Lemmy Kilmister batte Primo Levi 160 a 3

Tempo fa aderii a una petizione – una volta tanto non per abolire qualcosa, mostrare indignazione verso qualcos’altro, prendere posizione digitando sulla mia bella tastiera per virtualizzare la mia volontà e quindi renderla nulla nei fatti. Una petizione per titolare a Primo Levi un elemento chimico tra quelli scoperti di recente.
La IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry) ha aperto delle consultazioni pubbliche e alla fine di novembre ha annunciato “i vincitori” (a questo link il comunicato) e, puntualmente, il blog della Società di Chimica Italiana ne ha dato riscontro (qui).

Al di là dei risultati l’aspetto che mostra in tutta la sua evidenza numerica quanto la scienza conti poco o nulla nella nostra società è il fatto che la commissione giudicatrice ha ricevuto una petizione per titolare uno degli elementi a tal Lemmy Kilmister, un galantuomo morto lo scorso anno che ha avuto l’indiscusso merito di fondare (e guidare) il gruppo rock heavy metal Motörhead.

Per Levi – dobbiamo ricordare chi è Primo Levi? Uno dei pochi miti della mia gioventù a resistere saldo al comando e una delle poche persone la cui lettura ancora mi commuove? – siamo arrivati a stento alle tremila firme, mentre questo signore ne ha prese 160mila, ovvero oltre 53 volte tanto.
Fortuna vuole che tra i criteri di scenta non ci sia quello “democratico” del numero di firme (il che, per altro, mette in luce anche il limite tutto intrinseco della democrazia, in senso generale…), altrimenti saremmo stati spacciati e ci saremmo tenuti – per la felicità di un ristrettissimo sottoinsieme che interseca quello dei chimici (teorici e non) e quello degli amanti dell’hard rock heavy metal [1] – un elemento che, con tutta probabilità, si sarebbe chiamato kilmisterio…
Per rievocare (e riadattare) una celebre frase: “E’ lo zeitgeist bellezza! E tu non ci puoi fare niente”.
[1] ristrettissimo ma composto da almeno una persona di mia conoscenza…

Lemmy Kilmister

Lemmy Kilmister

Da "Into the Wild" a "Captain Fantastic"

