Al tuo fianco, Marcello

Ascoltavo il giornale radio questa mattina e la colazione tra un po’ mi va di traverso.
La notizia – comunicata da un’ascoltatrice (perché ci si guarda bene dal dire certe cose, mi vien da pensare…) – è che, pur a pagamento, sul Corriere della Sera di oggi è comparsa una pagina di solidarietà a Marcello Dell’Utri, condannato in via definitiva in cassazione per concorso esterno in associazione mafiosa.
Gli aspetti sconcertanti sono (secondo me):

  1. che il giornalista che conduce questa settimana “Prima pagina” su radio 3, Alessandro Campi, a commento della telefonata dell’ascoltatrice abbia balbettato qualcosa senza condannare fermamente l’episodio, a mio parere gravissimo, limitandosi a dire che la pubblicazione del redazionale (così si chiamano le pagine a pagamento dei giornali) da parte del Corsera è “inopportuna”. La mia opinione, che però non conta niente, è che dovrebbe essere invece vietata per legge se “oggetto” della pubblicazione è una persona condannata in via definitiva. Altrimenti se a me ha fatto del bene chessò, Totò Riina o Bernardo Provenzano, posso anche spendere i miei soldi per far sapere a tutta Italia che voglio loro bene. Per carità, essere adulti significa capire che buono e cattivo, bene e male albergano in ognuno di noi, nella società e nel nostro prossimo, ma quando la condanna è definitiva esiste il bene da una parte e il male dall’altra e vuol dire che se si è stati condannati l’ago della bilancia è decisamente inclinato verso il male;
  2. che il Corriere, autorevole testata nazionale, abbia pubblicato questo appello di solidarietà. Non sono certo i soldi che ha ricavato da questa operazione a migliorare il suo bilancio, credo. Ma credibilità e serietà dove stanno?

Bisognerebbe fare, come legge del contrappasso, quel che suggerisce il mio collega: voi firmatari di quell’appello, volete stare letteralmente al fianco di Dell’Utri? Bene, allora tutti nella stessa cella (magari in piedi per qualche ora, visto che sembrano essere in tanti…).
Come diceva Ed Murrow, «good night & good luck»
PS: qui di seguito le testate (non tutte…) che questa mattina hanno pubblicato la notizia:

Il redazionale Corsera

Il redazionale del Corsera

Bianca la rossa

Questo il titolo dell’autobiografia di Bianca Guidetti Serra. Pensare a lei mi fa pensare a quella generazione dei figli (che poi sono diventati nostri padri), “schiacciati” da tanta personalità: la più misera delle persone nate negli anni ’20 del secolo scorso ha avuto una storia personale – intrecciata ineludibilmente con la grande Storia – al cui cospetto i nostri padri, e pure noi che siamo figli di quei padri, siamo nulla.
Questi hanno fatto una guerra che neanche riusciamo a immaginare, in molti casi sono stati vittima di deportazione. Hanno patito freddo, fame; hanno fatto viaggi di settimane chiusi in carri bestiame o “marce della morte” per cui il solo accusare stanchezza significava venire uccisi sul bordo di una strada. Si capisce che noi, che tutto questo non abbiamo vissuto e patito, si parte da altrove.
Questo lungo cappello per dire che se poi, a tutto questo, a questa incredibile Storia che Bianca – nata nel 1919 – ha intrecciato alla sua storia personale, si unisce la virtuosa vita condotta dopo la guerra, allora si entra – come a me è accaduto leggendo la sua autobiografia – nella vera e propria venerazione.
Bianca sposa immediatamente dopo la guerra Alberto Salmoni. Se cercato su “google immagini” Alberto Salmoni la prima foto che viene fuori è quella di due giovani ritratti in montagna: uno è appunto Alberto, l’altro è Primo. Primo chi? Beh, Primo Levi, che ovviamente – svolgendosi questa storia a Torino – era amico di famiglia (qui sotto).

