età” (quando si è ragazzi, poi adolescenti, poi maturi) si è portati a pensare – forse per economia cognitiva – che la nostra vita seguirà un percorso tutto sommato lineare e questo a partire dalla vita scolastica: si fa una certa scuola, si pensa che quella scuola ci “spalanchi” (???) le porte di un (buon) lavoro, magari interessante, non noioso e ben retribuito o, in alternativa, le porte dell’università, per arrivare a un altro lavoro sempre buono, interessante, non noioso e ben retribuito (meglio del precedente, visto il supplemento di anni di studio che ci abbiamo messo per laurearci e poi magari ulteriormente specializzarci).
Non voglio entrare nella acrimoniosa polemica che vede molti di noi (un noi plurale che identifica tutti coloro con i quali condivido questa sorte) sostanzialmente frustrati per essere “sottoinquadrati” dopo averne fatte mille e una (almeno nel mio caso). Voglio mettere da parte, per maggiore serenità mia e degli eventuali lettori, questa triste faccenda – che mi pare, ancora una volta, sia molto molto italica – per parlare di Dante Alighieri. Proprio lui. Ci arriverò.
Dicevo: e invece… invece già al terzo anno delle scuole superiori le carte in tavola cambiano perché ho la ventura di incrociare un professore di Italiano e Storia che, nonostante le sue due materie avessere la ben misera quota di 5 ore la settimana (contro le 18 – cumulate – di Elettronica Generale ed Elettronica Industriale), aveva dedicato parte del suo tempo con noi alla Lectura Dantis e al commento della Comedia.
Non voglio parlare di questo professore: un miserrimo post in un blog semiabbandonato non gli renderebbe giustizia. Qualcosa ho scritto sul libro che ho deciso (come editore) di pubblicare sulla sua storia, raccontata magistralmente da Luca Soldati, il genero, qui.
L’incontro fu decisivo per le scelte che compii in futuro (nella mia formazione, nella vita), collocandomi sempre un po’ nel mezzo a (e oscillando tra) i due poli: quello scientifico e quello umanistico. Se il paragone non suonasse blasfemo mi definirei un “centauro”, così come fu definito Primo Levi (non ricordo più da chi): un essere che sta a metà tra le due culture, eternamente indeciso se debba prevalere l’una o l’altra o se, più semplicemente, esse si debbano compendiare. Ma, tornando a Dante, a scuola, in una scuola tecnica che sta tra Carrara e la sua marina, a metà degli anni ’80 del secolo scorso, un professore con alterni successi, tentava di comunicarci non tanto i contenuti, ma la passione verso l’Alighieri e il suo poema allegorico-didascalico (come viene definito).
Bene, ancora una volta il semino era stato gettato e dimenticato: la vita – nel suo turbinìo di impegni, di “cose da fare” (più o meno belle e interessanti), di cose idiote e inutili, della cui inutilità e idiozia sappiamo sempre dopo –  è continuata fino a farmi arrivare qui.
Delle letture dantesche conoscevo quelle arci note (perché televisive e mediaticamente appariscenti) di Roberto Benigni, pur sapendo che Vittorio Sermonti “in tempi non sospetti” ne aveva fatte di molto più puntuali e complete per la RAI. Non mi ero posto il problema, fino a quando il collega Luca Pardi non mi disse di stare ascoltandole – quelle di Sermonti – nei pendolareschi viaggi in treno (poi si dice il treno… basta sapere sfruttare adeguatamente anche quello e il gioco è fatto) che da casa lo portano quasi quotidianamente qui a Pisa (e ritorno).
Sollecitato in tal senso ho acquistato gli audiolibri con le sue letture per (ri)scoprire un mondo. L’aria professorale (in senso buono) di Sermonti, il suo aver trovato il “taglio giusto” per un utente di cultura media, quale io o molti di noi possono essere, che ha avuto sentore o cognizione di queste cose in gioventù ma che il tempo ha cancellato o reso dormienti, beh sono state armi vincenti. L’affabulazione è efficace – con uno schema che prevede una registrazione preparatoria al canto che verrà letto e poi una seconda registrazione che di fatto è lettura del canto – e il “livello” di attestazione idem: sulla Comedia, nei 700 anni che ci separano da quando fu scritta, si sono compilati tali e tanti volumi che intere biblioteche non basterebbero, quindi l’impresa di rendere – nel tempo limitato del commento e della lettura – ciò che è necessario a una sua esegesi pur minima è davvero ben misurato (e a sua volta capace di incuriosire e ancora approfondire per chi ne avesse la voglia e il tempo).
Altro pregio è rivedere in Sermonti quella “guida” (alla lettura, per noi uomini del XXI secolo) che Virgilio fu per lo stesso Dante: il professore è (stato) capace di attualizzare, in più di una occasione, i temi, le situazioni, le categorie, le allegorie che, nello svolgersi ideale di quel viaggio ultraterreno, connotano – almeno all’Inferno – le nostre stesse vite. Da qui, anche solo per accenni, l’intuizione di un’opera che mostra la sua eternità (un conto è dire – magari sterilmente e con frase fatta – che un’opera è immortale, altro conto è mostrarlo con esempi che ci riportano al presente).
Le scene infernali (ancora lì mi trovo) sono degne di un immaginario che, pure nei miei modesti riferimenti artistici, trova (per me) un corrispettivo nelle opere di Hieronymus Bosch che pure, però, arriverà a dipingere le sue tele solo oltre un secolo e mezzo dopo. L’Inferno è, per la sua “puntigliosa giustizia divina”, veterotestamentario; il contrappasso, nelle sue diverse tassonomie, implacabile.
Insomma, bravissimo Dante e bravo il suo moderno commentatore!