Ieri sera sono andato al cinema a vedere Captain Fantastic, un film interessante che ripropone un tema antico almeno quanto l’Uomo: quello del pendolo tra “Natura” e “Cultura” lungo cui oscilla la nostra specie, la cui eco maggiore ci arriva, in tempi moderni, con il mito del buon selvaggio di Rousseau. Il film in realtà è più complesso di così, ma avrò occasione di ritornare sulla questione.
Un altro film, ormai di qualche anno fa, che mi impressionò abbastanza – anche perché tratto da una storia realmente accaduta – fu Into the Wild, che per certi aspetti, arriva da una situazione diametralmente opposta. In quest’ultimo film il protagonista, un giovane, decide di abbandonare la civiltà e provare “a cavarsela” da solo, per altro in regioni remote e fredde, ai confini con l’Alaska. Morirà di inedia e di malattia, incapace di cacciare e – quand’anche ha successo – incapace  di trattare (macellare, conservare) la carne dell’animale che ha ucciso.
In Captain Fantastic la scena con cui la pellicola si apre è invece proprio questa: non solo il successo nella caccia che vede riproporsi la consacrazione rituale del passaggio da giovane del clan/piccola tribù (in realtà: popoloso nucleo familiare) a uomo, ma un sistema ben congeniato dal capo clan – il padre – che vede tutti gli elementi della famiglia coinvolti in un certo numero di attività giornaliere che vanno dal continuo allenamento nel “cavarsela” appunto (in quella sconfinata palestra che è la Natura intorno a loro) al farsi una cultura, rigorosamente da autodidatta. E questo è invece il secondo – e forse alla fine più importante – punto critico del film: alla base della fuga qui c’è il rifiuto della società occidentale (americana) e delle sue regole così per com’è strutturata (consumista), compresi gli aspetti culturali: il giovane che nella scena iniziale diventa uomo uccidendo l’animale è lo stesso giovane che, tentate le prove di accesso alle migliori università statunitensi, le passa in diverse di queste e non avrebbe che l’imbarazzo della scelta (e, in un sistema come quello statunitense, il quasi garantito accesso all’establishment che governa il paese) ma rinuncerà a tutto questo, in favore della libertà. Pensieri che, almeno personalmente, non mi sono estranei, avendo avuto almeno un professore alle scuole superiori che aveva un suo personale concetto del superuomo a cui l’allenamento (e l’isolamento) di questa famiglia nel film sembra tendere.
Tornando alla linea generale del film, la dinamica è dunque in realtà opposta: non la fuga dalla civiltà, ma un forzato ritorno ad essa a causa di un lutto: la morte della madre, suicida forse per l’eccesso che questa vita “senza compromessi” richiedeva. Il nodo non viene mai sciolto nel film: il padre/capo clan viene ovviamente accusato di essere l’artefice della morte della donna, da lui trascinata in questa “vita da buon selvaggio”; questi si difende dicendo che l’ha fatto in buona fede, sperando e pensando che questo “ritorno alla natura” giovasse in realtà alla sua fragile psiche. Sono quindi costretti a tornare dai parenti e il nodo focale del film è centrato su questo “scontro di civiltà”: i ragazzi sono di fatto dei disadattati se visti con gli occhi della società con cui entrano in contatto; sono invece dei piccoli übermenschen se visti con gli occhi dello spettatore: capaci di cavarsela “senza società” (quindi senza supermercati) e con una cultura di gran lunga superiore ai loro coetanei.