Primo Levi e Alberto Salmoni

Primo Levi e Alberto Salmoni


Bianca diventa avvocato in anni in cui per le donne ancora era opzionale studiare. Partecipa alla vita politica torinese e, soprattutto, nella sua attività professionale, difende le classi più deboli e diventa prima l’avvocato degli operai e poi difende i terroristi negli anni della lotta armata.
Insieme a un giovane Guariniello si occupa delle schedature Fiat (qui qualche notizia e qui le indicazioni sul libro, fuori commercio) negli anni ’70. Sul libro, che inizialmente doveva essere pubblicato da Einaudi, non si trova l’accordo sul titolo nel quale, secondo la casa editrice torinese (parliamo degli anni ’80), non doveva comparire il nome «Fiat». Bianca Guidetti Serra non vuole rinunciare a puntare l’indice sul colosso italiano e ritira il libro, ponendo come condizione che il libro stesso esca o con il titolo che lei vuole o che non se ne faccia nulla.
Einaudi rinuncia e un piccolo editore (per l’epoca), ma di qualità, sempre torinese, Rosenberg & Sellier, invece accetta: il libro uscirà nel 1984 col titolo «Le schedature Fiat. Cronache di un processo e altre cronache».
Questa era Bianca Guidetti Serra, mancata in questi giorni all’affetto dei suoi cari.
Addio Bianca, sit tibi terra levis.
Bianca la rossa

Bianca la rossa

Piccolo mondo antico: la rinascita di Borgo del Ponte

E’ sempre un po’ difficile dire del posto che ci ha letteralmente visto crescere, dove si hanno le foto – immancabilmente virate al rosso (“marchio” dei fantastici primissimi anni ’70) – del compleanno con una candelina, perché è come parlare di se stessi (e magari millantare qualche credito) o percepirsi allo specchio. Insomma, non semplice.
Borgo del Ponte, a Massa, è la borgata nella quale sono cresciuto. Vie strette che presto si fanno vicoli (e in un vicolo ho abitato tanti anni), inconsapevoli allora di come questa peculiare architettura – che ha attratto nel tempo figure popolari “singolari” così ben descritte da Emidio Mosti e Mario Nancesi in Borgo del Ponte. Un millennio di storia e tradizioni – arginasse (ma non fosse in grado di arrestare) l’avanzata dei mezzi a motore. Nel vicolo, a forma di golfo, con una corte interna, sufficiente affaccio per un pugno di case strette strette, infatti c’era lo spazio per i nostri giochi di bambini e le auto, sporadiche, erano al più una presenza da prendere a pallonate. Adesso il “golfo” è un parcheggio nel quale, a seconda del momento, con l’auto viene pure difficile uscire e nessuno lì gioca più..
Qui, per fortuna, come altrove, nell’ultimo decennio si è messo timidamente in moto il circolo virtuoso del recupero: case semiabbandonate o comunque da ristrutturare, sono state acquistate e rimesse a posto, rese decorose nel loro affaccio verso la via principale (via Felice Cavallotti). L’amministrazione ci ha messo del suo: prima con la pubblica illuminazione, non più da periferia dimenticata con le orribili campane a luce bianca, ma con bei lampioni “retrò” inseriti direttamente sulle facciate; adesso con il rifacimento della sede stradale che vede ripristinare una pseudo-piastronata (quand’ero bambino la piastronata era vera, cioè fatta di blocchi di pietra: nella versione moderna la pietra è sostituita da cemento…). Anche la popolazione si è fatta, qui come altrove, multietnica. Segno dei tempi che cambiano.
Adesso apprendo con piacere che un comitato di cittadini – nato inizialmente per “seguire” i lavori di abbellimento – sta immaginando iniziative per rivitalizzare il borgo. A capo di questo coordinamento, un vecchio amico col quale andavo in montagna tanti anni fa. Qui di seguito il trafiletto uscito oggi sulle pagine locali de «Il Tirreno».
PS: scopro che esiste addirittura una voce Wikipedia, qui.