Dopo il trauma la via sarà “nel mezzo”. Il film si chiude con la soluzione di compromesso: l’abbandono della foresta per tornare a una vita rurale, ma integrata in un consesso civile, magari al margine, ma come passaggio obbligato a evitare le recriminazioni tipiche degli adolescenti che non vogliono essere dei disadattati ma, ambiscono a essere “come gli altri” e solo quando forse sarà tardi si accorgeranno che sarebbe stato meglio essere diversi dagli altri.
Insomma: film che tocca i temi propri – mi permetto un siparietto pubblicitario – della collana editoriale che stiamo inaugurando: Apocalottimismo.

Trailer ufficiale, Copyrighted, fonte Wikipedia


 

In vespa (elettrica). Da Pisa a Trento*

Ho immaginato di guidare una vespa elettrica, per colpa di questo articolo. Di salire a bordo di un futuro fatto di silenzio, fatto di oggetti che non vanno “accesi”.
Accendere.
Un termine che ha una contiguità di significato con bruciare. La legna, quando ancora eravamo uomini delle caverne e il fuoco era una specie di divinità; combustibili fossili oggi, per tenebre ormai ben più metafisiche che reali.
Quanto Freud c’è in questa storia! Quanta metafora sessuale, spesso anche oscena e pornografica come lo è lo zeitgeist nel quale viviamo: drill baby drill!, per usare terminologia da esperti d’oltreoceano. Perforare, trapanare la terra per i combustibili, per tunnel TAV dai quali far entrare e uscire, entrare e uscire… treni ad alta velocità senza nessun godimento. Falloforia, fallocrazia.
Se non vogliamo morire tutti soffocati dobbiamo smetterla di bruciare – o bruciare il meno possibile – combustibili fossili e smetterla di fare buchi per sbancare rocce amiantifere o contenenti uranio. I treni possono passare altrove, dove e come già fanno, senza la fretta imposta dal TAV, senza la fretta imposta dal mondo, un mondo che abbiamo costruito sulla potenza, sulla prestazione, sul “delta t”, l’intervallo di tempo. Se non serve sollevare un ponte da un sacco di tonnellate in un tempo rapido, ma ci si può mettere 10 minuti, si possono usare motori dalla potenza ridicola. La scienza – che è semplice fisica del primo anno di liceo – applicata ci suggerisce che sarebbe meglio rallentassimo. Per goderci il paesaggio dell’Appennino, magari valicando il Passo dell’Abetone su quel miracolo dimenticato di viabilità che sono le strade statali, come la numero 12 “del Brennero” che da casa mia, a Pisa, arriva a Trento (e al Brennero) appunto, passando per boschi meravigliosi. Magari su una vespa. Elettrica stavolta.
* Titolo la cui assonanza – ai più attenti non sarà sfuggito – richiama il celebre racconto di viaggio di Giorgio Bettinelli: In vespa. Da Roma a Saigon, Feltrinelli, (ultima edizione) 2014, Milano.

La vespa elettrica, a EICMA 2016

La vespa elettrica, a EICMA 2016

Cinema e cambiamento climatico

Uno degli aspetti di cui si tiene (ancora) poco conto in questa storia del cambiamento climatico che ci riguarda tutti, sono i soldi spesi per le produzioni cinematografiche.
Qualche giorno fa ho visto il film-documentario di Leonardo Di Caprio Before the flood (a questo link la versione originale su YouTube, a questo quella in italiano e a quest’altro il sito internet) sul cambiamento climatico. La regia si intreccia come tempi alla realizzazione del suo ultimo film Revenant di cui le scene finali – e quindi tutta la produzione – sono state girate dal lato opposto del continente americano proprio perché non si riusciva a trovare un posto dove nevicasse. Ora: rispetto ad altre spese sicuramente stiamo parlando di spiccioli, ma proviamo a immaginare quanto possa costare “traslocare” una intera produzione hollywoodiana da un capo all’altro di un continente per fare delle riprese. Per quanto con i computer ormai si faccia (quasi) tutto, probabilmente di certe cose ancora non si può proprio fare a meno.
Ieri sera ho poi finito una (breve) serie su Netflix, con la scusa di tenere viva almeno la parte “passiva” (ascolto) della lingua inglese (in realtà statunitense). Ho visto Stranger Things che, devo dire, mi ha catturato molto per le atmosfere – ma evidentemente non lo ha fatto solo con me. Leggendo quindi le recensioni ex post e com’è nata la storia, anche qui scopro che per le scene finali della prima stagione è stato necessario importare 20 tonnellate di ghiaccio dalla Florida (che per altro, se non ricordo troppo male la geografia, non è esattamente vicino all’Alaska), come dice alla fine questo articolo. Per il cinema e l’intrattenimento – che sono macchine da soldi – questo e altro, ma se si pensano costi analoghi per altre produzioni (e quante nel mondo?), i soldi che si spendono per questo “dettaglio” cominciano a essere molti…
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Pensieri sulla fine del tempo

Per tempo intendo quello individuale. Insomma: la morte. Quasi sempre un tabù di cui non parlare. Ricordo il funerale di un conoscente (il fratello di un mio carissimo amico) qualche anno fa, morto suicida. Tra l’incrudilità, il dolore, la costernazione generale lo accompagnammo in una funzione scarna, e se non ricordo troppo male, laica, a una sorta di luogo di raccoglimento – mi verrebbe da dire “cappella”, ma il rimando a una funzione religiosa che mi pare non ci fu – in cui stemmo, in silenzio, a fronteggiare la bara che da lì sarebbe partita direttamente verso il forno crematorio.
C’era della musica di sottofondo. Forse un po’ insulsa, di sicuro non scelta da nessuno. Di circostanza.
Colui che scandiva i tempi di questo saluto (chi era? Quello delle pompe funebri? Non ricordo…), interrompendo musica e silenzio degli astanti, chiese se qualcuno volesse dire qualcosa, un’ultima cosa per il defunto. Un ultimo messaggio.
Ma forse alla musica – a una musica scelta – dovrebbe essere affidato un ultimo messaggio, pensavo stasera mentre ascoltavo un vecchio lavoro (2000, 16 anni fa) di un gruppo sconosciuto ai più, statunitense, che fa rock misto a quel curioso genere definito “indie”, che nella mia personale – e forse un po’ grezza, credo – tassonomia non ho mai capito bene cosa volesse dire.
Me li fece scoprire un amico (eccola lì la potenza della musica!) che andai a trovare nell’agosto del 2007 a Berlino. Una pazza corsa agostana, dalla Toscana del nord fino a lì, con le soste minime per cercare di non essere raggiunto da quel me stesso da cui volevo fuggire, gli ultimi 400 km a oltre 200 all’ora di media, in scia a un’indigeno che guidava benissimo su autobahn a 4, a tratti a 5 corsie. Sogno di libertà solipsistica, individuale e fuga, appunto. Frutto di ingannevole pubblicità a cui si viene sottoposti fin dalle più tenere età, per intere generazioni, le nostre, quelle che mi hanno preceduto e quelle che mi stanno seguendo.
Atti finali di una prima vita che da lì a poco si sarebbe conclusa. E riascoltando in un attimo di pausa, sdraiato al buio sul letto, ripensavo a quel frangente così strano della mia vita, in cui sono stato così in balìa di altri, dei miei sentimenti, del mondo, di avversità che non ho saputo fronteggiare e che portarono a una catastrofe. Eppure loro sono ancora lì, rivitalizzati grazie a Spotify (quando si dice la tecnologia!), che suonano per me ogni volta che voglio, in cambio di qualche bit di connessione ceduto alla compagnia telefonica – ma acquistato con largo anticipo e sempre abbondante – connessione permettendo.
Allora forse mi piacerebbe, in un testamento ideale mai stilato (chi lo ha fatto?), una cerimonia dello stesso tenore: scarna, laica, con gli astanti che ascoltino un paio di cose e pensino che quella è la musica che ho scelto per l’ultimo saluto:

  • Protest, in Philip Glass “Songs from the trilogy”
  • Evening Song, in Philip Glass “Songs from the trilogy” (queste due in questa sequenza e di seguito)
  • This day next year, in Karate “Unsolved” (anche solo la lunga parte finale di chitarra e batteria).

Volevo metterci anche qualche pezzo dei brandeburghesi di Bach, ma viene una cosa troppo lunga. Alla fine si tratta di un saluto. Vorrei che ci lasciassimo così.
Così che i presenti, se lo vogliono, si possano portare a casa – e forse nel cuore – quei pezzi e che quelle note possano essere il messaggio da ascoltare, magari una sera che si è stanchi, che si ha bisogno di staccare una mezz’ora, al buio, sdraiati sul letto o su un divano, con le cuffie o anche senza. Sì, quando accadrà, lasciamoci così. Sarebbe un bel regalo.
karate-unsolved

Veloce come il vento

Parto da una confessione: ho (anche) passioni banali. Per quanti io speri che questo non faccia di me una persona banale, confesso che ho sempre avuto un debole per le auto e per la velocità (ma chi mi conosce lo sa). Mi si dirà: beh, sei in buona compagnia (anche di tanti coglioni, che si incontrano quotidianamente sulle strade, a dire il vero…). Da bambino disegnavo auto e passavo ore a svuotare un pesante fustino del “Dixan” pieno di modellini di auto – modellini che ai miei tempi erano di metallo – che disponevo diligentemente sul tavolino del soggiorno, sui cui, di volta in volta, immaginavo intere città fatte di auto: esattamente come lo sono le nostre adesso.
Ho regolarmente frequentato il salone dell’auto di Torino per anni come un appuntamento atteso. Conservo ancora da qualche parte i cataloghi pubblicitari dei modelli che mi piacevano. Arriva un momento in cui è necessario prendere atto di tutta questa sedimentazione poco importante per il resto del mondo, ma forse utile a capire, per me, come mai un film come Veloce come il vento mi abbia preso così tanto.
Già a suo tempo mi prese Rush, film poco distribuito e forse “di cassetta”, il cui protagonista è Niki Lauda, altro mito dei tempi in cui ero un ragazzino. Ma era una storia più “standard”, la vicenda umana di un campione che campione lo è stato davvero, in un tempo in cui la sicurezza sui circuiti era un optional e talvolta uscire di pista significava morire. Insomma, in quel film gli ingredienti del pilota che è un temerario che è anche un moderno gladiatore c’erano tutti e quindi il frame narrativo era dei più consolidati, con tutto il rispetto per la storia, pur interessante, che di Lauda – campione antipatico quasi come l’altro “crucco”, Schumacher – si racconta.
Qui invece è diverso. La storia è quella di persone di talento, ma comuni, impegnate, come direbbe Vasco Rossi con una felice espressione “a rincorrere i propri guai”. La sinossi della storia, pur semplice, rivela una famiglia disgregata e dai complessi rapporti umani, dove Loris De Martino (Stefano Accorsi) è un ex pilota di rally che ha dimostrato di sapere il fatto suo in passato, con un’auto che è entrata nel mito: la Peugeot 205 turbo 16 Evo. Auto costruita in un tempo in cui per sperimentare valeva tutto e non c’erano regole, così che da pilota ti trovavi a guidare (SENZA controlli elettronici) oggetti dal peso di 900-1000 kg e una potenza di 500-700 cavalli.
Loris però si è, nel frattempo, perso tra i fumi delle droghe e vive qua e là con una compagna tossica come lui, dentro una roulotte. E Accorsi – che purtroppo associo ai film tutto sommato piatti degli anni appena posteriori al 2000 (Le fate ignoranti, L’ultimo bacio, La stanza del figlio), e se non “piatti” comunque “ombelicali” – spicca in questo ruolo di Loris, dimostrando il talento che altrove aveva già mostrato, guarda caso, in un altro ruolo in cui la droga, ancora sconosciuta nella provincia italiana, avrà su di lui un esito fatale: Radiofreccia.
Incredibile invece la protagonista femminile, la sorella giovane di Loris, Giulia De Martino (Matilda De Angelis), una ventenne nella vita – e diciassettenne nel film – che mostra un carattere formidabile nel film e… fuori, quando candidamente in una intervista , dice di aver preso la patente da due mesi e quindi le “veniva difficile” anche entrare in un ruolo come quello: Giulia è una ragazzina che la guida ce l’ha da sempre nel sangue. Dico: ma se ti veniva facile vincevi l’Oscar direttamente!
Insomma è stata (secondo me) bravissima, perché credo non sia facile capire una passione come quella per i motori per chi quella passione non ce l’ha. E scopro che è anche la cantante di una delle canzoni che ha fatto da colonna sonora al film, questa. Quindi: brava due volte.
Last but not least, il regista, Matteo Rovere, un altro giovanissimo, praticamente all’esordio, che ha saputo creare, come dice Accorsi in una intervista, quell’alchimia necessaria al “buon funzionamento” del film, senza tralasciare camei di “correttezza filologica”, come quando Tonino, il fedele meccanico che, pur nell’ombra, fa un po’ da padre a questi ragazzi, dice a Loris che la Turbo 16 “tira” un po’ a destra (e lo fa per un motivo ben preciso, spiegato nel terzo paragrafo qui).
Insomma: bravi tutti, per un film che mi ha emozionato, come da tempo non accadeva.
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Perché voterò sì al referendum del 17 aprile (17 motivi, ma ce ne sarebbero altri…)