Articolo de «Il Tirreno»

Articolo de «Il Tirreno» di oggi


 

Derek e le trame disperatissime della "deep America"

Per puro caso ho letto recensioni su due suoi film, così sono andato a vedermeli. Parlo di Derek Cianfrance, un quasi mio coetaneo – per la verità più giovane di me di 4 anni che ha sfornato un paio di film non dissimili tra loro (una sorta di “variante sul tema della disperazione”): Blue Valentine (2010) e Come un tuono (2012). La disperazione di trovarsi padre e senza mezzi, in quei particolari Stati Uniti che più rispondono al reale: spazi immensi che rimpiccioliscono e asciugano sentimenti e persone. Film lenti, come lenta è la vita nel suo procedere quando attendi il gesto degli altri, l’altrui azione e l’altrui passo, in specie quello dei bambini.
Sono film sulla paternità e il padre, un po’ eroe (nel primo caso accetta di esserlo consapevole che la bimba non è figlia sua), un po’ povero disgraziato che si arrabatta a far lavori di fatica che nessuno vuol più fare, è sempre Ryan Gosling, altro giovanissimo talento (1980) che per altro, incidentalmente, sembra il sosia di un ex borsista Cnr brasiliano che abbiamo avuto in istituto da noi.
Film, soprattutto il primo, (anche) sulle dinamiche di coppia e sulla loro complessità. Dalle incrostazioni di una vita ordinaria e, come direbbero loro (ma come diciamo anche noi, senza troppe perifrasi) “di merda”, emergono sentimenti puri, cristallini e una semplicità disarmante negli intenti nobili, magari non sempre perseguiti con mezzi altrettanto nobili. Insomma: film belli e durissimi. Bravo Derek!

Un fotogramma di "Come un tuono"

Un fotogramma di “Come un tuono”


 

Il padre infedele

Sto terminando la lettura di un candidato allo Strega (il titolo è quello del post e il suo autore è Antonio Scurati, sostanzialmente un mio coetaneo). I libri dello Strega arrivano a casa a seguito di un paio di passaggi che non sto qui a dire, aggiungendosi alla “popolazione” sovrabbondante e oltremisura da cui sono sovrastato.
L’impietoso ritratto della mia sindrome mi è stato recapitato qualche giorno fa da un’amica attraverso questo link, ma non è questo il discorso che volevo affrontare in questo post, quanto piuttosto parlare di un altro ritratto di grande lucidità che l’autore de Il padre infedele, appunto, fa nelle pagine del suo romanzo. I ritratti sono sempre di “qualcuno” o di “qualcosa”, qualche situazione, in questi casi, se non reale almeno verosimile.
Sovrapporre la propria storia a quella narrata significa identificarsi e mentalmente elogiare l’autore del libro per aver trovato “le parole per dire” ciò che spesso in noi rimane inespresso, (più o meno volutamente) tacitato. E’ ovvio che la corrispondenza non sarà mai perfetta, ma il grado di identificazione può essere un buon parametro per indicare il grado di successo (verso il singolo lettore) dell’opera.
Da qui l’idea di condividere – con i pochi che leggeranno questo post alcune pagine che ho trovato significative, che ho scansionato e che riporto a questo link – il frangente nel quale il protagonista di trova, con sua figlia. E’ buffo perché a me che di figli non ne ho, pare tutto molto “reale” e condivisibile e forse, mi vien da pensare, il vero antidoto alla tentazione di perseverare in questa astinenza sarebbe averne almeno uno, per smontare i pensieri altri e per capire che questo potrebbe non essere il mio ritratto.
Buona lettura e buon fine settimana.

Il padre infedele

Il padre infedele

La nuova "alchimia" luce-materia

Uno degli aspetti che della scienza (e non solo) mi affascina è la “capacità di sintesi” secondo il criterio della semplicità. Per esempio i pochi segni grafici come E=mc² – che credo sia una delle formule più “(ab)usate” della storia della scienza – che indicano l’equivalenza di energia, massa e quadrato della velocità della luce. Una robetta difficile da immaginare su due piedi e per la quale immaginiamo la quantità di esperimenti, formule e ragionamenti siano stati necessari per arrivarci.
Ma quella – di tutta questa storia di formule, ragionamenti, pensieri, confronti e quant’altro – ne è la “sintesi perfetta”. Una sintesi per la quale si cerca di passare, come fattivo progresso scientifico, dalla teoria alla pratica. L’alchimia, lo sappiamo, era una fanfaluca che per altro ipotizzava di mutare il piombo in oro, secondo le leggende più accreditate. Poi la chimica fanfaluca non lo è stata più e, grazie a quella “mappa” nota a tutti come “tabella periodica degli elementi”, è stato realmente possibile trasformare un elemento in un altro, scinderlo, dividerlo con reazioni controllate o – più per i fisici nucleari – “bombare” (con neutroni lenti, per esempio) trasformando ancora una volta elementi in altri.
Ma adesso la famosa equazione di Einstein, quella per la quale la materia è “convertibile” in energia (ricordate l’auto del dr. Emmett Brown che va a rifiuti?) è – o sta per diventare – realtà. Una realtà che nella sua ipotesi asintotica sarebbe il sogno (meglio: l’utopia) di creare energia (da pochissima materia, perché poca ne serve) utile a spostarsi (magari negli spazi stellari) o a scaldarsi, soprattutto “pulita” e senza residui.
Mentre al Cern con Lhc i fisici sono già riusciti a convertire materia in energia facendo sbatacchiare fasci di protoni che nei loro urti generano molte cose, tra le quali fotoni, il contrario – ovvero convertire luce in materia – non era ancora riuscito, ma… ci siamo vicini!
Qui di seguito un breve elenco di fonti (divulgative, online):

 

La DeLorean DMC-12, l'auto-macchina del tempo di Emmett Brown e il suo sistema di alimentazione (L'apparecchio compare per la prima volta alla fine del primo film; per costruirlo gli attrezzisti hanno parodiato la realtà, modificando un macina caffè, la Krups Mr. Coffee - per la precisione un modello 223A Coffina Coffee Grinder)

La DeLorean DMC-12, l’auto-macchina del tempo di Emmett Brown e il suo sistema di alimentazione (L’apparecchio compare per la prima volta alla fine del primo film; per costruirlo gli attrezzisti hanno parodiato la realtà, modificando un macina caffè, la Krups Mr. Coffee – per la precisione un modello 223A Coffina Coffee Grinder)

Al cuore, Ramon!

In questi giorni – in quell’evento mediatico che è il Festival del Cinema di Cannes – Quentin Tarantino ha voluto rendere omaggio a un suo mito: Sergio Leone (e ci aggiungo, con tutta la mia modestia, il degno compar suo: Ennio Morricone) per i 50 dalla realizzazione di Per un pugno di dollari. Il primo film della “trilogia del dollaro”.
Può piacere o non piacere, ma questi film in cui da una parte ci sono i buoni e dall’altra i cattivi, come nelle didattiche e didascaliche storie che si raccontano ai bimbi, come nei fumetti, come nel mondo che – per economia cognitiva – vorremmo vivere, a me piacciono. Nella follia di un mondo senza leggi “tangibili” – lo sceriffo del minuscolo gruppo di case sperduto nel nulla riarso che affaccia verso il Messico è in realtà il capo di una delle due fazioni in contesa – l’unica legge e l’unica “morale” è quella che hai dentro (da qui il legame, talvolta citato, con l’anarchia) e che realizzi a suo di colpi d’arma da fuoco (sia il fucile scelto da Ramon, sia la pistola, scelta dall’innominato Eastwood).
Ricordo anche che in questo modo – al cuore, Ramon! -, come nel duello finale, apostrofava noi ragazzi dell’ITIS «Galilei» Luciano Ferrari, il mio professore d’italiano, quando il duello era “per un pugno di voti (in più)”. Quel Ramon cattivo nella magistrale interpretazione di Gian Maria Volontè.
Così, in memoria, dell’uno e dell’altro ricordo, sabato sera ho dato inizio alla visione del primo film della trilogia, a cui, in queste sere, farò seguire gli altri.