    1. Perché andare a votare è un diritto/dovere sacrosanto, necessario a esercitare una sovranità che nei fatti ci è stata tolta (e questo, come il punto successivo, prescinde dal sì e dal no);
    2. perché è necessario tornare a impossessarsi di questo prezioso strumento di decisione che è stato delegittimato nel corso del tempo (ricordate il referendum sull’acqua pubblica?);
    3. perché queste cose le sto studiando per il mio dottorato e la voce è concorde e unanime: così non si va da nessuna parte;
    4. perché l’impianto che vogliono mettere in piedi sfrutta un giacimento che copre una fetta minima del fabbisogno energetico nazionale (stimata intorno all’1-2% su un arco di una decina d’anni, ne ho scritto qui);
    5. perché siamo sul lato discendente del picco del petrolio e quello che ci rimane sarebbe bene che lo usassimo per creare le infrastrutture che muoveranno il mondo domani – qualunque esse siano e, per quel che ho capito fino ad ora, la soluzione sarà “ibrida” e sarà la somma di tutte quelle ad oggi disponibili (solare, eolico, geotermico e l’idroelettrico già esistente). Un mondo che, ci piaccia o meno, sarà abbastanza diverso da quello attuale;
    6. perché siamo sempre di più e per questo dovremmo consumare sempre meno (e rinunciare a quell’1-2% offerto dai nuovi impianti sarebbe una bella “prova generale” di questa inversione di tendenza);
    7. perché il vero petrolio dell’Italia è il turismo. E di Ombrina mare, dove non sono mai stato, ho visto foto bellissime e magari un giorno ci vorrò andare in vacanza (e forse potrebbe essere una meta di vacanza per molti di noi);
    8. perché comincio ad avere una discreta esperienza e conoscenza dei “no” italiani (a partire dallo storico movimento No Tav valsusino), costituiti pressoché invariabilmente da persone per bene, che conoscono e amano il proprio territorio;
    9. perché il bene comune è ora che cominci davvero a essere il bene di tutti e non solo di qualcuno che ha intenzione di specularci sopra;
    10. perché è ora di finirla con la sindome Nimby non solo per ciò che riguarda lo spazio (“my backyard”, appunto), ma anche per quel che riguarda il tempo. Un tempo in cui ci si limita al presente a partire dagli investimenti, e dove “progettare il futuro” è diventato poco più di uno slogan legato o alla propaganda o alla tecnologia (spesso a entrambe). Ciò che riguarda i beni comuni riguarda tutti noi, in un modo o nell’altro, e tutti dovremmo avere interesse a difenderli, ovunque essi siano. E’ uno mondo tutto attaccato e tutto si ripercuote su tutto;
    11. perché nelle mie peregrinazioni di ricerca mi è capitato sottomano un articolo – che io non conoscevo perché sono un ignorante, ma tra gli ecologi è molto famoso – di Garrett Hardin, The Tragedy of the Commons, pubblicato sulla rivista “Science”, liberamente scaricabile a questo link, con un inquadramento sommario in italiano a questo link. Leggetelo e pensate che è stato scritto nel 1968;
    12. perché l’altra sera a Trento ho assistito a una conferenza a due voci in Comune su questo tema: da un lato Claudio Della Volpe (mio tutor di dottorato) e dall’altro Roberta Radich, membro del coordinamento a favore del referendum (e del sì). Da un lato i motivi ambientali spiegati molto chiaramente da Claudio e dall’altro l’aspetto più politico-istituzionale, mi sono sembrati inoppugnabili;
    13. perché quand’ero ragazzo facevo pensieri strani e immaginavo che se avessi avuto il potere di comandare il mondo, in certe giornate, magari un po’ rare (e ahimè sempre più rare…) quando il cielo è così blu che ti viene voglia di piangere dalla gioia, avrei imposto che tutti i motori del mondo tacessero, in ossequio al blu del cielo (nella mia testa si chiamava “legge del blu” che istituiva “la giornata del blu”…);
    14. perché ho letto quest’ultimo post sul blog di Ugo Bardi, sono andato a pescare i dati della Nasa lì (e qui) indicati e mi sono “divertito” a farne un grafico in mathlab, questo (che mi pare “parli” da solo, senza bisogno di commentare):
      andamento temperature 1880-2016 (dati NASA)

      andamento temperature 1880-2016 (dati NASA)

    15. perché non è vero che si perdono posti di lavoro: tra i promotori del referendum c’è la Fiom che, data l’aria che tira nel mondo delle politiche del lavoro, personalmente la considero una specie di garanzia;
    16. perché ieri sono entrato in negozio che vende giocattoli per bambini e ho sfogliando il catalogo di una marca lì esposta ci ho trovato scritte queste cose:
      natura
    17. perché dopo il davvero un po’ triviale “trivella tua sorella”, lo slogan giusto è finalmente arrivato:
      no_alla_trivella-sì_alla_frisella

Il tesserino (da giornalista)

Quest’anno non ho rinnovato l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti del Piemonte, cui afferisco. Nonostante la “fatica” fatta per iscrivermi e l’illusorietà che questo potesse offrire una pur minima chance per trovare lavoro – in un tempo in cui il lavoro era precario e mi barcamenavo sbarcando il lunario alla meglio – constatato che non solo così non è e che nella mia esperienza trattasi in sostanza di un inutile ammennicolo (conosco almeno un paio di fior di giornalisti che non sono iscritti né lì né altrove) per cui si paga tassa, ho deciso che in tempi di spending review era ora di chiudere il cordone di quella borsa.
Ma l’ho chiuso per la vergogna. Per la vergogna di condividere quel tesserino con persone di infimo valore morale, prezzolate e prive di ogni scrupolo e qualsivoglia senso di responsabilità. La decisione scaturì da questa notizia (poiché nel grande fiume di internet tutto scorre, allego a più imperitura memoria, a questo link il PDF della stessa notizia) che sembrò arrivare giusto nel momento di rinnovo della quota annuale, ma di esempi di pessimo giornalismo e di pessimo servizio pubblico in Italia ne abbiamo avuti molti e continuiamo ad averne.
L’ultimo, in ordine di tempo, è questo (qui il PDF) ed è quello della peggior specie e quindi quello più diffuso.
Questo “signorone” (voglio essere urbano… ma il suffisso fa rima con “coglione”), privo di una qualsiasi argomentazione di carattere scientifico, probabilmente incapace di distinguere il clima dal meteo, non trova di meglio che attaccare il conduttore sul piano “personale”, bollandolo come sadico a partire dal titolo.
Il futuro non è roseo e la magnifiche sorti non sono più tanto progressive ma questo non è quel che ci si vuol sentire raccontare in nome di una economia che pensa solo alla crescita, al PIL che deve crescere, anche se ormai dello zero zero e qualcosa. In nome dei sacri dogmi del mercato e del compra compra compra, getta getta getta. Vogliamo ancora essere liberi di stare col SUV acceso con l’aria condizionata a spippolare sui nostri cazzo di cellulari, questo il messaggio caro Luca Mercalli, “did you understand?”
In un paese serio questo signorone dovrebbe essere sospeso dal servizio per grave danno alla nazione. Perché il problema esiste e, si dà il caso che sia anche il “problema dei problemi”: quali energie per il futuro? Quali modelli di sviluppo (e NON di crescita, sono due cose ben differenti) per lasciare che nell’antropocene la Terra – che pure se l’è sempre cavata con o senza di noi (senza forse meglio, almeno per le altre specie diverse dai sapiens) – continui a essere la nostra casa? Domande troppo difficili per il signorone, a cui viene dato spazio non dal giornalino della parrocchia (che merita tutto il nostro rispetto), ma sulle colonne del «Corriere della Sera» che ho creduto ancora uno dei pochi giornali seri.
Ma mi sbagliavo.

il signorone

il signorone

We can be heroes: not only for one day

Mi rifaccio, in questo titolo, a una citazione tolkeniana (modificata), ma è un pensiero che mi è balenato alla mente questa mattina quando ho ascoltato la rassegna stampa culturale di Pagina 3, su Radio 3. Si parlava di Rosi, della Berlinale, dell’Orso d’Oro, del riconoscimento ai lampedusani e alla Sicilia, matrigna che attrae e respinge senza mezze misure coloro che hanno (anche solo in parte, come il sottoscritto) il suo sangue nelle vene.
Avevo già seguito a spizzichi e bocconi, sempre su Radio 3, un’intervista a Rosi prima della vittoria tedesca, e raccontava, aneddotico, il suo essere piombato lì, a documentario commissionato, con un po’ di frustrazione e un po’ di senso del surreale e del paradossale: nessun migrante, una procedura istituzionalizzata, l’isola in una apparente normalità, insomma: nulla da filmare. Fino a quando, sentitosi male, non si reca nell’ambulatorio dell’unico medico, il dottor  Pietro Bartolo che sarà l’uomo della svolta.
Ma non è della genesi di Fuocoammare che volevo parlare, quanto piuttosto della virtuosa storia che in esso si narra, in contrapposizione ai tanti poco virtuosi altri e variegati modi dell’essere umano che vanno dalla semplice indifferenza alla critica, al proclama politico di un’Europa che sembra non essere capace di far altro che chiudersi e chiudere le frontiere. Bartolo, e con lui la sua gente, hanno operato in silenzio. In 10 anni di attività sull’isola, si raccontava stamattina in radio (assolutamente da recuperare il podcast per chi non l’avesse ascoltato questa mattina, a questo indirizzo), dicono di lui che abbia visitato e si sia preso cura di almeno 250mila migranti. Lui non lo sa, non ha tenuto il conto. Si ricorda solo qua e là qualche episodio che gli è rimasto più impresso di altri, come quello della donna salvata in condizioni disperate e di travaglio e lui che in silenzio allestisce al volo nel suo ambulatorio una piccola sala parto e senza dire niente a nessuno, nel casino dei momenti concitati dello sbarco, la porta dentro e ne esce sfinito dopo qualche ora ma felice per essere riuscito a salvare la vita a madre e figlia. Nel frattempo si era sparsa la voce e fuori dall’ambulatorio, alla sua uscita, trova almeno una cinquantina di madri che avevano portato con sé vestitini per la neonata e la madre. O ancora tra i tanti allineati morti composti per essere messi nelle bare, trovare una ragazza che ha ancora un flebilissimo polso, correre contro la morte e salvare anche a lei l vita. Questo ricorda Bartolo di cui tutti noi, prima di questa (sovra)esposizione mediatica, non conoscevamo l’esistenza. E non ci sono discorsi, non c’è autocompiacimento, non c’è ideologia, non c’è senso di fastidio, non c’è razzismo (tutte cose che sembrano arrivare dopo, da Lampedusa in su), lì c’è solo il sorriso di chi ti dice che sta solo facendo il suo mestiere, e il rammarico e il fastidio degli isolani che si disperano solo per le vite che non sono riusciti a salvare. C’è sempre chi alza e chi abbassa la media. Queste persone l’alzano di sicuro. E sono davvero eroici, di quell’eroismo che è tale perché arriva come semplice dovere da compiere nei confronti di un prossimo disperato e in difficoltà.