Un fotogramma di "Per un pugno di dollari"

Un fotogramma di “Per un pugno di dollari”

All our yesterdays: per una domenica (ancor più) europea

Forse il miglior modo di “celebrare” la prima volta in cui come cittadino sono stato chiamato a offrire il mio voto in relazione a un organismo sovranazionale è stato andare a visitare la mostra al (bel) palazzo Lanfranchi «All Our Yesterdays. Scene di vita in Europa attraverso gli occhi dei primi fotografi (1839-1939)». Le foto, davvero suggestive (sia per il posto, sia per l’esposizione, sia per… il coinvolgimento, visto che si tratta di una mostra “2.0” nella quale si invitano i cittadini ad arricchire questo patrimonio, attraverso la digitalizzazione di queste immagini che – come singoli, appunto possiamo avere a casa: qui il regolamento…), sono proprio di tutta Europa: si va da Parigi a Bratislava passando da Vilnius e da località sconosciute della Turchia, per tornare a Cracovia e ripartire per Barcellona.
Il “racconto” fotografico è tematico e tocca i gangli vivi della società: dallo sfruttamento del lavoro minorile, al turismo di massa; dalle manifestazioni di piazza, alla foto che ritrae la vita delle classi sociali abbienti. Non mancano le foto “inquietanti”: una Monaco di Baviera deserta, in uno scorcio di piazza tra due colonnati, negli anni ’30; una foto che titolerei «La quiete prima della tempesta». O quella dei ragazzi (che a mia volta ho fotografato e qui di seguito riproduco) che, sempre negli anni ’30, si danno ad amene letture all’Ostello della gioventù “Adolf Hitler”.
Scorrendo le foto alle pareti due le cose che accomunano il patrimonio esposto:

  • la prima è che – che ci piaccia o meno – di passi avanti rispetto a certe situazioni (sociali) se ne sono fatti. E tanti. Questo ovviamente non significa che non si debbano continuare a fare, ma avere – almeno vagamente – idea del mondo da cui si viene (con bambini che nella civilissima Danimarca facevano da garzoni al lattaio PRIMA di andare a scuola nei primi anni del secolo, a cavallo delle due guerre e dopo la seconda guerra mondiale – senza che questo per altro scandalizzasse nessuno) ci aiuta a capire le “fortune” che abbiamo. Fortune che non arrivano dal cielo perché ogni diritto (di cittadinanza) è stato conquistato spesso a caro prezzo;
  • la seconda è che davvero le condizioni per le “persone” sono state le medesime un po’ ovunque in Europa perché il modello di vita, il modo – con le dovute distinzioni e con una pur grande variabilità di situazioni – sembra essere stato lo stesso. Sicuramente molto meno di quanto non lo sia adesso, in epoca di globalizzazione e standardizzazione, ma certamente le analogie sono forti. Le campagne sono state “remote” nell’Italia così come lo sono state in tante altre parti d’Europa. Identicamente la vita delle città si è somigliata molto e nelle capitali la vita è stata frenetica qui come altrove.

Forse avere questa consapevolezza è il primo passo per costruire davvero un’Europa che non si basi solo sulla moneta unica, ma che veda come nostro prossimo non solo il nostro vicino di casa, ma colui che – in un altrove pur distante (ma di una distanza che la modernità ha ridotto drasticamente) – ha avuto sorti simili alle nostre.

Ragazzini che leggono all'ostello della gioventù "Adolf Hitler" - anni '30

Ragazzini che leggono all’ostello della gioventù “Adolf Hitler” – anni ’30


Asen Hristoforov (1910-1970), l'uomo che tiene la palla, in questa scena sui gradini del Robert College di Instanbul, era uno scrittore e professore di economia bulgaro molto stimato. Nel 1951 fu accusato di spionaggio contro il suo Paese e mandato in un campo di concentramento senza processo. Dopo il suo rilascio, rafforzò la sua carriera letteraria, con la traduzione di alcuni libri inglesi, tra cui «Tra uomini in barca» di Jerome K. Jerome.

Asen Hristoforov (1910-1970), l’uomo che tiene la palla, in questa scena sui gradini del Robert College di Instanbul, era uno scrittore e professore di economia bulgaro molto stimato. Nel 1951 fu accusato di spionaggio contro il suo Paese e mandato in un campo di concentramento senza processo. Dopo il suo rilascio, rafforzò la sua carriera letteraria, con la traduzione di alcuni libri inglesi, tra cui «Tra uomini in barca» di Jerome K. Jerome.

Mine vaganti

Mine vaganti, ma nel vero senso della parola. E’ buffo come alla tragedia si aggiunga tragedia (quando si dice, fuori di metafora, che “piove sul bagnato”…) qual è quella bosniaco-croata dell’alluvione: questa pare aver dissepolto o comunque portato “a spasso” le mine confinate nei territori bombardati ancora da bonificare. E siccome l’industria bellica deve poter produrre, nella società dell’abbondanza, pare che la stima degli ordigni vaganti sia dell’ordine delle 120mila unità. Quando si dice l’abbondanza, appunto…
In un attacco di cinismo verso quell’essere umano che sono – appartenente quindi a quella stessa specie di Homo Sapiens Sapiens (? – il secondo “Sapiens” è davvero pleonastico e non ce lo meritiamo…) che quelle mine le ha fabbricate e sganciate addosso ai propri simili – ho pensato alle vignette di Bonvi, nelle cui vicende legate ai soldati di Sturmtruppen (ricordate? la presa in giro della lingua tedesca che è un italiano germanizzato, con i suffissi in “-en” finale…), compariva spesso un cartello “achtung minen!”
Il genere umano si estinguerà per idiozia. Anche e soprattutto per queste forme di idiozia…

Uno dei personaggi di "Sturmtruppen", di Bonvi

Uno dei personaggi di “Sturmtruppen”, di Bonvi

Serge Latouche e la mia vecchiaia

Del tutto fortuitamente stasera mi sono imbattuto in un incontro pubblico – organizzato nella bella sede della stazione Leopolda a Pisa – con Serge Latouche. Ne avevo sentito tanto parlare – soprattutto dall’amica Stefania – pur non avendone mai letto nulla. Principale teorico della decrescita felice, mi son trovato davanti un signore che mi ha ricordato un passato e una “militanza” ambientalista che mi pare di aver dimenticato.
Ora: i discorsi sono sempre un po’ i soliti, forse io sono invecchiato e tutto questo fervore di quelle che sottilmente ancora passano (secondo una percezione che è e rimane soggettiva) sotto traccia come parole d’ordine (un paio su tutte, stasera: “disastro” e “catastrofe”) ora hanno smesso di infervorarmi e in una qual certa misura mi stomacano un po’. Ma il problema è tutto e solo mio. Insomma il discorso – un po’ contorto e avvitato (complice forse il comunque encomiabile sforzo di parlare la nostra lingua) – ha toccato molti punti e ha oscillato tra la banalità del già sentito miliardi di volte (che Monsanto faccia i soldi con le semente non pare una novità…) e un frame narrativo secondo il quale si auspica il ritorno all’idillico mondo perduto del contadino che ti dà i suoi prodotti coltivati lì sul momento e pronti per te. Chilometro zero, “sostenibilità” e via sul registro che divide i buoni dai cattivi senza sfiorare neppure per un attimo il concetto piuttosto attuale di “complessità”, per esempio. Un modello che sembra – per certi aspetti almeno – del tutto inapplicabile.
Non che Latouche non abbia sacre (come il cibo, la terra, ecc. che sono comparsi nel suo discorso) ragioni per dire ciò che dice, ma è il modo, tra il profetico e l’oscurantista, che mi ha infastidito. Chi mi conosce sa che non sono certo uno che appoggia “le magnifiche sorti e progressive”, ma neppure penso che sia il caso di seguire i consigli per il futuro che  questo signore dispensa per evitare di incorrere nell’apocalisse prossima ventura.
Sarà che poi sto diventando allergico all’immancabile parterre di pseudo alternativi, sinistroidi radical-chic, finti freak, e altre specie lì adunate.
Sarà che poi di recente mi sono letto con gran gusto l’intervento di  Antonio Pascale nell’agile quanto denso volumetto Democrazia: cosa può fare uno scrittore? (in realtà acquistai il libro per il secondo intervento, quello dell’amico Luca Rastello).
Sarà che poi sono stanco dei “buoni”, tanto per rimanere a Rastello.
Sarà che poi, banalmente, invecchio.

Serge Latouche

Serge Latouche