Gianfranco Rosi e Pietro Bartolo a Berlino

Gianfranco Rosi e Pietro Bartolo a Berlino


 

Addio Umberto!

Difficile non essere retorici o banali di fronte alla grandezza di certi individui. Loro se ne stanno là, nell’empireo rarefatto di chi ha avuto un peso specifico forte nella cultura contemporanea, e noi quaggiù non possiamo che guardarli dall’altezza di formica a cui ci troviamo. Forse conoscendoli questa distanza si colmerebbe di colpo: in fondo Umberto Eco era un essere umano (pare che proprio questo atto ultimo che ci congiunge tutti, ne sia la più ampia dimostrazione) e avrà avuto i suoi alti e bassi, i suoi vizi e le sue virtù. Ma a me non è stata data la fortuna di incontrarlo e quindi, come la stragrande maggioranza di noi, mi sono dovuto accontentare del suo lato pubblico. E questa pur scarsa conoscenza è stata sufficiente a comprendere, come in sempre più rari casi accade, che si volta pagina, che c’è un mondo con Umberto Eco e il mondo che segue – certamente molto più povero – senza.
Manca un punto d’appoggio ed è un punto che non sta nelle “grandi cose” che Eco ha fatto/detto (dal fin troppo nominato Il nome della rosa – l’unica cosa che i giornalisti radio televisivi sembra siano stati in grado di citare nei loro “coccodrilli” di questi giorni…) ma in quelle piccole: ricordo la polemica con Oriana Fallaci sulle colonne del Corriere della Sera (mi pare lei scrivesse lì e lui rispondesse su Repubblica…) e, ancora relativamente giovane, la curiosa sensazione di percepire che è come se Eco avesse scritto la risposta alla fallace Fallaci (nomen omen?) leggendomi nel pensiero e che quelle cose avrei voluto risponderle io, ma l’avrei fatto molto peggio e di certo in modo più confuso. Per questo mi manca Eco, per la “sicurezza” e il “conforto” della condivisione di un ragionamento con uno che di sicuro ne sa più di te. Quella che, in una parola sola, si chiama autorevolezza.
E anche per lo “sdoganamento” – come, con un brutto termine, dicono sempre i giornalisti in questi giorni – del fumetto come forma d’arte, come cultura forse pop, ma di sicuro peso e rilevanza. Celebre (e anche qui già citata – ma vale la pena citarla ancora) l’introduzione ad Arriva Charlie Brown che risale al 1963, quindi in tempi veramente non sospetti. Un’introduzione che comincia impegnativa: «Charles M. Schultz è un poeta […] se ‘poesia’ vuol dire capacità di portare tenerezza, pietà, cattiveria e momenti di estrema trasparenza, come se vi passasse attraverso una luce e non si sapesse più di che pasta sian fatte le cose, allora Schultz è un poeta», e prosegue con un elogio al papà dei Peanuts.
Per questo soprattutto – oltre che per tutto il resto che pure conosco poco – mi mancherà Umberto Eco.
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